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Roberto Segre, memoriale, 1931

    Roberto Segre, 1-12-1931
    biglietto

    Milano, 1 dicembre ‘31

    Gent. mo Barone,
    Suole, in restituzione, il Suo appunto con
    qualche mia nota; e oggi mando a cercare il Corriere.
    Cordialmente, Suo

    Gen. Roberto Segre

    Roberto Segre, critica. 1-12-1931
    Sulla critica

    (1)  CRITICA[Riflessione] DI UN GENERALE DI DIVISIONE [Sull] ALL’OPERATO DEL COMANDO SUPREMO PER LA
    BATTAGLIA DEL 15[-20]  GIUGNO 1918

    Mentre il Comando Supremo austriaco (Arz) e il Comandante del gruppo
    a nord (Conrad)
    preparavano la[sua] loro offensiva (principale a ovest del Brenta
    e secondaria a est del Brenta)
    , il nostro Comando Supremo[1] preparava anch’esso
    una offensiva, di cui lo sforzo principale doveva essere compiuto precisamente
    dalla 6 armata[2] contro Conrad[3]. Tutto da parte italiana era predisposto. [Non esattissimo]
    (2)  Ora si domanda come mai, essendo stato lo sforzo austriaco stroncato[sui monti]
    (3)  sin dal primo giorno di battaglia, non si sia poi dal nostro Comando posto in
    esecuzione l’attacco in largo stile già preparato. Che a nord noi avessimo
    (4)  truppe disponibili per eseguire il piano; è provato dal fatto che uno dei Corpi
    d’Armata della 4 Armata[4] (del Grappa comandata da Giardino[5]) [non esatto] mise a disposizione
    del proprio Comando d’Armata le sue riserve, dichiarando di non averne più biso=
    gno. Lo stesso avvenne alla 6°. [Sì la 6a che offrì le riserve – possibiltà]
    Quel giorno se il nostro Comando Supremo avesse avuto alla propria testa un
    (5)  vero Capitano, si sarebbe iniziata una vasta operazione che avrebbe gettato a
    terra l’Impero Austro-Ungarico. Ma per tentare cose grandi bisogna
    saper giocare la propria carta buona, e il nostro Comando era irrisoluto [deficiente*]. Non sa l’Arte
    della guerra chi si lascia sfuggire le buone occasioni. Il 15[dal 16]  giugno a sera il
    gruppo di Armate di Conrad non avrebbe certamente[probabilmente] potuto resistere ad una offen=
    siva su largo stile. E’ vero che sul Piave non avevamo trionfato come sul fron=
    te della 6 e 4 Armata, ma appunto per questo dovevamo approfittare della buona
    occasione che il fato ci porgeva proprio nel settore dove avevamo preparato
    un attacco… che poi non facemmo.

    * non irrisoluto e non all’”altezza”; e
    l’altra non all’”altezza”, e poi già
    “ferito in un’ala; e, d’altronde, in
    sottordine.

    Roberto Segre, note sulla critica, 1-12-1931
    note sulla critica

    NOTE.

    1. L’attacco nemico del 15 giugno 1918 non fu soltanto dai monti: Alti-
      piani – Grappa (Conrad), ma anche dal Montello – Piave (Boroevic[6]).
    2. L’ufficio Informazioni della 6° armata aveva avvertito che il 15 il
      nemico avrebbe dato un ATTACCO A FONDO sulla fronte contrapposta
      (e, se pure meno recisamente, qualcosa di analogo aveva anche ri-
      ferito l’Uff. Inf. della 4°). (L’intenzione e i preparativi contem-
      poranei di Boroevic sfuggirono invece del tutto alle nostre armate
      del Montello (5°[7]) e del Piave (3°[8])).
      Il 15 giugno, l’informazione della 6° armata risulta giustissima
      (e si rivela anche l’attacco dal Montello – Piave).
      A sera (di quel 15 giugno) l’attacco a fondo del nemico sugli Al-
      ltipiani risulta SICURAMENTE stroncato; e già il 16 la 6° armata dà
      al C. S. disponibili le proprie riserve. E anche l’attacco concorren-
      te al Grappa è stroncato – a malgrado del cedimento alla estrema
      sinistra della 4° armata. cui è rimediato subito. E presso ta-
      lun comando di C.A. di quest’armata (sulla destra – meno premuta) si ha il sentimento
      di poter passare al contrattacco.
    3. È chiaro che, dei due attacchi austro-ungheresi–, dai monti e del
      Montello – Piave – quello dai monti era per noi di gran lunga il
      più pericoloso. E infatti fu quello principale, nel pensiero nemi-
      co. Lo stroncamento dell’attacco dai monti voleva dunque dire lo
      stroncamento dell’attacco principale del nemico.
      Se, dunque, il nostro C. S. aveva preparato un proprio attacco pei
      monti – contro, evidentemente, tutto il nemico —, le condizioni al
      16 giugno gli erano più favorevoli del presunto, perché gran parte
      del nemico aveva già avuta una grande batosta ( cosa sicura; perché
      dai monti esso aveva cessata agni pressione; e, d’altronde, perché
      confermata unanimamante dai moltissimi prigionieri ), mentre le pro-
      prie perdite erano minime alla 6° armata e non grandissime alla 4°:
    4. (Altra constatazione. Il 14 a sera, il nostro C.S. avverte le tre ar-
      mate: Grappa (4°), Montello (5°) e Piave (3°) che un attacco nemico
      è “possibile” anche contro di loro. La 4° ci crede poco; la 5° niente; la 3° lo ammette,
      senza però preoccuparsene troppo.
      Però tutte e tre le artiglierie delle tre armate non riescono a fer-
      mare l’attacco, che è sferrato effettivamente.
      Hanno esse risposto?).
    5. Certo, v’era la grave incognita del Montello-Piave – che avevano ce-
      duto.
      Un CAPITANO avrebbe “giocato”. Resistenza di là — con la forza in
      sito, senza rinforzi se non d’artiglierie, e con magari un saltino
      indierto; e sferramento del GIA’ CONSIDERATO attacco dai monti.
      L’attacco sarebbe stato dato con forze inferiori alle previste; ma
      era certo che il nemico avrebbe potuto contrapporre forze MOLTO in-
      feriori alle presunte (poiché molte erano impegnate al Montello-Pia-
      ve) e già battute. E grossi rinforzi d’artiglieria al Montello-Piave
      non gravavano, poiché di attaccava per le montagne.
      ==================

    Roberto-Segre, busta. 1-12-1931
    a
    « di 2 »

    al Barone Alberto Lumbroso
    Genova
    Cia Marcello Durazzo 12 A+

    annullo MILANO CENTRO CORRISP. E PACCHI

    18-10
    I . XII

    31-X

    francobollo CENT. 50 POSTE ITALIANE

    annullo GENOVA – CENTRO
    1-2
    2 . XII
    31-X

    Roberto Segre, cartolina18-12-1931
    a
    « di 2 »

    Roma, 18 – XII – ‘31

    Gent. mo Barone,

    Confido di fornirle per poco
    quella “precisazione” circa quella af-
    fermazione di Foch[9], che lei sa.
    Badi che la comunicazione al
    Bad.[10], che potrà senza pensiero valersi
    delle riserve nostre (non ero io) è
    del pomeriggio inoltrato del 18

    – non del 16.
    Cordialmente,
    Suo
    Gen Rob Segre[11]

    CARTOLINA POSTALE ITALIANA

    MINISTERO DELLA GUERRA

    Barone Alberto Lumbroso[12]
    Genova
    Via Marcello Durazzo 12/A

    annullo  ROMA FERROVIA

    12-13
    18 – XII
    31- X

    francobollo cent 30 POSTE ITALIANE


    Note

    Una premessa sul memoriale:
    Il dattiloscritto è quello fornito dal Barone Lumbroso[7] ai vari generali e riporta il contenuto della questione sollevata dal Generale Monti[13], relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad.
    Il Generale Roberto Segre ha utilizzato il foglio fornito dal Barone per annotare le note che vengono esplicitate sul foglio dal titolo NOTE.

    [1] Il Comando Supremo Militare Italiano era l’organo di vertice delle forze armate italiane, tra il 1915 e il 1920, durante il Regno d’Italia.
    Istituito durante la prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, con sede operativa a Villa Volpe a Fagagna e dal mese di giugno nel Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il Comando Supremo del Regio Esercito fu sciolto il 1º gennaio 1920 e parte delle sue competenze passarono allo Stato Maggiore del Regio Esercito.
    Tra il 1941 e il 1945 fu istituito il Comando Supremo italiano.
    Era suddiviso in tre organi principali, l’Ufficio del Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano Tenente Generale Luigi Cadorna, il Riparto Operazioni e il Quartier generale, composti da un certo numero di uffici ciascuno.
    L’8 novembre 1917, dopo la Battaglia di Caporetto, la sede, dopo aver ripiegato dal 27 ottobre a Palazzo Revedin di Treviso, poi a Palazzo Dolfin di Padova, poi nella villa di Bruno Brunelli Bonetti a Tramonte di Teolo è stabilita all’Hotel Trieste di Abano Terme agli ordini del Generale Armando Diaz.(fonte)

    [2] Franz Conrad von Hötzendorf. Feldmaresciallo austriaco, nato l’11 novembre 1852 a Penzing presso Vienna, morto a Mergentheim il 25 agosto 1925. Nel 1906 fu nominato capo di Stato maggiore. Tedesco di stirpe, egli era prettamente austriaco per sentimento, e considerava un furto le rivendicazioni dell’Italia nel 1859 e nel 1866; e sotto lo stesso punto di vista considerava le agitazioni interne ed esterne delle varie nazionalità della duplice monarchia. Perciò egli vide l’unico mezzo di salvezza nella guerra preventiva contro l’Italia (da lui considerata come il nemico tradizionale) e contro la Serbia, sede dell’irredentismo slavo: nel 1911 il ministro Aehrenthal, in seguito a un nuovo tentativo d’indurre alla guerra contro l’Italia impegnata a Tripoli, ottenne dall’imperatore che si ponesse fine a una politica dallo stesso ministro qualificata “di banditismo”, e il C. fu allontanato dalla carica di capo di Stato maggiore; alla quale fu però richiamato dopo la morte dell’Aehrenthal (1912).
    Il C., rimase spesso un solitario, chiuso nella propria superiorità intellettuale, lontano dalla realtà: fino a vedere, ad esempio, continui disegni di aggressione da parte dell’Italia, la quale invece sino a pochi anni prima della guerra mondiale non aveva avuto, verso oriente, che timidi progetti di mobilitazione a carattere difensivo.
    Allo scoppiare della guerra europea egli scrisse a Cadorna che il precedente capo di Stato maggiore, Pollio, gli aveva promesso di mandare truppe in Austria: il C. stesso nelle sue memorie, minute talvolta fino al superfluo, si guarda bene dal precisare dove il Pollio avrebbe fatto simile promessa, in realtà inesistente.
    Anche in guerra il C. si tenne, per abitudine, fuori del contatto con i comandi dipendenti: il generale Krauss, capo di Stato maggiore del comando della fronte verso l’Italia, durante i 27 mesi trascorsi in tale carica non vide mai il C.: così si spiega come questi non conoscesse a sufficienza né i comandi né le truppe. Tali caratteristiche negative, e i preconcetti teorici spiegano gl’insuccessi che il C. ebbe nel campo della realtà. Fu quasi sempre in disaccordo con lo Stato maggiore germanico: tipico il dissenso col Falkenhayn nel maggio 1916, contro il parere del quale attuò l’offensiva del Trentino, con grave danno per le operazioni alla fronte russa.
    Dopo la morte di Francesco Giuseppe, il nuovo imperatore volle assumere personalmente la direzione delle operazioni, ma non trovò un collaboratore gradito nel C., il quale d’altra parte aveva perduto molto del suo prestigio presso l’esercito in seguito all’insuccesso dell’offensiva del giugno 1916 contro l’Italia. L’imperatore Carlo lo mandò a comandare il gruppo di armate del Tirolo. La battaglia del Piave (v.) nel giugno del 1918, nella quale il C. sperava di attuare la sua antica concezione di scendere dagli Altipiani per prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano, fu un disastroso insuccesso per il maresciallo. L’imperatore lo esonerò dal comando, colmandolo tuttavia di onori. Il C. si ritrasse a vita privata e negli ultimi tempi attese a scrivere le sue memorie (Aus meiner Dienstzeit), dal 1906 fino a tutto il 1914, troncate dalla sua morte. Traspare in esse il malanimo contro l’Italia, diventato nel C. una seconda natura, ma le memorie sono un documento prezioso per la nostra storia mettendo in luce i progressi del nostro esercito negli anni precedenti la guerra.
    L’odio tolse al C. la serenità necessaria per apprezzare al giusto valore gli avversari e questa fu non ultima ragione per la quale il successo raramente gli arrise. Si debbono però riconoscergli grandi doti d’intelletto, di operosità e di carattere.(fonte)

