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Guglielmo Cartia, memoriale, 1931

    Guglielmo Cartia, 1931
    a
    « di 4 »

    Ragusa 5-12-931

    Illustre Barone,
    Veramente quello da Lei posto non è un problemino
    ma un problemone.
    Sebbene io non presi parte alla battaglia del Pia=
    ve, 15 Giugno 1918, perché in Francia, purtuttavia
    voglio rispondere al quesito nel modo migliore che
    posso. E’ pur vero che nel primo giorno dell’offens=
    siva austriaca noi contenemmo l’attacco del Gruppo
    di Armate di Conrad[1], provenienti dai monti, ma noi
    combattevamo accanitamente sul medio e basso Piave
    per l’attacco delle Armate del Boroevich[2], Malgrado
    la nostra magnifica ed eroica resistenza, gli Austria=
    ci passarono il Piave formando una profonda e larga
    testa di ponte sulla riva destra, che minacciava
    Venezia e Treviso. Nei giorni successivi dovemmo
    impiegare la massima parte delle nostre riserve per
    fare ripassare il Piave a tutte le truppe austriache.
    E’ a conoscenza di tutti che il nostro sforzo
    fu immane, eroico ed eccessivamente logorante.
    Moltissime le perdite, moltissimo il consumo di
    munizioni, non solo per fermare l’avanzata nemica,
    ma per il violento e ben fatto nostro tiro di con=
    tropreparazione, che insieme alle riserve strategi=
    che ed organiche, ben dislocate, ci fece vincere.
    I combattenti erano estremamente stanchi per
    una lotta impari sostenuta, per sei giorni, dal 15
    al 20, e che solo il loro eroico contegno la fece

    superare superbamente. Quindi in quelle condizioni non
    credo che avremmo potuto eseguire un contrattacco in
    grande stile, con successo.
    Le riserve fresche rimaste erano poche,
    giacchè l’offerta di un Corpo d’Armata alla quarta
    Armata[3], e di uno alla sesta[4] erano ben misera cosa;
    al massimo, non poteva trattarsi che di una brigata
    per Armata, giacchè un solo Corpo d’Armata fece l’of=
    ferta, ed in totale, quindi, una Divisione e non or=
    ganica. Quelle rimaste nel piano non credo fos=
    sero molte, al massimo da due a quattro Divisioni.
    Inoltre queste riserve non erano tutte organicamente
    costituite, ciò che era un male, giacchè si vide a
    Caporetto, ove le riserve non essendo organicamente
    costituite fecero non buona prova.
    Dunque truppe estremamente logore e stanche, poco
    munizionamento e riserve scarse e inorganiche, men=
    tre il nemico aveva riserve molto più numerose delle
    nostre. Quale capo in simili condizioni avrebbe affron=
    tato un contrattacco in grande stile? Nessuno, dico io,
    di quelli che sentono la responsabilità del Comando,
    e che hanno in mano le sorti della Patria. Non si
    può dire che il nostro contrattacco avrebbe dovuto
    operarsi subito dopo il primo giorno, e cioè quando
    era stato contenuto l’attacco delle Armate del Conrad,

    poiché noi allora avevamo gli Austriaci penetrati
    fortemente sulla riva destra dell’Isonzo, e dovevamo
    pensare seriamente a fermarli ed a ricacciarli. Ope=
    rando la nostra controffensiva sui monti, il nemico
    poteva, anzi avrebbe potuto, penetrare ed avanzare di
    più sul piano. D’altro canto il nostro contrattacco
    sui monti ci avrebbe fatto trovare un terreno d’attac=
    co estremamente difficile, e dovevamo attaccare trup=
    pe preparate, giacchè gli Austriaci avevano operato
    il loro attacco principale dai monti per fare cadere,
    per manovra, la nostra fronte sul piano.
    Secondo me, non ci mancò, in quel momento, un
    vero Capitano, ma furono le nostre condizioni che non
    ci permisero di effettuare un contrattacco in grande
    stile. Il vero Capitano lo avevamo, e ce ne diede lu=
    minosa prova, e il non avere contrattaccato è una nuo=
    va dimostrazione che il Capo aveva una testa sulle
    spalle, ed una testa con molto cervello, e che lo
    fece ben ragionare.
    Chi non ha e non sente la responsabilità del Comando,
    poteva tentare un attacco che era destinato a fallire
    ed a condurci alla rovina completa, questa volta, a pio
    avviso, irreparabile. Solo un puro caso ci avrebbe potu=
    to fare ottenere un successo, ed un vero Capitano non
    giuoca su una sola probabilità – molto difficile ad

    avverarsi – le sorti dell’esercito, e più di tutto
    le sorti della Patria.
    I critici postumi non mi sono mai piaciuti, essi
    ragionano col senno del poi e con argomenti teorici
    e non pratici.
    Questa la mia modesta opinione e risposta.
    Del progetto di affidare ad un editore milanese
    la pubblicazione di alcuni scritti, a che punto?
    Io ho già pronto il mio studio sull’azione delle
    nostre truppe in Francia, ed ho quasi pronta la ma=
    teria per una seconda edizione del mio libro “Da
    Adua alla Mosa” arricchita da una sesta parte “Per
    la verità e per la storia” e con larghe annotazioni
    su molti argomenti. Le cinque parti sono sta=
    te corrette ed ampliate. Precederà una prefazione con
    i giudizi pervenutimi sulla prima edizione e che fino
    ad ora ammontano a 70, di alte personalità letterarie,
    politiche, militari, e di semplici combattenti, nonché
    recensioni pubblicate da riviste e giornali.
    Giorni fa ebbi la gradita sorpresa di una visita
    di suo genero Generale Caracciolo, che fu a Ragusa
    per ispezioni. Si parlò di tanti argomenti e specialmente di Lei
    che si rammentò con venerazione di Maestro[5].
    Vi è qui in pensione il Prof. Giuseppe Navanteri,
    che ebbe pure insegnante il Suo Illustre Padre alla
    Università di Roma.
    Con ogni considerazione e stima.
    Generale
    G Cartia[6]


    Note

    Una premessa sul memoriale:
    Il testo fa riferimento a un dattiloscritto fornito dal Barone Lumbroso ai vari generali che riporta il contenuto della questione sollevata dal Generale Monti[7], relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad.

    [2] Svetozar Boroević. Feldmaresciallo austriaco, nato a Umetic (Croazia) il 13 dicembre 1856, morto il 13 maggio 1920 a Klagenfurt. Comandante il VI corpo d’armata, si segnalò nella battaglia di Komarów (29 e 30 agosto 1914), ove fu sconfitta la V armata russa, e il 4 settembre fu nominato comandante della III armata. Alla testa di tale grande unità partecipò alla battaglia di Leopoli, la quale, malgrado i successi locali conseguiti dal B., terminò con la ritirata dell’esercito austroungarico (11 settembre), che abbandonò ai Russi circa centomila prigionieri e tutta la Galizia. L’armata del B. nell’autunno del 1914 fu destinata alla difesa dei Carpazî. Nella battaglia di Limanowa (dicembre 1914), nella quale i Russi dopo lunga lotta furono arrestati nella loro avanzata minacciosa verso la Slesia, il B. avrebbe dovuto, scendendo dai monti, attaccare sul fianco sinistro i Russi e produrre la decisione, ma dopo qualche successo, nuovi rinforzi giunti all’avversario costrinsero (Natale 1914) il B. a ritirarsí dopo aspri combattimenti presso Jasło, sino alla cresta dei Carpazî, che difese con grande tenacia. Di fronte agli attacchi ostinati dei Russi il B. seppe cedere poco terreno, senza compromettere la solidità della difesa.
    Le forze del B. in unione alla II armata tentarono invano nel marzo di liberare il campo trincerato di Przemysł che il 22 marzo dovette arrendersi. Con le forze rese cosị disponibili i Russi rinnovarono persistenti e sanguinosi attacchi specialmente contro il centro e la destra delle truppe del B., talchḫ fu necessario inviare in rinforzo il corpo d’armata tedesco detto dei Beschidi, con l’aiuto del quale i Russi vennero respinti.
    Dopo la battaglia di Gorlice (2 maggio 1915) i Russi furono costretti alla ritirata e l’armata del B. passn̄ all’offensiva contro l’avversario che ripiegava sull’intera fronte. Il 27 maggio 1915 al B. venne affidato il comando della nuova V armata destinata allo scacchiere italiano per la difesa della fronte dal Monte Nero al mare. Da allora il B. rimase nel teatro d’operazioni italiano. La V armata prese dal gennaio 1916 il nome di armata dell’Isonzo; il 23 agosto 1917 essa fu divisa in due armate, la I e II armata dell’Isonzo, le quali costituirono il gruppo d’armata Boroević.