    [3] Sesta Armata (Regio Esercito). Le origini della grande unità risalgono al 28 maggio 1916 quando venne costituito il Comando truppe altipiani, che venne posto alle dipendenze tattiche della 1ª Armata e immediatamente impiegato per arginare l’offensiva austriaca in Trentino, la cosiddetta Strafexpedition o Frühjahrsoffensive (“offensiva di primavera”). Fortemente voluta e pianificata dal Capo di Stato maggiore dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico, feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, l’offensiva aveva il dichiarato intento di annientare l’Esercito Italiano scatenando una poderosa offensiva attraverso le linee della 1ª Armata, per prendere di rovescio l’intero schieramento italiano. Successivamente il Comando truppe Altipiani venne schierato tra la Val d’Astico e la Valle del Brenta.
    Il 1º dicembre 1916 il Comando truppe altipiani fu trasformato nel Comando della 6ª Armata, prendendo parte, dal 10 al 29 giugno 1917, al comando del generale Ettore Mambretti alla battaglia del monte Ortigara sull’altopiano dei Sette Comuni, attaccando in forze il settore austro-ungarico difeso dall’11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel. Il 20 settembre 1917 il Comando della 6ª Armata venne trasformato nuovamente in Comando truppe altipiani, che venne definitivamente sciolto il 1º marzo 1918, e venne ricostituito nella stessa data il Comando della 6ª Armata, al comando del Tenente generale Luca Montuori, distinguendosi particolarmente durante la battaglia del Solstizio e nel mese di ottobre in quella di Vittorio Veneto.
    Alla vittoria nella battaglia del Solstizio contribuì notevolmente il comando artiglieria del Maggior generale Roberto Segre, grazie alla tattica della “contropreparazione anticipata”, con cui l’artiglieria della parte in difesa non si limita ad attendere il tiro di preparazione avversario, ma lo eguaglia o lo anticipa, non limitandosi al fuoco di controbatteria ma prendendo di mira anche i luoghi di adunata delle truppe avversarie, fiaccandone così la spinta offensiva. Questa tattica permise di bloccare sul nascere l’offensiva austro-ungarica sugli Altipiani, tanto che le artiglierie di Segre poterono essere distolte dal proprio fronte per intervenire in difesa del settore occidentale del Grappa..
    Tra le file della 6ª Armata vi è stato, presso l’Ufficio informazioni, dal dicembre 1916 al luglio 1917, il Capitano pilota (ex del 6º Reggimento alpini e decorato anche nella Guerra italo-turca) Armando Armani futuro Capo di stato maggiore della Regia Aeronautica.
    Il 10 maggio 1917 venne costituito il Comando Aeronautica che aveva alle dipendenze il VII Gruppo, poi 7º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre. L’8 novembre successivo venne chiuso il Comando Aeronautica ed il 17 marzo 1918 venne costituito l’Ufficio di Aeronautica con il Maggiore Ermanno Beltramo che aveva sempre alle sue dipendenze il VII Gruppo. Dal 4 ottobre 1918 la 6ª Armata ricevette alle sue dipendenze il XXIV Gruppo aereo.
    Al termine del conflitto, il 1º luglio 1919 la 6ª Armata venne definitivamente sciolta.(fonte)

    [4] Quarta Armata (Regio Esercito). La 4ª Armata deriva dal Comando designato d’armata di Bologna, trasformato nell’ottobre 1914 nel Comando della 4ª Armata.
    All’entrata in guerra dell’Regno d’Italia, il 24 maggio 1915, la 4ª Armata, al comando del tenente generale Luigi Nava e quartier generale a Vittorio Veneto, aveva alle sue dipendenze il I Corpo d’armata del tenente generale Ottavio Ragni, il IX Corpo d’armata del generale Pietro Marini e il Comando zona Carnia del tenente generale Clemente Lequio. Capo di stato maggiore dell’armata era il maggior generale Oreste Bandini.
    La grande unità schierava le proprie forze dal Passo Cereda al Monte Peralba (sorgenti del Piave) su un fronte di circa 75 km e negli intenti del generale dell’esercito Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, doveva passare all’offensiva generale iniziando con l’espugnazione dei forti di Sexten, Landro e Valparola, con un’azione di spiccato carattere e vigore. Il primo obbiettivo delle operazioni doveva esser quello di impadronirsi alla destra del nodo di Toblach e alla sinistra dei colli circostanti al gruppo montuoso del Sella.
    La 4ª Armata non riuscì a realizzare le aspettative, e il generale Nava si segnalò come il più attendista dei comandanti d’armata italiani. Alla fine del giugno 1915 Nava chiese l’esonero del generale Pietro Marini, comandante del IX Corpo d’armata, colpevole di aver occupato imprudentemente la selletta del Sasso di Stria e Cadorna, che non condivideva la stima di cui Nava era pressoché unanimemente accreditato, accettò la richiesta, ma il 25 settembre dello stesso anno esonerò anche Nava, sostituendolo con il tenente generale Mario Nicolis di Robilant.
    La motivazione ufficiale fu che: nei primi quindici giorni di operazioni non ha agito con prontezza ed energia, sfruttando la sua superiorità di forze, e ha esercitato il comando con insufficiente decisione.
    La 4ª Armata prese parte alla battaglia di monte Piana, una lunga e sanguinosa serie di scontri in montagna avvenute sulla sommità del monte Piana, uno dei teatri più sanguinosi e statici di tutta la guerra, facente parte del massiccio delle Dolomiti di Sesto, dove tra il 1915 e il 1917 si consumarono alcuni dei più violenti scontri tra soldati italiani e austro-ungarici che per ben due anni lottarono sulla sommità pianeggiante di questo monte.
    A seguito della disfatta di Caporetto alla 4ª Armata fu ordinato dal generale Cadorna di ritirarsi nei pressi del monte Grappa, ma Nicolis di Robilant, che forse non si era reso conto della gravità della situazione, ordinò di ripiegare con un ritardo che causò la cattura di circa 11.500 uomini, intrappolati dalle forze di Otto von Below; a questo suo grave errore comunque Nicolis di Robilant rispose poco tempo dopo vincendo la prima battaglia del Piave.
    Nel febbraio del 1918 Nicolis di Robilant lasciò il comando della 4ª Armata, per passare al comando della 5ª Armata, al tenente generale in comando di armata Gaetano Giardino, che si preoccupò di incrementare le difese del massiccio del Grappa, che rappresentava l’ultimo ostacolo naturale fra il fronte e la pianura veneta e di migliorare anche le comunicazioni e, soprattutto, le condizioni di vita delle truppe che difendevano la posizione, sia in trincea sia nei periodi di riposo e inoltre, nel campo dell’impiego tattico delle truppe, si preoccupò di innovare i metodi di combattimento, introducendo nella dottrina tattica della sua armata sia i reparti d’assalto sia il tiro di contropreparazione dell’artiglieria. Tale preparazione delle truppe su istruzioni tattiche più moderne fu salutare nel corso della battaglia del solstizio, quando il fronte, dopo un iniziale sbandamento, fu ripristinato utilizzando il 9º reparto d’assalto, comandato dal maggiore Giovanni Messe e all’azione congiunta delle artiglierie della 4ª e della 6ª Armata. Nel corso della battaglia di Vittorio Veneto l’Armata del Grappa, che aveva alle sue dipendenze il IX Corpo d’armata del tenente generale Emilio De Bono, il VI Corpo d’armata del tenente generale in comando di corpo d’armata Stefano Lombardi, si batté nelle operazioni che si svolsero dal 24 al 29 ottobre 1918, perdendo 25 000 uomini.
    Il 18 luglio 1919 l’Armata del Grappa venne sciolta.(fonte)