    Il B. diresse tutte le operazioni alla fronte giulia: egli ebbe quindi parte preminente nella tenace difesa che l’esercito imperiale oppose alle nostre offensive durante gli anni 1915-16-17: nonostante però il valore delle truppe e l’abilità dei capi e i continui rinforzi tratti dalla fronte russa, la nostra azione poderosa aveva portato l’esercito austriaco vicino allo sfacelo, tanto che l’Austria fu costretta a ricorrere alla Germania, la quale inviò alla fronte giulia un’armata per effettuare l’offensiva di Caporetto. In questa operazione si verificarono fra l’armata di destra del B. e le truppe vicine attriti e contrattempi che diedero motivo a gravi accuse da parte degli avversarî del B. Il generale di fanteria Alfredo Krauss, che fu capo di Stato maggiore delle forze austriache alla fronte italiana e che comandò durante l’offensiva di Caporetto il I corpo d’armata austriaco alla dipendenza della XIV armata tedesca (conca di Plezzo), nella sua opera Die Ursachen unserer Niederlage afferma che il B. rimase troppo lontano dalle truppe operanti e che egli con inopportuni ordini motivati da invidia “salvò la III armata italiana”. Il generale austriaco soggiunge che la limitata capacità del B. era ben nota nell’esercito ed anche al comando supremo. Tali aspri giudizî sono un’eco evidente degli attriti esistenti nell’esercito austriaco fra comandanti di differenti nazionalità.
    Raggiunto il Piave e partita la XIV armata germanica, la fronte dal mare al Grappa fu affidata al B. (nel febbraio promosso feldmaresciallo), mentre la fronte montana era affidata al Conrad. Nell’offensiva del giugno, secondo il primitivo disegno d’operazione, l’attacco decisivo avrebbe dovuto essere effettuato esclusivamente dal Conrad, mentre un compito soltanto dimostrativo era affidato al gruppo B. Questi avrebbe preferito non dare battaglia, per conservare le forze intatte in vista di una prossima pace; ma, come afferma il generale tedesco Cramon (allora addetto al Comando supremo austro-ungarico) nel suo libro Unser österreichischungarischer Bundesgenosse, il B. non era un uomo da accontentarsi, una volta decisa l’offensiva, d’incarichi secondarî. In tal modo l’attacco, diluito pressoché sull’intera fronte, perdette di vigore e naufragò miseramente. Tuttavia, mentre l’offensiva del Conrad fu stroncata sin dal primo giorno, le truppe del B. riuscirono a passare il Piave e a mantenervisi, sia pure in ristretto spazio, per alcuni giorni; ma il 20 giugno, cioè cinque giorni dopo l’inizio dell’offensiva, il B. dichiarò esplicitamente al Comando supremo che, se si voleva evitare una catastrofe, occorreva ritirare le truppe sulla sinistra del Piave. Dopo una giornata di esitazioni dovute a motivi politici, l’imperatore si piegò alle ragioni militari del B.
    L’attacco italiano dell’ottobre 1918 fu da principio diretto contro il gruppo dell’esercito Boroević, prima sul Grappa, dove le truppe imperiali opposero accanita ed efficace resistenza, poi sul Piave. Ma dopo che le forze nostre ebbero guadagnato a viva forza il passaggio del fiume, l’esercito, seguendo l’esempio del paese, incominciò a sconnettersi, e il maresciallo dovette assistere impotente alla ritirata e alla dissoluzione dell’esercito imperiale.
    Il B., generale stimato in pace per la sua elevata capacità, si era dimostrato a Komarów comandante di corpo d’armata prudente e nello stesso tempo energico e tenace. Il suo ordine del giorno nell’assumere il comando dell’armata incomincia: “Soldati, io vengo a voi come vincitore…” In realtà il B. d’allora in poi non conobbe più la vittoria vera, perché le sue azioni fortunate furono riflesso di successi altrui. È però certo ch’egli mostrò, sia sui Carpazî sia sull’Isonzo, fermezza ed energia non comuni, non mai smentite durante oltre quattro anni di guerra.(fonte)

    [3] Quarta Armata (Regio Esercito). La 4ª Armata deriva dal Comando designato d’armata di Bologna, trasformato nell’ottobre 1914 nel Comando della 4ª Armata.
    All’entrata in guerra dell’Regno d’Italia, il 24 maggio 1915, la 4ª Armata, al comando del tenente generale Luigi Nava e quartier generale a Vittorio Veneto, aveva alle sue dipendenze il I Corpo d’armata del tenente generale Ottavio Ragni, il IX Corpo d’armata del generale Pietro Marini e il Comando zona Carnia del tenente generale Clemente Lequio. Capo di stato maggiore dell’armata era il maggior generale Oreste Bandini.