    [5] Gaetano Giardino. Nacque a Montemagno (Asti) il 25 genn. 1864 da Carlo e da Olimpia Garrone.
    Entrato nell’esercito appena diciassettenne, fu nominato sottotenente nell’8° bersaglieri il 4 sett. 1882 e poi promosso tenente l’11 ott. 1885. A venticinque anni, come molti degli ufficiali più intraprendenti ed economicamente meno dotati, si recò nei nuovi possedimenti d’Africa che, nel 1890, avrebbero assunto il nome di Colonia Eritrea. Vi rimase insolitamente a lungo, sino all’estate del 1894.
    Colà si mise in evidenza per le sue doti organizzative e di preparazione professionale militare (nel 1893 compilò un regolamento d’istruzione tattica per le fanterie indigene). Il fatto d’armi più importante cui partecipò fu la presa di Cassala (17 luglio 1894): ne riportò una medaglia d’argento e, di fatto, la promozione a capitano (19 sett. 1894). Né la medaglia né l’esperienza sul campo accelerarono, però, più di tanto la sua carriera.
    Tornato in patria, dopo qualche tempo intraprese anche gli studi presso la scuola di guerra, dove riportò buone votazioni, passando dalla fanteria al corpo di stato maggiore. Ma la carriera continuava a scorrere, per il G. come per gran parte degli ufficiali del tempo, ugualmente lenta: la promozione a maggiore arrivò il 29 sett. 1904 e quella a tenente colonnello il 1° luglio 1910. A quella data svolgeva le funzioni di capo di stato maggiore della divisione di Napoli. La sede, probabilmente, insieme con la preparazione coloniale maturata in Eritrea, contribuì però alla sua fortuna. L’anno successivo, allestendosi la spedizione in Libia che proprio da Napoli doveva salpare, il G. vi partecipò come sottocapo di stato maggiore del corpo di spedizione.
    L’incarico non era di immediata visibilità, ma l’esperienza fu importante e non solo organizzativa. Il 4 genn. 1912, in un momento di stallo delle operazioni militari e in una fase di insoddisfazione da parte del presidente del Consiglio G. Giolitti e delle autorità politiche per la lentezza con cui procedevano le operazioni militari, il G. fu inviato a Roma dal comandante della spedizione, C.F. Caneva, per svolgere un’importante missione diplomatica, presentando le ragioni e le giustificazioni relative alla condotta del corpo di spedizione, e conferendo direttamente con le più alte cariche politiche. Al termine della riunione, anche se certo non solo per merito delle doti retoriche del G., un comunicato della Agenzia di stampa Stefani annunziava come, almeno per il momento, il governo fosse “pienamente d’accordo con il comandante in capo, nel quale ripone completa fiducia”.
    La doppia esperienza, coloniale e di stato maggiore, aveva irrobustito il carattere militare del G. e lo aveva spinto – come non pochi ufficiali del tempo – su posizioni politiche antigiolittiane. Negli anni successivi all’impresa di Libia arrivò la promozione a colonnello (4 genn. 1914) e l’incarico a capo di stato maggiore del IV corpo d’armata. Lo scoppio della Grande Guerra e la partecipazione a essa dell’Italia, ora guidata da A. Salandra e S. Sonnino, fornirono al G., cui si era aperta la via per la nomina a generale, l’occasione di un’ascesa sino a quel momento imprevedibile: da allora egli doveva diventare una delle figure più rilevanti, se non più influenti, dell’intera gerarchia militare e giocò, in qualche occasione, un ruolo politico di primo piano a livello nazionale.
    Tra il 1914 e il 1916 fu capo di stato maggiore della 2ª armata (con P.P. Frugoni), poi della 5ª, fra l’altro preparando il balzo oltre l’alto Isonzo e lo Iudrio. A riconoscimento dell’attività svolta, che incontrò il pieno favore del comandante supremo L. Cadorna – cui il G. fu da subito molto vicino -, arrivò la promozione a maggior generale (18 ag. 1915). Con quel grado, comandante della 48ª divisione, il G. si distinse nella presa di Gorizia, verso S. Marco e sul Vertoiba. Comandante del I corpo d’armata nel 1917, passò presto al XXIV.
    Il 5 apr. 1917 Cadorna lo nominava tenente generale. Apprezzamenti e critiche aumentarono, nell’ambiente militare, quando, in occasione della crisi parlamentare del giugno 1917, Cadorna lo propose come sostituto del ministro della Guerra P. Morrone, dimissionario.
    L’incarico ministeriale, dal 16 giugno (con la connessa nomina a senatore), aveva portato alla ribalta una figura di militare tecnico, estraneo ai giochi della politica, che a Cadorna doveva per intero la sua ascesa e che era, inoltre, intimamente convinto della bontà della tattica e della globale condotta della guerra da parte del comandante supremo. Nell’espletamento dell’incarico, a partire da quella delicata estate del 1917, il G. confermò questa immagine, cui si aggiunse qualcosa di più, a giudicare dalle vociferazioni di vaghi progetti, più che veri e propri piani, di un complotto finalizzato ad arrestare V.E. Orlando per mettere il G. a capo di un governo “militare” ispirato da Cadorna. Fatto sta che, forse non a caso, lo stesso B. Mussolini su Il Popolo d’Italia aveva esplicitamente espresso simpatia per l’operato del G. come ministro.
    In questo clima politico, pochi giorni prima del fatale 24 ottobre, il G. affermò dal suo scranno ministeriale che il fronte era sicuro e che non si prevedevano attacchi nemici di rilievo forse sino alla primavera successiva. All’indomani della rotta di Caporetto il governo Boselli si dimise (il G. ricevette fra l’altro il saluto e il ringraziamento del Popolo d’Italia).
    Come ebbe a dichiarare qualche mese più tardi alla commissione d’inchiesta su Caporetto, per il G. – come del resto per Cadorna -, le motivazioni dell’episodio andavano ricercate nel cedimento morale delle truppe, dovuto al disfattismo provocato dal fronte interno. A chi, come F. Martini, lo avvicinò nei mesi immediatamente successivi alla rotta il G. parve preoccupato per il “profondo disprezzo in cui il nemico che tante volte vincemmo oggi ci tiene” (4 nov. 1917) e per il fatto che all’interno dell’esercito “i sobillamenti continuano” (30 nov. 1917), e pronto a criticare, o quanto meno a lasciare criticare, il nuovo comandante supremo A. Diaz (18 genn. 1918). Tanta verbosità critica, però, non ingannava un fine conoscitore come il giornalista L. Barzini il quale, scrivendo a G. Albertini, così liquidava il G.: “mi pare debole” (12 nov. 1917).
    Ma Caporetto (nella cui “preparazione” il G., in effetti, non aveva responsabilità dirette se non quelle politiche generali in quanto ministro) non lo fermò: dopo l’allontanamento di Cadorna il G. divenne vicecapo di stato maggiore (con P. Badoglio secondo vicecapo), rappresentando la continuità con il passato cadorniano (ed esiste una documentazione secondo cui il Consiglio dei ministri valutò anche l’ipotesi di sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, nominando vicecapi di stato maggiore Diaz e il Giardino).
    Da subito gli spazi di manovra non furono ampi per il G. che, peraltro, dovette trovarsi a disagio nel nuovo comando supremo che tanto voleva differenziarsi dal precedente, a lui così caro. Inoltre Badoglio, pur più giovane, assunse su di sé l’intero compito di riorganizzazione dell’esercito.
    Avvenne, dunque, che il G., già nel febbraio 1918, fosse allontanato dal comando supremo e inviato a Parigi per sostituire Cadorna come rappresentate italiano presso il Consiglio militare interalleato: incarico formalmente di grande prestigio, ma i cui i margini d’azione erano, ancora una volta, assai ristretti (e non a caso presentò le sue dimissioni appena un paio di mesi più tardi). Al ritorno in Italia il G. assunse l’incarico militare cui doveva restare definitivamente legata la sua immagine negli anni a venire: il comando dell’armata del Grappa, con il controllo di uno dei punti più delicati dell’intero fronte italiano. La 4ª armata, a lui affidata, non solo giocò un ruolo di rilievo nel tenere la posizione strategica assegnatale, ma seppe reagire all’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 (che in un primo momento aveva rischiato di metterla in ginocchio); quindi, consolidato il proprio morale nei mesi successivi, partecipò, pagando un alto prezzo, alla finale “battaglia” di Vittorio Veneto.
    Nelle settimane immediatamente precedenti il presidente del Consiglio Orlando, nelle more frapposte da Diaz all’offensiva finale, aveva pensato di sostituire Diaz con il G.; poi, verso il 19 ottobre, aveva sollecitato direttamente quest’ultimo a non tardare a prendere l’offensiva nel suo settore, temendo che la guerra potesse concludersi senza una vittoria italiana sul campo.
    Oltre alla strategia e alla tattica militari vere e proprie, il G. reinterpretò a suo modo, con una forte dose di paternalismo militaresco, il nuovo corso postcadorniano nel trattare la truppa, sviluppando una potente, spregiudicata e durevole retorica populista sui “suoi soldatini” dell’armata del Grappa: una retorica al solito assai apprezzata anche da Mussolini, che ne scriveva compiaciuto sul Popolo d’Italia già il 29 giugno 1918. Inoltre, una parte dell’opinione pubblica liberale e conservatrice guardava a lui come a uno dei migliori fra i generali italiani che avevano condotto la guerra.
    Il dopoguerra consacrò definitivamente la figura del G., ormai assurto ai più alti vertici della gerarchia militare (il 21 dic. 1919 fu nominato fra i cinque generali d’esercito), componente di quell’aeropago militare che era il Consiglio d’Esercito (istituito il 25 luglio 1920), nonché comandante designato d’armata.
    Tale notorietà – in fondo dovuta al comandante del Grappa e a uno dei generali di Vittorio Veneto, e comunque ribadita dal G. con i suoi frequenti, e spesso roboanti, interventi in Senato – non era sempre accompagnata per la verità da programmi chiari, carenza cui il G. sopperiva, nel clima d’incertezza del dopoguerra, con una costante intonazione autoritaria e antiprogressista, quando non proprio filofascista. Ma più ancora dell’adesione a uno schieramento politico, era la sua piena adesione alle più retrive e chiuse tradizioni militari a connotarlo. Nell’ambiente militare, però, questo era un titolo di merito tanto che, nel giugno 1921, si parlò di lui come di un possibile ispettore di fanteria (una carica tecnica inferiore solo a quelle di ministro della Guerra e di capo di stato maggiore).
    Altro segno del suo prestigio e dell’importanza che gli veniva attribuita è il frequente ricorrere del nome del G. in gran parte, se non in tutte, le voci di complotto e di colpo di Stato che, fra 1919 e 1922, andarono diffondendosi in Italia. Di fatto è difficile pensare a un G. – il quale, per quanto assai critico della politica liberale era pur sempre un militare di antica tradizione – che architetta complotti in prima persona. Più probabile che egli venisse coinvolto, e fosse lusingato dal farsi coinvolgere, in progetti altrui: lo stesso Mussolini scriveva a G. D’Annunzio, il 25 sett. 1919, favoleggiando di un colpo “repubblicano” che avrebbe dovuto “dichiarare decaduta la monarchia” sostituendola con un direttorio composto dal vate, dal G., da E. Caviglia e da L. Rizzo. Più in generale, comunque, il nome del G. era un punto di riferimento per i fascisti più oltranzisti, insieme con quelli del duca d’Aosta, di Caviglia e di P. Thaon di Revel.
    All’epoca della marcia su Roma il G. era comandante di armata di Firenze, nel cui territorio era compresa la capitale, ed è quindi probabile che il re lo abbia contattato (sia pur telefonicamente) per saggiare le reazioni dell’esercito. L’ascesa al governo di Mussolini gli fruttò subito un primo incarico pubblico, a riprova dei contatti precedenti: un’inchiesta sullo stato della guardia regia, che il capo del fascismo voleva abolire. Il che avvenne proprio sulla base dei risultati dell’inchiesta dal G. condotta in poche settimane. Fra tutti quelli assegnatigli dal nuovo governo il ruolo di maggior prestigio fu, comunque, quello di governatore della città di Fiume, ricoperto in un momento delicato, prima della definitiva annessione della città all’Italia (dal 17 sett. 1923 sino al maggio 1924), e che prevedeva il compito di “tutelare l’ordine pubblico” mentre si riavviavano le trattative diplomatiche con la Jugoslavia. Nel 1924 il G. fu nominato ministro di Stato.
    In seguito, però, intervennero rapporti meno idilliaci: nell’autunno-inverno 1924-25, quando il governo manifestò l’intenzione di mettere in pericolo la tradizionale autonomia dell’esercito, si verificò una crisi di notevoli proporzioni nei rapporti fra fascismo e forze armate, segnatamente in seguito al tentativo di far approvare il progetto di ordinamento militare (che dal proponente ministro A. Di Giorgio prendeva nome) e il disegno istitutivo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN). In questa circostanza il G. assunse un ruolo di assoluto rilievo e le argomentazioni da lui svolte in Senato e nel Consiglio d’Esercito contribuirono senz’altro a far ritirare il primo progetto e a ridimensionare il secondo.
    Durissimi furono i discorsi del G. contro Di Giorgio, prima in Consiglio d’Esercito (settembre-novembre 1924) poi in Senato (31 gennaio, 30 marzo e 2 apr. 1925), e contro il disegno sulla MVSN (4 dic. 1924), al punto da costringere Mussolini (discorsi del 5 e del 9 dic. 1924) a repliche dure rivolte personalmente al G.; in realtà questi, che pure così veementemente lo aveva contestato, non pare abbia mai seriamente osteggiato il governo fascista. Ritirato l’ordinamento Di Giorgio e ridimensionate le pretese sulla MVSN, gli stessi documenti parlamentari testimoniano che il G. si avvicinò a Mussolini affermando “Eccellenza, Lei ha salvato l’esercito!” (2 apr. 1925).
    Da allora, a livello politico e personale, Mussolini e il regime furono prodighi di onori al G.: gli affidarono incarichi formali di prestigio (in Senato relazionò sulla legge di ordinamento militare che seppellì l’ipotesi Di Giorgio, 1° marzo 1926) e fu nominato, come Cadorna e Diaz, maresciallo d’Italia (17 giugno 1926), grado che sostituiva il precedente di generale d’esercito. Ma di fatto non fu più preso seriamente in considerazione per cariche di reale peso politico. Consapevole di aver perso un suo ruolo e di aver favorito la nascita e l’assestamento di un regime che lo metteva ora da parte pur coprendolo di allori, il G., nel 1927, si ritirò a Torino.
    Nel dicembre 1929 riceveva il prestigioso collare dell’Ordine dell’Annunziata e, a parte qualche mugugno (se c’è da credere al Diario di Caviglia almeno in qualche occasione avrebbe criticato Mussolini), si adattò col tempo al ridimensionamento del suo effettivo ruolo pubblico. Peraltro, da qualche tempo la sua figura era andata appannandosi anche all’interno del mondo militare: il comandante del Grappa (al pari di molti altri suoi coetanei e colleghi) non teneva il passo con le innovazioni militari, rimanendo fermo alla difesa della dottrina militare della Grande Guerra, come sostenne anche in Rievocazioni e riflessioni di guerra (I-III, Milano-Verona 1929-30).
    Su un punto, però, il G. poteva svolgere, e svolse, un ruolo che corrispondeva contemporaneamente alle sue propensioni populistico-autoritarie, al personale desiderio di autoglorificazione e alle necessità propagandistiche del regime: la creazione e il mantenimento del mito delle battaglie del Grappa (dove aveva pubblicamente espresso il desiderio di essere sepolto); quale ex comandate dell’armata del Grappa, egli svolse un ruolo decisivo anche nelle scelte relative alla costruzione del sacrario, consacrato il 22 sett. 1935 alla presenza del re, e nei periodici raduni di massa colà tenuti.
    Forte del seguito ottenuto da queste operazioni, fondamentali ai fini dell’organizzazione di un consenso al fascismo quale regime uscito dalla Grande Guerra, il G. difese accanitamente, in parte fondandosi su documenti e in parte anche travalicandoli, l’operato della sua 4ª armata contro chiunque volesse ridimensionarlo o annullarlo. Peraltro, di norma, a parole il G. non affrontava mai la questione in termini di difesa personalistica ma la presentava in forma populistica, affermando di voler reagire a tutte le “affermazioni lesive dei miei soldati del Grappa”.
    Il G. morì a Torino il 21 nov. 1935.(fonte)

    [6] Svetozar Boroević. Feldmaresciallo austriaco, nato a Umetic (Croazia) il 13 dicembre 1856, morto il 13 maggio 1920 a Klagenfurt. Comandante il VI corpo d’armata, si segnalò nella battaglia di Komarów (29 e 30 agosto 1914), ove fu sconfitta la V armata russa, e il 4 settembre fu nominato comandante della III armata. Alla testa di tale grande unità partecipò alla battaglia di Leopoli, la quale, malgrado i successi locali conseguiti dal B., terminò con la ritirata dell’esercito austroungarico (11 settembre), che abbandonò ai Russi circa centomila prigionieri e tutta la Galizia. L’armata del B. nell’autunno del 1914 fu destinata alla difesa dei Carpazî. Nella battaglia di Limanowa (dicembre 1914), nella quale i Russi dopo lunga lotta furono arrestati nella loro avanzata minacciosa verso la Slesia, il B. avrebbe dovuto, scendendo dai monti, attaccare sul fianco sinistro i Russi e produrre la decisione, ma dopo qualche successo, nuovi rinforzi giunti all’avversario costrinsero (Natale 1914) il B. a ritirarsí dopo aspri combattimenti presso Jasło, sino alla cresta dei Carpazî, che difese con grande tenacia. Di fronte agli attacchi ostinati dei Russi il B. seppe cedere poco terreno, senza compromettere la solidità della difesa.
    Le forze del B. in unione alla II armata tentarono invano nel marzo di liberare il campo trincerato di Przemysł che il 22 marzo dovette arrendersi. Con le forze rese cosị disponibili i Russi rinnovarono persistenti e sanguinosi attacchi specialmente contro il centro e la destra delle truppe del B., talchḫ fu necessario inviare in rinforzo il corpo d’armata tedesco detto dei Beschidi, con l’aiuto del quale i Russi vennero respinti.
    Dopo la battaglia di Gorlice (2 maggio 1915) i Russi furono costretti alla ritirata e l’armata del B. passn̄ all’offensiva contro l’avversario che ripiegava sull’intera fronte. Il 27 maggio 1915 al B. venne affidato il comando della nuova V armata destinata allo scacchiere italiano per la difesa della fronte dal Monte Nero al mare. Da allora il B. rimase nel teatro d’operazioni italiano. La V armata prese dal gennaio 1916 il nome di armata dell’Isonzo; il 23 agosto 1917 essa fu divisa in due armate, la I e II armata dell’Isonzo, le quali costituirono il gruppo d’armata Boroević.
    Il B. diresse tutte le operazioni alla fronte giulia: egli ebbe quindi parte preminente nella tenace difesa che l’esercito imperiale oppose alle nostre offensive durante gli anni 1915-16-17: nonostante però il valore delle truppe e l’abilità dei capi e i continui rinforzi tratti dalla fronte russa, la nostra azione poderosa aveva portato l’esercito austriaco vicino allo sfacelo, tanto che l’Austria fu costretta a ricorrere alla Germania, la quale inviò alla fronte giulia un’armata per effettuare l’offensiva di Caporetto. In questa operazione si verificarono fra l’armata di destra del B. e le truppe vicine attriti e contrattempi che diedero motivo a gravi accuse da parte degli avversarî del B. Il generale di fanteria Alfredo Krauss, che fu capo di Stato maggiore delle forze austriache alla fronte italiana e che comandò durante l’offensiva di Caporetto il I corpo d’armata austriaco alla dipendenza della XIV armata tedesca (conca di Plezzo), nella sua opera Die Ursachen unserer Niederlage afferma che il B. rimase troppo lontano dalle truppe operanti e che egli con inopportuni ordini motivati da invidia “salvò la III armata italiana”. Il generale austriaco soggiunge che la limitata capacità del B. era ben nota nell’esercito ed anche al comando supremo. Tali aspri giudizî sono un’eco evidente degli attriti esistenti nell’esercito austriaco fra comandanti di differenti nazionalità.
    Raggiunto il Piave e partita la XIV armata germanica, la fronte dal mare al Grappa fu affidata al B. (nel febbraio promosso feldmaresciallo), mentre la fronte montana era affidata al Conrad. Nell’offensiva del giugno, secondo il primitivo disegno d’operazione, l’attacco decisivo avrebbe dovuto essere effettuato esclusivamente dal Conrad, mentre un compito soltanto dimostrativo era affidato al gruppo B. Questi avrebbe preferito non dare battaglia, per conservare le forze intatte in vista di una prossima pace; ma, come afferma il generale tedesco Cramon (allora addetto al Comando supremo austro-ungarico) nel suo libro Unser österreichischungarischer Bundesgenosse, il B. non era un uomo da accontentarsi, una volta decisa l’offensiva, d’incarichi secondarî. In tal modo l’attacco, diluito pressoché sull’intera fronte, perdette di vigore e naufragò miseramente. Tuttavia, mentre l’offensiva del Conrad fu stroncata sin dal primo giorno, le truppe del B. riuscirono a passare il Piave e a mantenervisi, sia pure in ristretto spazio, per alcuni giorni; ma il 20 giugno, cioè cinque giorni dopo l’inizio dell’offensiva, il B. dichiarò esplicitamente al Comando supremo che, se si voleva evitare una catastrofe, occorreva ritirare le truppe sulla sinistra del Piave. Dopo una giornata di esitazioni dovute a motivi politici, l’imperatore si piegò alle ragioni militari del B.
    L’attacco italiano dell’ottobre 1918 fu da principio diretto contro il gruppo dell’esercito Boroević, prima sul Grappa, dove le truppe imperiali opposero accanita ed efficace resistenza, poi sul Piave. Ma dopo che le forze nostre ebbero guadagnato a viva forza il passaggio del fiume, l’esercito, seguendo l’esempio del paese, incominciò a sconnettersi, e il maresciallo dovette assistere impotente alla ritirata e alla dissoluzione dell’esercito imperiale.
    Il B., generale stimato in pace per la sua elevata capacità, si era dimostrato a Komarów comandante di corpo d’armata prudente e nello stesso tempo energico e tenace. Il suo ordine del giorno nell’assumere il comando dell’armata incomincia: “Soldati, io vengo a voi come vincitore…” In realtà il B. d’allora in poi non conobbe più la vittoria vera, perché le sue azioni fortunate furono riflesso di successi altrui. È però certo ch’egli mostrò, sia sui Carpazî sia sull’Isonzo, fermezza ed energia non comuni, non mai smentite durante oltre quattro anni di guerra.(fonte)

    [7] Quinta Armata (Regio Esercito).
    La 5ª Armata deriva dal Comando Armata di Riserva di Padova che divenne il 25 maggio 1916 Comando 5ª Armata. Da maggio a luglio 1916 la 5ª Armata venne dislocata come riserva a disposizione del Comando supremo, pronta a essere impiegata nel caso che l’offensiva austriaca in Trentino riuscisse a sfondare il fronte. Il 2 luglio il Comando dell’Armata venne sciolto, per poi essere ricostituito il 1º gennaio 1917, quando l’Armata fu preposta all’organizzazione difensiva del confine italo-svizzero nell’eventualità che le forze nemiche avessero deciso di violare la neutralità svizzera. Nell’ambito di questa esigenza il 16 gennaio 1917 venne costituita una forza, alle dipendenze del Comando della 5ª Armata, con l’intento di prevenire un possibile attacco delle forze nemiche attraverso il territorio della confederazione, che il 9 marzo 1917 venne trasformata in Comando occupazione avanzata della frontiera nord, posto alle dirette dipendenza del Comando supremo. Il 16 novembre dello stesso anno, per la terza volta, fu ricostituito il Comando della 5ª Armata che ebbe a disposizione grandi unità in precedenza inquadrate nella 2ª Armata. Il 1º giugno 1918 il Comando della 5ª Armata venne sciolto per essere trasformato in Comando della 9ª Armata, che, al comando del Tenente generale Paolo Morrone non prese direttamente parte alle operazioni ma ebbe sempre funzioni di riserva a disposizione del Comando supremo.
    Il 15 febbraio 1919, infine, il Comando della 9ª Armata fu trasformato in Comando dell’8ª Armata.(fonte)

    [8] Terza Armata (Regio Esercito).
    Le origini della grande unità risalgono al Comando Designato 3ª Armata costituito a Firenze nell’agosto 1914, agli ordini del tenente generale Luigi Zuccari.
    Il 24 maggio 1915, all’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, la 3ª Armata venne destinata nelle zone di operazioni del Carso e di Trieste. Dopo la destituzione di Zuccari, il Comando dell’Armata venne affidato interinalmente al generale Vincenzo Garioni, e poi al generale Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta e alle dipendenze della Grande Unità vennero posti il VI Corpo d’armata al comando del generale Carlo Ruelle, il VII Corpo d’armata al comando del generale Vincenzo Garioni e l’XI Corpo d’armata con a capo il generale Giorgio Cigliana.
    La sede del Comando, in zona bellica, fu, per un periodo, a Cervignano del Friuli. Il compito della 3ª Armata era quello di condurre le operazioni per far indietreggiare l’Esercito austro-ungarico che tentava di entrare da est.
    La 3ª Armata fu impegnata in tutte le battaglie dell’Isonzo, dal giugno 1915 alla fine dell’estate del 1917, sul fronte del Carso, subendo perdite enormi, la propaganda dell’epoca la soprannominò invitta in quanto se pure i risultati di battaglia furono inconcludenti o marginali, l’armata non fu mai direttamente sconfitta in battaglia.
    Le prime quattro battaglie si svolsero tra giugno e dicembre del 1915 e furono caratterizzate dai classici principi di guerra di posizione, raggiungendo obiettivi territoriali di scarsa importanza, ma progressivamente, a partire da quel momento, l’Impero Asburgico iniziò ad inviare sul fronte italiano forze sempre più numerose.
    In particolare, la prima e la seconda battaglia dell’Isonzo costituirono il tentativo di contrastare le manovre tedesche sul fronte orientale, mentre la terza e la quarta furono volte ad alleggerire le manovre degli imperi centrali sulla Serbia.
    Nel 1916 tra l’11 e il 19 marzo si svolse la quinta battaglia, nella quale l’offensiva italiana venne respinta ma la minaccia della Strafexpedition austriaca nel Trentino costrinse il generale Cadorna a spostare mezzo milione di soldati dal Carso al Trentino, e ciò comportò un affievolirsi degli scontri sull’Isonzo fino a farli cessare completamente. Nei pressi di Gorizia delle scaramucce tra i due eserciti continuarono per mesi. Il 29 giugno del 1916, vi fu il primo attacco austro-ungarico con il gas tossico. Colti nel sonno, nelle linee del Monte San Michele, 2 700 italiani delle brigate Regina e Brescia morirono e circa 4 000 rimasero gravemente intossicati . I soldati italiani dell’XI Corpo d’armata del generale Giorgio Cigliana riuscirono comunque a fermare il nemico. Con l’esaurisi alla fine di giugno dell’offensiva austriaca in Trentino Cadorna riprese l’iniziativa e tra il 27 luglio e il 4 agosto spostò uomini e mezzi dal Trentino sull’Isonzo attaccando di sorpresa gli austriaci, le cui forze in quel settore erano relativamente scarse e la Sesta battaglia dell’Isonzo combattuta tra il 6 e il 17 agosto portò alla conquista di Gorizia, con il contributo fondamentale della 3ª Armata, grazie soprattutto ai successi iniziali sul Monte Sabotino a nord-est e sul Monte San Michele a sud-ovest che fecero crollare la linea difensiva austro-ungarica.
    La rottura del fronte a oriente di Gorizia, portò alla Settima battaglia dell’Isonzo combattuta tra il 14 e il 16 settembre dove il Generale Cadorna fece implementare la tattica delle “spallate”, attacchi energici e di breve durata su una fronte limitato. La 3ª Armata italiana, dalla quale dipendeva il I Gruppo aereo del Servizio Aeronautico del Regio Esercito, doveva irrompere sull’altura di Fajti (Quota 432) in direzione del Monte Tersteli per poi attaccare Trieste. Gli Italiani riuscirono appena a conquistare alcune trincee e una piazzaforte presso Merna.
    A seguire l’ottava battaglia dell’Isonzo tra il 10 ed e il 12 ottobre 1916 nella zona di Doberdò, a est di Monfalcone, nella quale l’offensiva italiana venne respinta, e la Nona battaglia dell’Isonzo combattuta tra il 31 ottobre e il 4 novembre 1916 nella quale le truppe italiane avanzarono di pochi chilomenti. Entrambe le battaglie rientrarono nello schema degli interventi di logoramento che non fecero guadagnare terreno e che costarono la vita a tanti soldati su entrambi gli schieramenti.
    Nella tarda primavera del 1917, tra il 12 maggio e il 7 giugno fu combattuta la Decima battaglia dell’Isonzo, con lo scopo di rompere il fronte per raggiungere Trieste. La battaglia superò di gran lunga le nove precedenti, per quanto riguarda gli sforzi bellici e le perdite, senza conseguire peraltro lo sfondamento definitivo.
    La successiva Undicesima battaglia, combattuta tra il 17 agosto e il 15 settembre nella quale fu impegnata in modo massiccio la 2ª Armata, fece realizzare una penetrazione di 10 chilometri nel dispositivo di difesa nemico, ma fece contare numerose perdite tra le truppe italiane che conquistarono la Bainsizza, il Monte Santo e il Monte San Gabriele, ma il Monte Hermada si dimostrò inespugnabile arrestando così l’offensiva italiana che se avesse avuto una maggiore spinta avrebbe permesso il collasso delle forze asburgiche. Alla fine della battaglia gli austriaci disponevano però di sole 24 divisioni, di fronte alle 51 degli italiani e sarà questa grave situazione che convincerà i tedeschi, alleato dell’Impero austro-ungarico a concentrare i propri sforzi sul fronte italiano dopo essersi liberati del fronte russo e allontanare il pericolo ormai imminente su Trieste, ricacciando gli italiani di là dalla frontiera dell’Isonzo.
    La Dodicesima e ultima battaglia dell’Isonzo, preludio alla disfatta di Caporetto, durante la quale la 3ª Armata non venne interessata dallo sfondamento del fronte, in quanto avvenne nell’area di responsabilità della 2ª Armata, ebbe inizio il 24 ottobre; dopo un bombardamento di artiglieria durato sei ore, l’attacco austro-germanico penetrò subito in profondità. Le truppe tedesche travolsero le difese italiane e, rapidamente progredendo per il fondovalle, raggiunsero Caporetto lo stesso giorno. Il 26 ottobre cadde Monte Maggiore, su cui Cadorna contava come punto cruciale di una difesa di seconda linea; nello stesso giorno, il grosso del Regio Esercito Italiano rischiava l’annientamento, per cui, alle prime ore del 27 ottobre, fu dato l’ordine definitivo di ritirata. Gli scontri proseguirono fino a quasi metà novembre, spostandosi dalla zona dell’Isonzo a quella del Tagliamento per poi attestarsi su quella del Piave.
    Dopo la disfatta di Caporetto, pur non essendo mai stata sconfitta, la 3ª Armata dovette ritirarsi insieme alle altre Grandi Unità sulla linea del Piave.
    Sembrava, dopo la disfatta di Caporetto e la successiva destituzione dall’incarico del Generale Cadorna, che Emanuele Filiberto dovesse essere nominato Comandante del Regio Esercito fino alla conclusione delle ostilità, ma contro tutte le previsioni, Vittorio Emanuele III decise di nominare il Generale Armando Diaz. Tale scelta, sembra che sia stata presa dall’allora Re, per tenere in ombra il cugino divenuto popolare grazie alle imprese della 3ª Armata durante tutto il conflitto.
    Nel corso del 1918 la 3ª Armata prese parte alla Battaglia del solstizio e alla decisiva battaglia di Vittorio Veneto. Dal 5 settembre 1918 riceve il Gruppo speciale Aviazione I fino al 21 novembre successivo.
    Dopo la vittoria italiana nel primo conflitto mondiale il Comando Designato 3ª Armata venne sciolto a Trieste nel luglio 1919.(fonte)