    La grande unità schierava le proprie forze dal Passo Cereda al Monte Peralba (sorgenti del Piave) su un fronte di circa 75 km e negli intenti del generale dell’esercito Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, doveva passare all’offensiva generale iniziando con l’espugnazione dei forti di Sexten, Landro e Valparola, con un’azione di spiccato carattere e vigore. Il primo obbiettivo delle operazioni doveva esser quello di impadronirsi alla destra del nodo di Toblach e alla sinistra dei colli circostanti al gruppo montuoso del Sella.
    La 4ª Armata non riuscì a realizzare le aspettative, e il generale Nava si segnalò come il più attendista dei comandanti d’armata italiani. Alla fine del giugno 1915 Nava chiese l’esonero del generale Pietro Marini, comandante del IX Corpo d’armata, colpevole di aver occupato imprudentemente la selletta del Sasso di Stria e Cadorna, che non condivideva la stima di cui Nava era pressoché unanimemente accreditato, accettò la richiesta, ma il 25 settembre dello stesso anno esonerò anche Nava, sostituendolo con il tenente generale Mario Nicolis di Robilant.
    La motivazione ufficiale fu che: nei primi quindici giorni di operazioni non ha agito con prontezza ed energia, sfruttando la sua superiorità di forze, e ha esercitato il comando con insufficiente decisione.
    La 4ª Armata prese parte alla battaglia di monte Piana, una lunga e sanguinosa serie di scontri in montagna avvenute sulla sommità del monte Piana, uno dei teatri più sanguinosi e statici di tutta la guerra, facente parte del massiccio delle Dolomiti di Sesto, dove tra il 1915 e il 1917 si consumarono alcuni dei più violenti scontri tra soldati italiani e austro-ungarici che per ben due anni lottarono sulla sommità pianeggiante di questo monte.
    A seguito della disfatta di Caporetto alla 4ª Armata fu ordinato dal generale Cadorna di ritirarsi nei pressi del monte Grappa, ma Nicolis di Robilant, che forse non si era reso conto della gravità della situazione, ordinò di ripiegare con un ritardo che causò la cattura di circa 11.500 uomini, intrappolati dalle forze di Otto von Below; a questo suo grave errore comunque Nicolis di Robilant rispose poco tempo dopo vincendo la prima battaglia del Piave.
    Nel febbraio del 1918 Nicolis di Robilant lasciò il comando della 4ª Armata, per passare al comando della 5ª Armata, al tenente generale in comando di armata Gaetano Giardino, che si preoccupò di incrementare le difese del massiccio del Grappa, che rappresentava l’ultimo ostacolo naturale fra il fronte e la pianura veneta e di migliorare anche le comunicazioni e, soprattutto, le condizioni di vita delle truppe che difendevano la posizione, sia in trincea sia nei periodi di riposo e inoltre, nel campo dell’impiego tattico delle truppe, si preoccupò di innovare i metodi di combattimento, introducendo nella dottrina tattica della sua armata sia i reparti d’assalto sia il tiro di contropreparazione dell’artiglieria. Tale preparazione delle truppe su istruzioni tattiche più moderne fu salutare nel corso della battaglia del solstizio, quando il fronte, dopo un iniziale sbandamento, fu ripristinato utilizzando il 9º reparto d’assalto, comandato dal maggiore Giovanni Messe e all’azione congiunta delle artiglierie della 4ª e della 6ª Armata. Nel corso della battaglia di Vittorio Veneto l’Armata del Grappa, che aveva alle sue dipendenze il IX Corpo d’armata del tenente generale Emilio De Bono, il VI Corpo d’armata del tenente generale in comando di corpo d’armata Stefano Lombardi, si batté nelle operazioni che si svolsero dal 24 al 29 ottobre 1918, perdendo 25 000 uomini.
    Il 18 luglio 1919 l’Armata del Grappa venne sciolta.(fonte)

    [4] Sesta Armata (Regio Esercito). Le origini della grande unità risalgono al 28 maggio 1916 quando venne costituito il Comando truppe altipiani, che venne posto alle dipendenze tattiche della 1ª Armata e immediatamente impiegato per arginare l’offensiva austriaca in Trentino, la cosiddetta Strafexpedition o Frühjahrsoffensive (“offensiva di primavera”). Fortemente voluta e pianificata dal Capo di Stato maggiore dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico, feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, l’offensiva aveva il dichiarato intento di annientare l’Esercito Italiano scatenando una poderosa offensiva attraverso le linee della 1ª Armata, per prendere di rovescio l’intero schieramento italiano. Successivamente il Comando truppe Altipiani venne schierato tra la Val d’Astico e la Valle del Brenta.