    [9] Ferdinand Foch. Maresciallo di Francia, nato a Tarbes il 2 ottobre 1851, morto a Parigi il 20 marzo 1929. Sottotenente di artiglieria nel 1873; da ufficiale superiore insegnò tattica alla scuola di guerra; generale di brigata nel 1907, comandò la scuola di guerra; divenne generale di divisione nel 1911 e l’anno successivo comandante di corpo d’armata: allo scoppio della guerra mondiale comandava il XX corpo d’armata a Nancy. Studioso d’arte militare, egli era alla testa del movimento inteso ad approfondire la conoscenza delle campagne napoleoniche, anche allo scopo di mettere in luce le imperfezioni della strategia del Moltke manifestatasi, a parer suo, durante le campagne del 1866 e del 1870 (si vedano le sue opere Des principes de la guerre, Parigi 1903; De la conduite de la guerre, Parigi 1904; Eloge de Napoléon, Parigi 1921).
    In guerra, col XX corpo d’armata il F. prese parte all’offensiva della II armata in Lorena, subito cambiata in ritirata per l’insuccesso degli altri corpi d’armata. Posto a capo (fine di agosto) della IX armata, alla Marna, il F., per quanto costretto dai Tedeschi alla difensiva e respinto dalle paludi di Saint-Gond e da La-Fère-Champenoise, riuscì ad arginare la spinta dei nemici fino a quando questi ebbero ordine di ritirarsi.
    Nell’autunno 1914, come generale aggiunto al generalissimo, F. coordinò gli sforzi degli alleati, arrestando i Tedeschi nelle Fiandre. Nel 1915 ebbe il comando delle armate francesi a nord dell’Oise. Nel 1916 comandò le armate francesi che il 1° luglio iniziarono la grande offensiva della Somme: in essa il F. riuscì, sottoponendo l’avversario a colpi ripetuti, a mettere a dura prova le linee tedesche. Tuttavia il successo brillante era mancato e il F fu esonerato dal comando. Forse vi contribuirono gl’intrighi che si svolgevano allora per la sostituzione di Joffre, e le rivelazioni recenti di Clemenceau indicano che F. era uno dei candidati; dopo qualche mese fu richiamato come capo di Stato Maggiore a disposizione del ministro, ma fuori di ogni comando diretto. Fu inviato in Italia nell’aprile 1917. Nell’agosto 1917 si accordò col Cadorna per l’invio di 10 divisioni franco-inglesi da effettuare nel 1918 per una grande offensiva contro gli Austriaci. Ritornò nuovamente in Italia dopo Caporetto, e il 31 ottobre con un foglietto scritto di suo pugno invitò il Cadorna a organizzare la resistenza sul Piave, cosa che Cadorna aveva – con l’approvazione di Vittorio Emanuele III – già ordinata fin dal 26. Tuttavia il F. dopo la guerra lasciò che in Francia prendesse piede il convincimento che la rinnovata resistenza italiana fosse a lui dovuta. Il disastro della battaglia del marzo 1918 in Francia mise in valore l’energia e l’ascendente del F. che, alla conferenza di Doullens, assunse il comando unico degli alleati. Gl’inizi non furono fortunati: mentre F. si attendeva d’essere attaccato nelle Fiandre, l’offensiva si scatenò invece contro lo Chemins-des-Dames e i Francesi furono duramente battuti. A stento il Clemenceau salvò F. dalle ire del parlamento e di Lloyd George che lo volevano esonerare dal comando. Solo in luglio l’offensiva tedesca fu arrestata e il F. ordinò allora il passaggio all’offensiva: demoralizzati per l’arrivo degli Americani in Francia, attaccati in punti sempre diversi, i Tedeschi dovettero retrocedere con perdite tali da dover chiedere la pace. La Germania avrebbe però potuto resistere ancora, ma Vittorio Veneto la costrinse a capitolare. Nell’esercizio del comando unico il F. cercò di attenersi al sistema della persuasione, evitando ogni urto, mentre Clemenceau avrebbe voluto maggiore energia per ottenere dagli Americani un più efficace concorso. Una certa indipendenza ostentata dal F. fu fonte di dissidî col Clemenceau, che si acuirono durante le trattative per la pace, perché il F. esigeva per la Francia il presidio permanente della testa di ponte sul Reno, il che Clemenceau non giudicò possibile ottenere.
    Nel Mémorial de Foch pubblicato nel 1929 da R. Recouly su confidenze del maresciallo, il Clemenceau si vide attaccato e rispose pubblicando Grandeurs et misère d’une victoire (Parigi 1930), per dimostrare l’assurdità delle aspirazioni del F., le debolezze del quale per quanto riguarda l’ambizione personale e l’abitudine di esagerare i proprî meriti, sollevarono deplorazioni italiane e belghe. Come generale, il F. fu un intellettuale; non fu un innovatore, ma, ingegno chiaro e carattere tenace, seguì l’alto principio morale che la vittoria è di chi sa volerla. Fu quindi insuperabile nella difensiva, dove tale principio corrispondeva al patriottismo del soldato francese e alla tenacia inglese. Nell’offensiva ottenne risultati modesti fino a che, nell’estate 1918, anche le truppe credettero nella vittoria. Assunto il comando supremo in una situazione tragica, ma destinata a migliorare per l’afflusso degli Americani, egli attese, per quattro mesi, subendo la grande disfatta dello Chemins-des-Dames. Solo quando vide che l’offensiva avversaria era stata finalmente arginata seppe decisamente valersi della grande superiorità di mezzi. Col F. si ebbe al comando supremo una lucida, energica intelligenza che attese il momento favorevole e seppe abilmente sfruttarlo.(fonte)