    Il 1º dicembre 1916 il Comando truppe altipiani fu trasformato nel Comando della 6ª Armata, prendendo parte, dal 10 al 29 giugno 1917, al comando del generale Ettore Mambretti alla battaglia del monte Ortigara sull’altopiano dei Sette Comuni, attaccando in forze il settore austro-ungarico difeso dall’11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel. Il 20 settembre 1917 il Comando della 6ª Armata venne trasformato nuovamente in Comando truppe altipiani, che venne definitivamente sciolto il 1º marzo 1918, e venne ricostituito nella stessa data il Comando della 6ª Armata, al comando del Tenente generale Luca Montuori, distinguendosi particolarmente durante la battaglia del Solstizio e nel mese di ottobre in quella di Vittorio Veneto.
    Alla vittoria nella battaglia del Solstizio contribuì notevolmente il comando artiglieria del Maggior generale Roberto Segre, grazie alla tattica della “contropreparazione anticipata”, con cui l’artiglieria della parte in difesa non si limita ad attendere il tiro di preparazione avversario, ma lo eguaglia o lo anticipa, non limitandosi al fuoco di controbatteria ma prendendo di mira anche i luoghi di adunata delle truppe avversarie, fiaccandone così la spinta offensiva. Questa tattica permise di bloccare sul nascere l’offensiva austro-ungarica sugli Altipiani, tanto che le artiglierie di Segre poterono essere distolte dal proprio fronte per intervenire in difesa del settore occidentale del Grappa..
    Tra le file della 6ª Armata vi è stato, presso l’Ufficio informazioni, dal dicembre 1916 al luglio 1917, il Capitano pilota (ex del 6º Reggimento alpini e decorato anche nella Guerra italo-turca) Armando Armani futuro Capo di stato maggiore della Regia Aeronautica.
    Il 10 maggio 1917 venne costituito il Comando Aeronautica che aveva alle dipendenze il VII Gruppo, poi 7º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre. L’8 novembre successivo venne chiuso il Comando Aeronautica ed il 17 marzo 1918 venne costituito l’Ufficio di Aeronautica con il Maggiore Ermanno Beltramo che aveva sempre alle sue dipendenze il VII Gruppo. Dal 4 ottobre 1918 la 6ª Armata ricevette alle sue dipendenze il XXIV Gruppo aereo.
    Al termine del conflitto, il 1º luglio 1919 la 6ª Armata venne definitivamente sciolta.(fonte)

    [5] Alberto Emanuele Lumbroso Nacque a Torino il 1o ott. 1872, in una famiglia israelita, unico figlio di Giacomo e di Maria Esmeralda Todros, di nazionalità francese.
    Il nonno paterno, Abramo, protomedico del bey di Tunisi, aveva ottenuto nel 1866 da Vittorio Emanuele II il titolo di barone per meriti scientifici e per speciali benemerenze. Il padre del L., Giacomo, era nato a Bardo, in Tunisia, nel 1844. Ellenista e papirologo di fama internazionale, dal 1874 socio della Deutsche Akademie der Wissenschaften, influenzò fortemente l’educazione e la formazione intellettuale del Lumbroso. Trasferitosi a Roma intorno al 1877, divenne accademico dei Lincei (1878) e pubblicò la sua opera principale, L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani (Roma 1882), ottenendo nello stesso 1882 la cattedra di storia antica all’Università di Palermo. Con il medesimo insegnamento, nel 1884, si trasferì a Pisa, quindi, nel 1887, nuovamente a Roma dove insegnò storia moderna alla “Sapienza” (vedi le Lezioni universitarie su Cola di Rienzo, ibid. 1891). Giacomo morì a Rapallo nel 1925.
    I trasferimenti del padre lasciarono notevoli tracce nella formazione del giovane L.; tra le sue prime esperienze romane si ricordano la frequentazione delle case di T. Mamiani e di Q. Sella, dove divenne amico di S. Giacomelli, nipote di questo; in Sicilia rimase affascinato da G. Pitrè e, nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari da lui diretto, pubblicò nel 1896 il suo primo articolo.
    Nel periodo pisano il L. continuò con successo gli studi e sviluppò una notevole passione per la cultura erudita, collezionando autografi, raccogliendo motti, proverbi e notizie folkloristiche, sempre in perfetta sintonia con il padre. Tornato a Roma si diplomò al liceo classico E.Q. Visconti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si appassionò al periodo napoleonico, laureandosi, intorno al 1894, con una tesi su Napoleone I e l’Inghilterra (poi rielaborata e pubblicata in volume: Napoleone I e l’Inghilterra. Saggio sulle origini del blocco continentale e sulle sue conseguenze economiche, Roma 1897). Gli studi napoleonici occuparono interamente il L. fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. La frequentazione di ambienti intellettuali ed eruditi italiani (soprattutto romani, torinesi e, più tardi, napoletani) e francesi, l’assoluta familiarità con la lingua della madre e lo sviluppo di un talento compilativo dimostrato fin dalla prima giovinezza portarono il L. alla realizzazione di un gran numero di pubblicazioni.