    [10] Pietro Badoglio. Nacque a Grazzano Monferrato (prov. di Asti; oggi Grazzano Badoglio) il 28 sett. 1871 da Mario e Antonietta Pittarelli, modesti proprietari di campagna. Entrato all’Accademia di artiglieria e genio di Torino, il 16 nov. 1890 fu nominato sottotenente di artiglieria. Frequentò, la Scuola di applicazione, e il 7 ag. 1892 fu promosso tenente e assegnato al 19° reggimento di artiglieria da campagna, ove restò per quasi quattro anni, prima a Livorno e successivamente a Firenze.
    Nel dicembre 1895, alla notizia dell’eroico sacrificio del battaglione Toselli sull’Amba Alagi, il B. chiese di andare volontario in Africa.
    Assegnato alla 6ª batteria da montagna, s’imbarcò a Napoli. A Porto Said apprese la notizia della grave rotta di Adua; ormai al gen. Baldisserra non sarebbe spettato che di coprire l’Eritrea e liberare il presidio del forte di Adigrat, che eroicamente ancora vi si sosteneva. Il 4 maggio 1896, infatti, il forte era raggiunto dal corpo di spedizione, che poi ripiegava sulla colonia e in gran parte rimpatriava. Rimasero in Africa due battaglioni e due batterie, una delle quali era la 6ª; il B. restò in Eritrea per oltre due anni nel presidio di Adi Caieh, a 2500 metri di altitudine in una zona arida e desolata, dirigendo le esercitazioni delle truppe e i lavori di fortificazione.
    Tornato in Italia, nel settembre 1899 entrò nella Scuola di guerra, dove conseguì brillantemente il diploma il 23 ag. 1902. Il 13 luglio 1903 fu promosso capitano e assegnato al 12° reggimento di artiglieria da fortezza, a Capua. Frequentò però a Roma il corso di addestramento per lo Stato Maggiore, ottenendovi, il 16 nov. 1905, il diploma di idoneità. Dopo un anno di permanenza al corpo a Bari, tornò stabilmente a Roma, al ministero della Guerra, nella divisione dello Stato Maggiore, ove si rivelò ufficiale intelligente e attivo, benché alquanto duro e riservato. Collaborava intanto con articoli di organica militare alla rivista La Preparazione, diretta dal colonnello E. Barone.
    Nell’ottobre 1911 il B. ricevette l’ordine di partire per la Libia, e s’imbarcò con le truppe dell’intendenza. Ai primi di novembre, dopo la rivolta araba e l’episodio di Sciara Sciàd, nuove poderose forze furono mandate a Tripoli e, ad affiancare l’opera del gen. C. Caneva, che aveva oltre al comando del corpo di spedizione anche le mansioni di governatore, giunse dall’Italia il gen. P. Frugoni, il quale chiamò il B. a far parte del suo Stato Maggiore. Essendo rientrato in Italia il capo di Stato Maggiore del corpo d’armata, il B. ne assunse le funzioni.
    In questa carica contribuì notevolmente alla preparazione dell’operazione contro l’oasi di Zanzùr, a occidente di Tripoli, rimasta un pericoloso centro di forze nemiche lungo la costa, notevolmente rafforzatosi con opere semipermanenti. L’azione, ben coordinata, si risolse in un brillante successo: il B. fu promosso maggiore per merito di guerra e in seguito venne decorato di medaglia di bronzo al valor militare.
    Tornato in patria, fu assegnato al 3° reggimento di artiglieria di assedio, a Roma, con il comando di un gruppo di artiglieria e una compagnia di allievi ufficiali. Il 25 febbr. 1915 venne promosso tenente colonnello di Stato Maggiore. In vista dello scoppio delle ostilità contro l’Austria, il gen. Frugoni, comandante della 2ª armata, destinata a operare sul medio e alto Isonzo, lo volle nuovamente presso di sé; ma dopo alcuni mesi il B. passava come capo di Stato Maggiore alla 4ª divisione, dislocata, agli ordini del gen. L. Montuori, nella zona di Gorizia.
    Il campo trincerato austriaco constava di due parti fondamentali: la linea avanzata sulla destra dell’Isonzo, costituente la testa di ponte coi due caposaldi del Sabotino e del San Michele, e quella arretrata, appoggiata da un lato al Monte Santo e al San Gabriele, dall’altro all’Hermada. Dopo i sanguinosi e vani tentativi del ’15 sul medio e basso Isonzo, il Cadorna aveva deciso di concentrare lo sforzo contro i due pilastri del Sabotino e del San Michele, cominciando dal primo. A questo fine bisognava innanzitutto rinnovare completamente i procedimenti di attacco e sistemare le linee difensive sul Sabotino, che erano, ancora alla fine del novembre 1915, in condizioni assolutamente insufficienti per un minimo di sicurezza. Il monte era infatti preso d’infilata dalle artiglierie nemiche e già era costato molte perdite.
    Nel febbraio 1916 il B. accettò l’incarico di presiedere ai lavori sul Sabotino. Questi lavori procedettero così speditamente da arrivare, con due trincee, da oltre mille metri di distanza dalle posizioni austriache, a ottanta metri, con molti camminamenti scavati nella roccia e numerose caverne. Il 10 maggio 1916 il B. era promosso colonnello e, su richiesta del gen. L. Capello, comandante del VI corpo d’armata davanti alla testa di ponte di Gorizia, nominato suo capo di Stato Maggiore. Il B. tuttavia tornava spesso a ispezionare i lavori del Sabotino. Alla fine di luglio il monte poteva essere considerato come esempio classico di fortificazione campale e di preparazione offensiva del terreno. Il 6 agosto il B. diresse l’azione di una delle due colonne di attacco che conquistarono rapidamente la cima del monte, procedendo nella loro offensiva fin quasi alla riva dell’Isonzo. Il B. tornò poi al suo posto di capo di Stato Maggiore del VI corpo e il 27 agosto fu promosso maggior generale per merito di guerra. Passò quindi al comando di artiglieria del corpo d’armata, e poi, a metà settembre, trasferito il Capello sugli Altopiani, assunse, dietro sua richiesta, il comando della brigata Cuneo, nel tormentato settore di Sober, a sud-est di Gorizia, sulla sinistra della Vertoibizza.
    In vista dell’offensiva della primavera 1917 il Cadorna il 4 aprile creava il comando della “zona di Gorizia”, affidandolo al Capello, il quale tornava a volere il B. come suo capo di Stato Maggiore.
    La direttrice strategica era la valle del Vippacco, ma accompagnata dal possesso delle alture di destra e di sinistra, ossia degli altopiani della Bainsizza e Ternova da un lato e dell’orlo settentrionale del Carso e dell’Hermada dall’altro. Poiché le riserve nemiche gravitavano sul Carso, compito della “zona di Gorizia” era di iniziare l’azione e cedere poi molte sue artiglierie pesanti alla 3ª armata. Per aggirare il baluardo naturale della Bainsizza prospiciente l’Isonzo, il Capello aveva pensato di forzare il fiume a nord con manovra a largo raggio, ma ritenendo poi di non disporre di forze sufficienti, limitò l’azione a un diversivo, facendo pertanto agire frontalmente le divisioni della “zona di Gorizia”. Cominciato il bombardamento il 12 maggio, parve al Capello che il comandante del II corpo non fosse abbastanza efficiente, e il 13 lo sostituì interinalmente con il B., che, maggior generale, si trovò ad avere alle sue dipendenze tre tenenti generali e un brigadiere. Il 15 maggio, dopo aspra lotta, era preso il Kuk, e si procedeva contro il Vodice. Dopo una sospensione voluta dal Cadorna per operare sul Carso, il Capello otteneva di continuare l’azione, sia pure con artiglierie diminuite, e così il 18 anche la cima del Vodice era conquistata. La “zona di Gorizia” aveva richiamato su di sé tre divisioni austriache. Cominciava allora la serie dei furibondi contrattacchi austriaci, e la battaglia assumeva un aspetto di tipo carsico, sino a che il 28 maggio il Cadorna ordinava la cessazione delle operazioni. Il 14 giugno il B. era proposto per l’avanzamento straordinario per merito di guerra e gli era confermato l’incarico del grado superiore: continuava così a restare al comando del II corpo, che, soppressa il 1° giugno la “zona di Gorizia”, tornava ad appartenere alla 2ª armata. Quale sviluppo della decima battaglia dell’Isonzo si aveva nell’agosto 1917 l’undicesima, detta della Bainsizza.
    Il Capello, di sua iniziativa, fece dell’azione complementare sul rovescio di Tolmino l’operazione principale: ma proprio l’azione contro le alture di Tolmino, compiuta dalla destra del XXVII corpo, naufragava per prima, e falliva. poteva considerarsi il 21 agosto anche l’azione sul Carso. Tuttavia, al centro il XXIV corpo comandato da E. Caviglia avanzava, mentre alla sua destra il B. con le tre divisioni del II corpo vincolava più di due divisioni austriache. Ma invece di concentrare gli sforzi al centro, il Capello s’intestava contro le alture di Tolmino: esonerava il comandante del XXVII corpo e, il 22 agosto, in piena battaglia, poneva al suo posto il B., che, essendosi gli Austriaci rinforzati da quel lato, poté ottenere però solo qualche successo locale. Comunque il 23 agosto gli era confermata la promozione straordinaria per merito di guerra a tenente generale e il 14 ottobre aveva il comando effettivo del XXVII corpo d’armata che aveva finito per trovarsi a cavaliere dell’Isonzo, con tre divisioni sulla sinistra dei fiume e una, più grossa, sulla destra.
    Si avvicinava intanto il turbine della grande offensiva tedesco-austriaca sull’Isonzo, in un momento di particolare stanchezza per l’esercito italiano.
    Il 18 sett. 1917 il Cadorna ordinava alla 2ª e 3ª armata di concentrare ogni attività nei preparativi per la difesa ad oltranza, ma, credendo poco a una grande offensiva nemica in un settore montano con la stagione avanzata, non prendeva le misure di sua spettanza, quali la costituzione di una riserva strategica sul medio Tagliamento e l’emanazione di precise norme sulla condotta della battaglia difensiva. Lasciava perciò praticamente mano libera al Capello, che intendeva, appena arginato l’impeto nemico, sferrare una controffensiva dalla Bainsizza a continuazione dell’offensiva fallita nell’agosto. Solo il 19 ottobre, avuta piena coscienza dell’imminente offensiva nemica, il Cadorna prescriveva tassativamente la difesa ad oltranza: il provvedimento era però tardivo e l’offensiva nemica coglieva l’esercito italiano in piena crisi di schieramento, con l’artiglieria priva di una sicura dottrina difensiva. La pressione nemica si ebbe il 24 ottobre principalmente proprio all’ala sinistra del XXVII corpo d’armata, comandato dal B., e qui si verificarono le due penetrazioni decisive, quella della 12ª divisione slesiana da Tolmino fin oltre Caporetto, grazie alla quale il contiguo IV corpo fu preso alle spalle, e la penetrazione dell’Alpenkorps tedesco sulle alture fronteggianti Tolmino, per cui fu scardinato il VII corpo posto come difesa arretrata e aggirato il caposaldo italiano dello Jeza. Davanti a Tolmino mancò quasi il tiro di contropreparazione e poi quello di sbarramento. Il B. in quella triste giornata restò tagliato fuori dalle sue truppe, cercando invano di raggiungere la sede del comando della sua artiglieria, e solo alle 16 fu in grado di rendersi parzialmente conto della situazione. I suoi difensori hanno voluto vedere in lui, in seguito, soprattutto la vittima della disobbedienza del suo superiore e maestro, il Capello, che avrebbe voluto sferrare la controffensiva proprio all’estrema ala destra del corpo di B., e che era assertore del semplicistico principio del tiro di sbarramento all’ultimo momento. Sta di fatto che, a differenza degli altri generali, il B., che pure in seguito scrisse a lungo sull’opera propria in altre circostanze, sul 24 ott. 1917 nulla scrisse, né ha lasciato alcun documento, sebbene l’argomento riguardasse anche l’onore e il prestigio di vari altri generali, fra cui il suo protettore Capello, e il buon nome del soldato italiano.
    A sera il B. per vie traverse si portava nella zona del Globokak, importante altura alla testata della valle dello Judrio, per la difesa della quale il Capello gli aveva già assegnato la 47ª divisione bersaglieri; intanto le divisioni del XXVII corpo rimaste oltre l’Isonzo passavano agli ordini del gen. Caviglia. Venuto l’ordine di portare la difesa su una linea che andava dal Monte Maggiore al Kuk-Vodice, anche il B. retrocedeva e con il suo corpo d’armata, ricostituito con la 47ª divisione più la brigata Taranto e alcuni battaglioni d’assalto, ebbe il compito di difendere il tratto Judrio-monte Corada. Ma il 27 ottobre sopraggiungeva l’ordine di ritirata al Tagliamento e il nemico entrava in Cividale. La divisione bersaglieri, separata dal resto, si aggregò alle truppe di Caviglia; il XXVII corpo veniva quindi ricostituito per la seconda volta, dietro il Torre, con la 13 divisione al posto della 47ª. Il 28, superata anche la debole linea dietro il Torre, gli Austriaci giungevano a Udine. Il B. con due battaglioni di arditi e poche altre truppe ripiegò a nord-ovest verso San Daniele, mentre il resto del XXVII corpo si dirigeva a ovest verso Codroipo. Con le poche forze rimastegli il B. contribuì alla difesa sul canale di Ledra e poi a quella della testa di ponte di San Daniele, assieme alla cavalleria e ai bersaglieri ciclisti, e il 30 ottobre passava dietro il Tagliamento.
    L’8 novembre il Cadorna era sostituito nella carica di capo di Stato Maggiore dal gen. A. Diaz, con il gen. G. Giardino quale sottocapo, ma due giorni dopo veniva nominato un secondo sottocapo nella persona del Badoglio.
    Quest’ultima nomina non destò sulle prime meraviglia: l’infelice bollettino di Cadorna dei 28 ottobre rovesciava tutta la colpa dell’improvvisa rotta sulle truppe, e il disastro nella sua stessa fulmineità e gravità non lasciò dapprima discernere le singole responsabilità. Per di più proprio il XXVII corpo, rimesso in sesto per la terza volta, non fu sciolto come tanti altri; il B. inoltre ebbe una medaglia d’argento per la difesa di San Daniele. La sua nomina si dovette a L. Bissolati, che già al tempo della conquista del Kuk e del Vodice, parlando con il direttore della Tribuna O. Malagodi, aveva definito il B. “soldato splendido, mio vecchio amico”.
    Entro il triumvirato, nelle cui mani erano poste le sorti d’Italia oltreché dell’esercito, il B. si occupò con lena instancabile e in modo veramente egregio soprattutto della parte organizzativa: lavoro immane quando si pensi che l’esercito era letteralmente dimezzato e che in quattro mesi vennero ricostituite 50 brigate di fanteria e 409 batterie. A metà febbraio 1918 il Giardino lasciava il Comando supremo e unico sottocapo di Stato Maggiore restava il B., che fu veramente il braccio destro di Diaz, tanto che, quando la Commissione d’inchiesta su Caporetto chiese di averlo a disposizione, il Diaz si oppose, non volendo privarsi di un così valido collaboratore in vista della grande offensiva austriaca. Il B. seppe far tesoro dell’esperienza dolorosa dell’ottobre: ebbe parte notevole nel definire i criteri per la nuova sistemazione difensiva del terreno e per l’impiego dell’artiglieria e delle mitragliatrici nell’azione difensiva. Dopo la battaglia del Piave, veniva elevato (27 giugno 1918) al rango di comandante d’armata per merito di guerra. Anche nella preparazione della battaglia di Vittorio Veneto ebbe una parte importante. Presiedette infine la commissione d’armistizio e, di fronte ai tentativi dilatori degli Austriaci, mostrò dignitosa energia. Per la sua opera dal novembre 1917 al novembre 1918 fu creato cavaliere di gran croce dell’Ordine Militare di Savoia e il 24 febbr. 1919 venne nominato senatore.
    Nel marasma del dopoguerra il B. si trovò a partecipare in primo piano alle vicende della questione adriatica. Per ordine del presidente del consiglio Nitti aveva assunto nell’estate il comando dell’8ª armata e si era trasferito a Udine; dopo l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio, veniva nominato commissario straordinario nella Venezia Giulia (14 novembre). Era suo compito impedire altri pronunciamenti militari e un ulteriore inasprimento della già difficile situazione. E realmente seppe agire con tatto, valendosi dell’influenza che aveva sul poeta; ma, desiderando levarsi presto da quel ginepraio, il 24 novembre accettava la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito, in sostituzione di A. Diaz, ritiratosi per motivi di salute. Tre giorni prima era stato promosso generale d’esercito per merito di guerra.
    Nella nuova veste dovette affrontare la grave questione del riordinamento dell’esercito secondo l’esperienza del grande conflitto e nell’ambito della nuova situazione politica: questione che suscitava dissensi profondi fra conservatori e democratici e che portò il B. ad urtarsi col ministro della Guerra I. Bonomi. Il 3 febbr. 1921 si dimetteva dall’alta carica, rimanendo soltanto membro del Consiglio dell’esercito, organo consultivo allora creato. Era inviato quindi in Romania per decorare le città di Bucarest, Jaşi e Galati, e i sovrani dello Stato amico; a fine giugno partiva per una missione negli Stati Uniti, per esprimere la riconoscenza dell’Italia verso i suoi figli in America, che tanto patriottismo avevano mostrato durante la guerra, e per far conoscere oltre Oceano il grandioso sforzo compiuto allora dal nostro paese.
    Intanto il movimento fascista prendeva vigore. Dapprima il B. l’aveva guardato con una certa indulgenza, ma poi il dilagare delle violenze e la rumorosa adesione ad esso da parte di Capello l’avevano reso diffidente e quasi ostile. Alla vigilia della marcia su Roma, nell’ottobre del ’22 interpellato dal Facta, il B. dichiarò che con dieci o dodici arresti al massimo il governo avrebbe potuto stroncare tutto il movimento. Rimase quindi per oltre un anno in disparte, sino a che, alla fine del 1923, compì il primo accostamento al fascismo, accettando la carica di ambasciatore straordinario in Brasile. Restò in quella sede per un anno e mezzo, ma già nel giugno ’24, quando l’Italia fu scossa dal delitto Matteotti, egli inviava un telegramma di netta solidarietà a Mussolini. Questi, dopo essersi posto decisamente sulla via della dittatura con il discorso del 3 genn. 1925, non tardò a chiamare a sé il B. nominandolo capo di Stato Maggiore generale (4 maggio). Continuavano più che mai le polemiche sul riordinamento dell’esercito, e il compromesso tra conservatori e democratici tentato dal ministro della Guerra, gen. A. Di Giorgio, aveva suscitato un vespaio fra gli stessi militari. Mussolini, riuniti nelle sue mani i tre ministeri militari, con tre docili sottosegretari, intendeva creare le forze armate dell’Italia fascista e valersi dello stesso B. come semplice strumento. Tanto più che il 7 nov. 1925, fallito l’attentato Zaniboni con la rovina del gen. Capello, passato ormai all’antifascismo militante, il B. aveva nuovamente espresso a Mussolini la propria solidarietà.
    Cominciava così il grande equivoco, destinato a protrarsi per quindici anni e in forma sempre più grave dopo il 1936, fra il B., che in fondo non era fascista, ma si considerava la più alta personalità militare italiana e, non rassegnandosi a restare in disparte, si adattava ad accomodamenti sempre meno sinceri, e Mussolini, sempre più intollerante di ogni obbiezione. Dal canto suo il re, sempre più esautorato da Mussolini, cercava di tenere il B. legato a sé.
    Tra il 1926 e il 1929 si verificava un progressivo esautoramento di B. a vantaggio delle velleità militari di Mussolini, ma accompagnato da un contemporaneo crescendo di onorificenze. L’11 maggio 1926 si aveva l’”ordinamento Mussolini” dell’esercito; in compenso quindici giorni dopo il B. era creato maresciallo d’Italia. Il 6 febbraio del 1927 il capo di Stato Maggiore generale veniva ridotto come dice il decreto di nomina a consulente tecnico del Capo del Governo per quanto concerne la coordinazione e la sistemazione difensiva dello Stato e i progetti di operazione in guerra; e colle attribuzioni, in tempo di guerra, che saranno stabilite per la sua carica dal Governo”. Il 12 giugno 1928 però il re nominava il B. marchese del Sabotino. Si era intanto acuito l’attrito con il sottosegretario gen. Cavallero; alla fine di quell’anno Mussolini nominava il B. governatore della Tripolitania e Cirenaica, pur lasciandogli la carica di capo di Stato Maggiore generale, e il 6 genn. 1929, poco prima che partisse per Tripoli, il re lo creava cavaliere dell’Ordine della SS. Annunziata.
    Si trattava di completare la riconquista e la sottomissione della Libia. Dopo il successo dell’azione condotta nel Fezzan dal gen. R. Graziani, fra il dicembre 1929 e il febbraio 1930, grazie soprattutto all’aviazione, il B. poteva volgere l’attenzione alla Cirenaica, ove nominava vicegovernatore lo stesso Graziani. Alla fine del 1930, con metodi durissimi, anche la Cirenaica era sottomessa e nel gennaio 1931 riconquistata l’oasi di Cufra. Il B. si dedicava quindi all’opera di riordinamento e di colonizzazione. Il 4 febbr. 1934 lasciava definitivamente la Libia.
    Lasciati nel 1929 i ministeri militari, Mussolini ne riprendeva i portafogli in vista della conquista dell’Etiopia. Nel periodo 1929-33 era stata allestita una nuova aviazione e iniziato il rinnovamento del naviglio di guerra, ma l’esercito era rimasto nelle vecchie condizioni di preparazione. Gravissimo si presentava in particolare per una azione in Etiopia il problema logistico, mentre di fronte all’ostilità della Società delle Nazioni sarebbe stato necessario invece agire con grande celerità, sia per presentare il fatto compiuto, sia per non essere sorpresi dalla stagione delle piogge. Per questi motivi il B. era contrario all’impresa; seguì però tutti i preparativi e compì anche un viaggio in Eritrea. Mussolini avrebbe desiderato che l’impresa fosse attuata da un generale fascista, il quadrumviro De Bono, che in effetti il 3 ott. 1935 iniziava le ostilità con l’occupazione di Adigrat, Adua e Axum, e, dopo una necessaria sosta, Macallè (8 novembre). Ma, per il suo procedere, troppo lento agli occhi di Mussolini, fu sostituito dal Badoglio.
    Questi il 30 novembre sbarcava a Massaua, trovandovi una situazione non favorevole, ad onta dello sforzo grandioso dei mesi precedenti. Mentre gli Italiani si erano spinti avanti per centinaia di chilometri, gli Abissini avevano compiuto la mobilitazione e la radunata prima del previsto e, contro le loro precedenti abitudini, prendevano l’iniziativa dell’offensiva, tendendo a tagliare la lunga linea di operazione italiana con una duplice azione sul fianco destro, l’una a raggio ristretto, l’altra ad amplissimo raggio; contemporaneamente una grossa massa avanzava frontalmente. Molto saggiamente il B., lungi dal proseguire nell’avanzata, decise di prolungare la sosta per migliorare tutta la sistemazione logistica e tattica, e chiese altre due divisioni in rinforzo alle sette già sul posto. Gliene furono mandate tre, mentre altre due divisioni rafforzavano il fronte somalo. La situazione delle forze contrapposte era pertanto ben diversa da quella del 1895-1896, allorché 20.000 Italiani fronteggiavano 100.000 Abissini: adesso di fronte ai 215-000 Abissini, con pochi cannoni e senza aviazione, l’Italia allineava 200.000 uomini con 750 cannoni, 7000 mitragliatrici e 350 aerei. L’azione abissina a largo raggio, stante l’opportuno ripiegamento del II corpo italiano fino ad Axum, si risolveva alla fine di dicembre in una puntata nel vuoto; quella a raggio più ristretto era fermata con la prima battaglia del Tembièn. Dopo tre mesi di sosta, gli Italiani, sicuri sul fianco destro, riprendevano l’offensiva: con la battaglia dell’Amba Aradam (11-15 febbr. 1936) il B., con duplice azione convergente, sostenuta validamente dall’aviazione e da opportuni concentramenti d’artiglieria, annientava la massa principale nemica, composta di 80.000 uomini, di fronte a Macallè; quindi con abili mosse combinate annientava successivamente le due masse ancora impegnate nell’azione avvolgente, mentre il 28 febbraio sulla principale direttrice di marcia occupava l’Amba Alagi. Dopo un altro periodo di sosta il B. riprendeva ad avanzare e il 31 marzo sbaragliava presso il lago Ascianghi la guardia del corpo del negus. Intanto dalla Somalia avanzava vittorioso il gen. Graziani e il negus fuggiva imbarcandosi a Gibuti. Il 5 maggio il B. entrava in Addis Abeba alla testa di una spedizione autocarrata, partita da Dessiè dodici giorni prima.
    Proclamato l’impero il 9 maggio, il B. fu nominato viceré d’Etiopia e l’11 duca di Addis Abeba; ma lasciò subito il posto al gen. Graziani per rientrare in Italia e riprendere le sue funzioni di capo di Stato Maggiore generale. Roma gli conferì la cittadinanza onoraria e il partito fascista gli dette la tessera ad honorem. Nell’ottobre dello stesso 1936 il B. narrava gli avvenimenti d’Etiopia nel volume La guerra d’Etiopia, edito a Milano, che recava una prefazione di Mussolini.
    Nel settembre 1937 il B. succedette a G. Marconi nella presidenza del Consiglio delle ricerche, venendo così a trovarsi a capo del Comitato nazionale per l’indipendenza economica e della Commissione per gli studi sulle materie fondamentali per la difesa. Ma le sue fortune cominciavano a declinare. Il 30 marzo 1938 Mussolini annunziava al senato che la guerra futura sarebbe stata guidata da lui solo, e poco dopo si faceva proclamare dalla Camera e dal Senato, insieme con il re, primo maresciallo dell’Impero, suscitando lo sdegno, senza conseguenze, del sovrano e del Badoglio. In realtà, Mussolini intendeva così dividere con il B. la direzione delle cose militari, lasciandogli l’alta direzione degli apprestamenti bellici e riservando per sé il supremo comando in guerra. Il compito di B. si faceva sempre più arduo: la guerra e la sistemazione d’Etiopia, la guerra di Spagna, l’occupazione dell’Albania avevano assorbito e disperso le scarse risorse; ormai la sua voce era ben poco ascoltata da Mussolini, al quale egli disse a volte la cruda verità, indulgendo altre volte a un ottimismo di maniera estremamente pericoloso.
    Allo scoppio della seconda guerra mondiale il B. fu per la neutralità: il 26 maggio 1940 giunse a dichiarare a Mussolini che l’entrata in guerra sarebbe stata un suicidio, ma, tre giorni dopo, nel consiglio di guerra tenuto da Mussolini, non sollevò alcuna opposizione o riserva. Scesa in campo anche l’Italia, il B., pur nella sua alta carica, non prese parte attiva alle decisioni sulla condotta della guerra, che Mussolini, spesso senza neppure preavvisarlo, riservava a sé. Pure continuò a pazientare: anche quando Mussolini decise di invadere la Grecia, non seppe tenere un contegno deciso. Solo quando, cominciati i rovesci sul fronte greco e attaccato con virulenza da R. Farinacci su Regime Fascista, non ottenne soddisfazione, si dimise (4 dic. 1940).
    Visse allora a Roma il 1941 e 1942 tenendosi appartato, ma nella primavera del 1943, in coincidenza con l’aggravarsi della situazione dell’Italia nel conflitto, cominciò a prendere contatti con elementi antifascisti e con il re, con il quale aveva avuto buoni rapporti negli anni precedenti. Non prese parte alla preparazione degli avvenimenti che portarono, il 25 luglio 1943, alla caduta di Mussolini e al suo arresto, ma i contatti con la corte, anche tramite il conte Acquarone, fecero sì che, quando si dovette cercare un militare da porre a capo del nuovo governo, la scelta cadesse su di lui, anziché sul gen. Caviglia, come era stato proposto da D. Grandi.