    Tra il 1894 e il 1895 uscirono i cinque volumi del Saggio di una bibliografia ragionata per servire alla storia dell’epoca napoleonica (Modena), circa mille pagine dedicate alle lettere “da A a Bernays” (l’opera resterà incompiuta) e tra il 1895 e il 1898 le sei serie della Miscellanea napoleonica (Roma-Modena), altra cospicua opera erudita di oltre millecinquecento pagine che raccoglieva memoriali, lettere, canzoni, accadimenti notevoli e minuti forniti da studiosi europei e introdotti dal L.; nella Bibliografia dell’età del Risorgimento V.E. Giuntella li definì “saggi bibliografici che, sebbene arretrati, possono ancora essere utilmente consultati” (I, Firenze 1971, p. 405).
    L’interesse per il periodo napoleonico portò il L. a Napoli, in cerca di notizie e documenti su Gioacchino Murat. Suo interlocutore privilegiato in quella città fu B. Croce: il L. frequentò la casa del filosofo negli ultimi anni del secolo e i rapporti epistolari tra i due si protrassero a lungo.
    I maggiori lavori napoletani del L. furono la Correspondance de Joachim Murat, chasseur à cheval, général, maréchal d’Empire, grand-duc de Clèves et de Berg (julliet 1791 – julliet 1808 [sic]), (prefaz. di H. Houssaves, Turin 1899 e L’agonia di un Regno: Gioacchino Murat al Pizzo (1815), I, L’addio a Napoli, prefaz. di G. Mazzatinti, Roma-Bologna 1904.
    Alla fine del secolo il L. fu organizzatore e presidente operativo del Comitato internazionale per il centenario della battaglia di Marengo (14 giugno 1800-1900): chiamò alla presidenza onoraria G. Larroumet, professore della Sorbona e accademico di Francia, ottenendo la partecipazione onoraria di noti intellettuali tra cui G. Carducci, B. Croce, G. Mazzatinti, C. Segre, A. Sorel, le cui lettere di adesione furono via via pubblicate nel Bulletin mensuel du Comité international; nel 1903, accompagnato da una lettera-prefazione di Larroumet, fu edito il primo tomo, poi rimasto senza seguito, dei Mélanges Marengo (s.l. [ma Frascati] né d.).
    Ancora una volta il L. usa uno stile cronachistico, cerca e pubblica ogni genere di fonte, prediligendo quelle dirette. A tale scopo rintraccia figli e nipoti dei personaggi che descrive; caso emblematico quello dei “Napoleonidi”: e infatti, grazie ai suoi lavori e alle sue frequentazioni parigine, divenne “Bibliothécaire honoraire de S.A.I. le prince Napoléon” [Vittorio Napoleone]; pubblicò poi Napoleone II, studi e ricerche. Ritratti, fac-simili di autografi e vari scritti editi ed inediti sul duca di Reichstadt (Roma 1902), Bibliografia ragionata per servire alla storia di Napoleone II, re di Roma, duca di Reichstadt (ibid. 1905) e – più tardi – redasse le voci su Napoleone I e i Napoleonidi per il Grande Dizionario enciclopedico UTET (1937, VII, pp. 1100-1150). A coronamento dei suoi interessi per i Bonaparte, nel 1901 il L. fondò e diresse la Revue napoléonienne, bimestrale (ma, dal 1908, mensile) che uscì fino al 1913, coinvolgendo nell’iniziativa un gran numero di studiosi italiani e francesi.
    L’interesse per la cultura d’Oltralpe lo portò a pubblicare anche lavori su Voltaire (Voltairiana inedita, Roma 1901), Stendhal (Stendhaliana: da Enrico Beyle a Gioacchino Rossini, Pinerolo 1902) e soprattutto Maupassant (Souvenirs sur Guy de Maupassant: sa dernière maladie, sa mort. Avec des lettres inédites communiquées par madame Laure de Maupassant et des notes recueillies parmi les amis et les médecins de l’écrivain, Genève-Rome 1905), scritto durante un lungo soggiorno parigino.
    Nel 1898 il L. era intanto diventato consigliere della Società bibliografica italiana e probabilmente nel contesto culturale della Società conobbe Carducci, cui dedicò, postuma, una Miscellanea carducciana (con prefaz. di B. Croce, Bologna 1911), raccolta di notizie critiche, biografiche e bibliografiche sul poeta.
    Nel 1897 aveva sposato Natalia Besso, dall’unione con la quale nacquero Maria Letizia (1898) e Ortensia (1901). Nel 1901 l’intera famiglia abbracciò la religione cattolica. Nel 1904 il L. donò la sua ricca biblioteca napoleonica (circa trentamila volumi e opuscoli) alla Biblioteca nazionale di Torino, da poco distrutta in un incendio. Nel 1907 assunse, con A.J. Rusconi, la direzione della Rivista di Roma e, a partire dal 1909, ne divenne direttore unico.
    La direzione della Rivista rappresentò una svolta nei suoi interessi e nei suoi studi, che da internazionali ed eruditi divennero più “patriottici”, legati a eventi del Risorgimento e della storia italiana (in particolare il L. sì appassionò alla riabilitazione dell’ammiraglio C. Pellion di Persano e, oltre agli articoli apparsi nella Rivista, sull’argomento pubblicò La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda: la verità sulla campagna navale del 1866 desunta da nuovi documenti e testimonianze, Roma 1910, seguita da ulteriori approfondimenti, tra cui Il carteggio di un vinto, ibid. 1917). Tra coloro chiamati dal L. a collaborare alla Rivista – che dal primo momento egli volle “crispina, salandrina e antigiolittiana” e, dopo la guerra, “antibonomiana e antinittiana” (Premessa, s. 3, XXXII [1928], 1) – D. Oliva, E. Corradini, L. Ferderzoni, A. Dudan.
    Dal 1909 G. D’Annunzio collaborò alla Rivista di Roma. Il contatto diretto portò in breve tempo il L., inizialmente piuttosto critico nei confronti del poeta (si veda del L. Plagi, imitazioni e traduzioni, in Id., Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo(, Frascati 1902, pubblicazione che Croce aveva particolarmente apprezzato), a divenirne ammiratore e paladino, fino a entrare in forte polemica sia con lo stesso Croce sia con G.A. Borgese; nel 1913, nel cinquantesimo anniversario di D’Annunzio, volle dedicargli l’intero n. 6 della Rivista; nello stesso anno il L. fu attivo nel Comitato pro Dalmazia italiana e, nel 1914, diede vita a un Comitato pro Polonia del quale offrì la presidenza onoraria al poeta.
    Approssimandosi la guerra, la Rivista di Roma svolse campagne in favore dell’intervento e, nel 1915, lo stesso L. partì volontario col grado di sottotenente. Promosso tenente, dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto presso l’ambasciata italiana ad Atene e, al termine del conflitto, fu insignito del cavalierato nell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per benemerenze acquisite in guerra.
    Nel 1924, ormai di fatto separato dalla moglie, il L. si trasferì a Genova dove riprese la pubblicazione della Rivista di Roma, sospesa nel biennio 1922-23, che diresse fino al 1932. A Genova ebbe due figli, Emanuele e Maria Tornaghi, nati nel 1918 e nel 1919 da Adriana Tornaghi, con la quale aveva a lungo convissuto.
    Dopo la morte del padre, il L. ne pubblicò la bibliografia (in Raccolta di scritti in onore di Giacomo Lumbroso, Milano 1925); fin dal 1923 aveva collaborato con Critica fascista, e nel 1929 inviò suoi libri a B. Mussolini e chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista. I lavori più consistenti del L. negli anni Venti e Trenta furono dedicati principalmente alla Grande Guerra e a personaggi della casa reale.
    Bibliografia ragionata della guerra delle nazioni: numeri 1-1000 (scritti anteriori al 1  marzo 1916), Roma 1920; Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, I-II, Milano 1926-28; Carteggi imperiali e reali: 1870-1918. Come sovrani e uomini di Stato stranieri passarono da un sincero pacifismo al convincimento della guerra inevitabile, ibid. 1931; Cinque capi nella tormenta e dopo: Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Giardino, Thaon di Revel visti da vicino, ibid. 1932; Da Adua alla Bainsizza a Vittorio Veneto: documenti inediti, polemiche, spunti critici, Genova 1932; Fame usurpate: il dramma del comando unico interalleato, Milano 1934.
    Fra gli ultimi volumi pubblicati dal L. si ricordano ancora: Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, con uno studio sulla campagna del 1848 e con un’appendice di documenti inediti o sconosciuti tradotti sugli autografi francesi del re da Carlo Promis (s.l. 1935) nonché, per i “Quaderni di cultura sabauda”, I duchi di Genova dal 1822 ad oggi (Ferdinando, Tommaso, Ferdinando-Umberto), ed Elena di Montenegro regina d’Italia (entrambi Firenze 1934).
    Grazie al suo prestigio personale e all’adesione al cattolicesimo risalente al 1901, i Lumbroso furono discriminati dall’applicazione delle leggi razziali del 1938, ma il L. non pubblicò più. Il L. morì a Santa Margherita Ligure l’8 maggio 1942.(fonte)

    [6] Guglielmo Cartia (Ragusa, 2 febbraio 1865 – Ragusa, 26 maggio 1944) è stato un generale e saggista italiano.
    Era figlio di Pietro (1822) e Concetta Manenti (1837), terzogenito della coppia, nato in Via Sant’Anna a Ragusa Superiore. Gli altri fratelli, Luigi e Giovanni, si dedicarono rispettivamente alla finanza e alla politica. Luigi contribuì alla fondazione di un istituto di credito a Ragusa nel 1889, la Banca Popolare Cooperativa, che si trasformò poi, nel 1935, nella Banca Agricola Popolare di Ragusa. Giovanni si dedicò invece all’attività politica; nel 1885 venne eletto sindaco di Ragusa e successivamente deputato al Parlamento italiano nelle legislature del 1909 e 1913.
    Guglielmo decise invece di dedicarsi alla carriera militare e, dopo gli studi presso l’Accademia militare di Modena, nel 1896 venne inviato in Africa, da sottotenente di nuova nomina, partecipando alla battaglia di Adua. Quando venne dichiarato l’inizio della prima guerra mondiale, Cartia era di stanza a Rodi, in Grecia, con l’incarico di comandante del 26º Battaglione bersaglieri “Castelfidardo” inquadrato nel 4º Reggimento bersaglieri con il grado di maggiore e nel luglio 1916 rientrò in Italia e venne destinato al comando del 96º Reggimento fanteria sul fronte dell’Isonzo.
    A Cartia venne chiesto di ricostruire il Reggimento dopo la decimazione dallo stesso subita nella campagna della battaglia degli Altipiani. Il 9 agosto 1916 ebbe l’ordine di attraversare l’Isonzo mentre la zona veniva bombardata dagli austriaci appostati sulle alture prospicienti il fiume. Onde evitare gravi perdite al suo Reggimento, decise di spostare più a nord la zona di attraversamento, disobbedendo di fatto agli ordini ricevuti, ma salvando la vita a molti dei suoi uomini. La sua scelta, nonostante fosse in contrasto con le superiori direttive, ebbe successo. Invece il 95º Battaglione, il cui comandante aveva seguito gli ordini ricevuti, andò incontro ad una carneficina, A seguito del fatto Cartia si rapportò coi suoi superiori per scongiurare ulteriori inutili spargimenti di sangue.
    Guglielmo Cartia fu ferito a Merna e, rifiutando un periodo di congedo, assunse subito il comando del 3º Reggimento bersaglieri. Nell’agosto 1917, promosso generale, gli venne affidato il comando della Brigata meccanizzata “Brescia” e venne destinato all’altopiano della Bainsizza. Nell’assumere il comando si rese conto che la sua unità era in stato di completa anarchia e si adoperò subito per la sua riorganizzazione, ma appena pochi giorni dopo ricevette l’ordine di prendere il posto delle Brigate Venezia e L’Aquila. La Brigata Brescia, in situazioni di grave disagio, resistette per 35 giorni prima di subire la disfatta di Caporetto.
    Guglielmo Cartia si distinse specialmente per la tattica militare e per l’attenzione alla psicologia dei soldati e anche per queste sue doti, nel novembre 1917, il generale Alberico Albricci lo volle inquadrare nel II Corpo d’Armata destinato alla spedizione in Francia.
    La riorganizzazione del Corpo d’Armata avvenne sul lago di Garda e nell’aprile del 1918 venne inviato a combattere in Francia. Qualche generale francese definì poi i suoi reparti come gli “sbandati di Caporetto”.
    Dopo lunghi combattimenti e perdite umane, negli ultimi giorni di ottobre 1918, il generale Cartia passò al contrattacco portando i tedeschi alla ritirata. Finito il conflitto, il corpo d’armata italiano fu mandato in Belgio per la vigilanza delle frontiere. Rientrato in Italia, il 9 marzo 1919, il generale Cartia ed i suoi uomini ricevettero a Torino l’omaggio dei compatrioti.
    Nel 1931 venne dato alle stampe un libro di memorie dal titolo Da Adua alla Mosa, che ebbe una seconda edizione nel 1933, quindi uno sul generale Barattieri e un altro sulla spedizione in Francia, a cui seguirono altri due saggi su architetture dell’isola di Rodi e sull’Ordine di Malta.(fonte)

    [7] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
    Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.
    L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.
    Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)