    Il B. per il suo passato non rappresentava certo un elemento di rottura decisiva con il fascismo, ed era quindi l’uomo adatto agli scopi del sovrano, che lo poneva alla presidenza di un ministero di tecnici e di funzionari con pieni poteri e con il compito di avviare il distacco dalla Germania nazista e di cercare una via d’uscita dalla guerra. Ma il governo di B. iniziava con un tentativo di prendere tempo: nel proclama, scritto da V. E. Orlando e da B. solo sottoscritto trasmesso la sera del 26 luglio 1943, si diceva che la guerra continuava mantenendo fede alla parola data. In realtà continuare la lotta, dopo l’occupazione della Sicilia e con la disastrosa situazione dei rifornimenti, era impossibile, ma assai difficile era l’apertura di trattative con gli Anglo-Americani, molto diffidenti anche nei confronti del governo dei B., mentre assai arduo era lo sganciamento dai Tedeschi.
    Il ministero di B. visse nel timore di una ripresa da parte dei fascisti, di movimenti di sinistra e di un colpo di mano tedesco: in urto con gli esponenti democratici e antifascisti, non aveva neppure il cordiale appoggio del sovrano, che, troppo compromesso con il fascismo, non aveva voluto un ministero di carattere politico ed escludeva qualsiasi concessione agli elementi di sinistra. Così, respinta da Hitler la proposta di un incontro con il re, avanzata da B., a guadagnar tempo fu volto anche il convegno di Tarvisio (7 agosto) fra i ministri degli Esteri e i capi di Stato Maggiore generale italiani e tedeschi. Persa una settimana preziosa, furono avviate le trattative con gli Anglo-Americani, prima con sondaggi per via diplomatica, poi con l’invio di un militare, il gen. G. Castellano, in Portogallo, a prendere contatto con i rappresentanti degli Stati Maggiori alleati. Non si poté ottenere nulla più che la resa incondizionata: il 1° settembre il B., insieme con il capo di Stato Maggiore Ambrosio, e il ministro degli Esteri Guariglia, accettò il gravissimo armistizio, cui dette il proprio assenso il re, e che fu firmato il 3 settembre a Cassibile, presso Siracusa.
    In esso fra l’altro gli alleati si arrogavano pieno diritto di disarmo, smobilitazione e demilitarizzazione di tutte le forze militari italiane. L’articolo 12 del trattato preannunziava poi l’imposizione di altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario. Alle rovinose clausole del “corto armistizio” si sarebbero aggiunte così quelle del “lungo armistizio”. Al Castellano era però stato letto un “promemoria aggiuntivo”, concordato fra Churchill e Roosevelt, in cui era detto: “La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Gli alleati prescrivevano inoltre che il governo italiano avrebbe proclamato l’armistizio subito dopo l’annuncio datone dal gen. Eisenhower, ordinando alle forze armate e al popolo di collaborare da quel momento con gli alleati e di resistere ai Tedeschi. Il Castellano ottenne che unitamente allo sbarco principale a sud di Roma un altro ne venisse effettuato nelle vicinanze della capitale, con una divisione aviotrasportata, paracadutisti e artiglieria, ma non poté saper altro se non che sbarco e proclamazione di armistizio sarebbero avvenuti un giorno “X”. La notte sull’8 settembre due ufficiali alleati venuti a Roma per accordarsi sull’operazione di sbarco presso Roma, resisi conto del rischio che avrebbero corso le truppe alleate per l’immediata vicinanza ai campi di aviazione di potenti forze tedesche, e dell’estrema difficoltà di ricevere un valido appoggio italiano, fecero sospendere l’aviosbarco. Il B. telegrafò chiedendo inutilmente agli Anglo-Americani di rinviare di alcuni giorni la dichiarazione dell’armistizio e implicitamente l’aviosbarco e le operazioni ad esso connesse; fallito questo tentativo, la sera dell’8 settembre trasmetteva per radio la notizia dell’armistizio. All’alba del 9 settembre il B., con i ministri militari e gli Stati Maggiori, circa un centinaio di persone, seguì il re e il principe ereditario a Brindisi nel precipitoso abbandono della capitale: si trattò di ben altro che di un regolare spostamento del governo, come allora si disse, e soprattutto ciò avvenne senza che venissero lasciati ordini precisi a chi restava nella più disperata situazione a Roma stessa e in tutte le località più lontane, ove i soldati italiani erano stati mandati a combattere. Tristemente ironica potrà suonare la tarda accusa lanciata da “radio Bari” ai primi di ottobre: “A Roma sono state lasciate sei divisioni contro due germaniche. A suo tempo saranno appurate le cause della resa della capitale”. Proprio a Roma reparti dell’esercito, già messi in stato di allarme dal gen. G. Carboni la sera dell’8, ed elementi popolari, avevano tentato, nel disfacimento degli organi di governo, una generosa resistenza ai Tedeschi, primo episodio di una più grande lotta contro il nazismo. Resistenza per nulla infeconda, perché valse a trattenere 60.000 Tedeschi con 600 carri armati medi e pesanti, quando gli Anglo-Americani compivano (9-16 settembre) con circa cinque divisioni soltanto lo sbarco nel golfo di Salerno ed era provvidenziale per il gen. Clark di poter disporre dell’82ª divisione aviotrasportata.
    Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle correnti antifasciste si mutava in Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) “per – chiamare si dichiarava – gli Italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”; e tre giorni dopo si proclamava governo di fatto, espressione della volontà popolare. Il B. si trovava a Brindisi senza autorità; e più che mai diveniva pesante la sua posizione fra i sospetti degli alleati, l’ostilità degli antifascisti, e la diffidenza e scontentezza nei suoi riguardi dello stesso sovrano. Sotto un certo rispetto Churchill, con il suo discorso ai Comuni il 21 ottobre, prese le sue difese, dichiarando necessario che tutte le forze vive della nazione italiana si stringessero attorno al loro legittimo governo. Ma in realtà egli intendeva valersi, date le condizioni di confusione e di anarchia prevalenti in Italia, del re e di B. per ottenere la piena esecuzione delle clausole dell’armistizio; solo per salvare le apparenze parlava poi della necessità che venisse costituito un governo di coalizione antifascista, da mantenere sino al termine della guerra, quando il popolo italiano avrebbe deciso non già del proprio regime, ma semplicemente di un altro governo.
    Intanto, nell’immane tragedia del dissolvimento dell’esercito, non poche truppe italiane in Iugoslavia, in Grecia, a Lero, a Samo, a Cefalonia, isolate e senza ordini, ancora si battevano contro i Tedeschi, fino allo sterminio, o si univano ai partigiani greci e iugoslavi; e altre combattevano in Corsica, mentre nell’Italia occupata dai Tedeschi Napoli si ribellava il 27 settembre e si andava allargando ovunque la lotta partigiana. Nel “regno del sud” mentre alcuni animosi attorno a Benedetto Croce si adoperavano per crear formazioni di volontari, il B. pensava di organizzare un piccolo corpo regolare italiano. Il 28 settembre era infatti costituito a Brindisi un raggruppamento motorizzato agli ordini del gen. Dapino, composto da due battaglioni di fanteria, uno di bersaglieri, nove batterie di artiglieria, un battaglione controcarri. Negli stessi giorni il B. era avvertito di doversi trovare a Malta, con altri suoi capi militari, il 29; ma non fu per trattare della collaborazione militare, bensì per firmare il documento previsto dall’art. 12 delle condizioni di armistizio di Cassibile.
    Esso era intitolato “strumento di resa dell’Italia” e aggravava notevolmente le già durissime condizioni, ponendo a disposizione degli alleati tutti i mezzi di trasporto terrestri, acquei, aerei, tutti i mezzi di diffusione di notizie e di propaganda; sottomettendo al loro controllo la vita economica italiana e togliendo all’Italia ogni diritto a rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero. Anche ora però una lettera di Eisenhower al B. riconosceva come molte clausole fossero ineseguibili e che tutto poteva essere modificato con l’intensificarsi della cooperazione italiana. Il B. firmò; quanto all’entrata in guerra dell’Italia, affermò di poter apprestare, appena ritirate le truppe dalla Sardegna, da otto a dieci dìvisioni, ma non si impegnò circa la dichiarazione di guerra alla Germania, poiché tali erano gli ordini del re, che si illudeva di poterla negoziare.
    Tornato a Brindisi, il B. cercò di ottenere armi, trasporto in terraferma delle truppe della Sardegna, passaggio di questo territorio all’amministrazione italiana; ma il gen. Mac Farlane, capo della delegazione militare alleata, dichiarò che la guerra alla Germania era la premessa di ogni concessione alleata. Il re dovette cedere, e alla dichiarazione di guerra, comunicata l’11 ottobre via Madrid, fece seguito il riconoscimento dell’Italia quale co-belligerante. In realtà però il governo del re e di B. doveva servire quasi esclusivamente, non già a rafforzare l’azione militare italiana contro i Tedeschi, bensì a spremere dall’Italia quanto ancora fosse possibile. Dal canto suo il re, dopo aver invano preteso d’includere il gerarca fascista Dino Grandi nel ministero, si appoggiava a elementi fascisti e anche comunisti. Il B. tornava più che mai a trovarsi fra l’incudine e il martello: a Napoli nessuno voleva partecipare al suo governo, e a Roma il 16 ottobre il C.L.N. precisava il suo atteggiamento con un ordine del giorno che, fu detto, segnava “lo statuto fondamentale del C.L.N. in Italia”, ma sanciva pure il distacco dalla monarchia e dal suo governo da parte delle forze democratiche. In questa difficile situazione il B. il 24 ottobre manifestò al re con una lettera leale ed esplicita l’opportunità d’abdicare, lui e il figlio, per salvare la monarchia, creando una reggenza per il giovanissimo Vittorio Emanuele. Di eguale parere erano il conte Sforza, rimpatriato da poco dall’America, e Benedetto Croce: il re però non volle saperne, poiché riteneva che l’abdicazione avrebbe affrettato la caduta della monarchia. Intanto però la guerra assumeva, dal Volturno al Sangro, un carattere di logorio, e la liberazione di Roma appariva sempre meno prossima.
    Il 16 novembre il B. annunciava il completamento del governo, formato soprattutto con sottosegretari aventi funzione di ministri: la presenza alle Finanze dell’ex ministre fascista Guido Jung sollevò specialmente contro il re, ma anche contro il B., l’indignazione generale. Il B. cercò poi di impedire che venisse autorizzato un convegno dei C.L.N. delle province dell’Italia occupata, ma il 7 genn. 1944 gli alleati, dopo varie oscillazioni, dettero il consenso ed esso venne fissato per il 28-29 gennaio a Bari. Anche la preparazione militare andava a rilento; falliva la costituzione di corpi volontari autonomi, patrocinata dal Croce, ma osteggiata dal re e dagli alleati; costoro non volevano saperne neppure di forze regolari notevoli: non più di 14.000 uomini avrebbero dovuto combattere in prima linea. Non fu concessa la costituzione di otto o dieci divisioni, e si rifiutò il concorso di tre gruppi alpini per la guerra fra le aspre montagne del Sannio: dei 300.000 uomini disponibili gli alleati si servirono solo in parte, e per lavori nelle retrovie, mentre vuotavano i magazzini superstiti per mandare armi e indumenti ai partigiani greci e jugoslavi. L’aviazione italiana, che contava ancora trecento aeroplani, si prodigò fra continui rischi, ma non ricevette il materiale necessario per il ricambio e per le riparazioni; anche l’uso della flotta fu sempre limitato e contrastato. Alla fine i 5000 uomini del gruppo motorizzato furono portati in zona di guerra; essi parteciparono a Monte Lungo, dall’8 al 16 dicembre, alla grande lotta per il forzamento della stretta di Mignano, sulla via verso Cassino, distinguendosi per valore e subendo gravissime perdite.
    Il 22 genn. ’44 ebbe luogo lo sbarco alleato ad Anzio, potente diversivo che colse di sorpresa il gen. Kesselring; ma non si seppe sfruttarlo, e la liberazione di Roma restò sempre lontana. Intanto il gen. Eisenhower aveva lasciato la direzione della guerra nel Mediterraneo, e il gen. inglese Alexander, capo delle forze alleate in Italia, si mostrava ostilissimo al congresso di Bari. Una nuova soluzione del problema istituzionale, escogitata da Enrico De Nicola, e che comportava l’abbandono del potere da parte del re e la luogotenenza al figlio Umberto, fu ancora respinta da Vittorio Emanuele III. Ma al congresso di Bari si chiese all’unanimità l’abdicazione del re, si dichiarò che il governo doveva avere i pieni poteri fino all’elezione della Costituente e si elesse una giunta che prese a funzionare regolarmente. La situazione del governo di B. era quanto mai difficile: il maresciallo, premuto dal sovrano, si valeva di elementi fascisti, come l’ex generale della milizia O. Giannantoni, provocando le rimostranze degli stessi suoi sostenitori, ma nel contempo assumeva un atteggiamento contrario al re nella questione istituzionale. Il 20 febbr. 1944 Vittorio Emanuele finì con l’accettare la soluzione della luogotenenza, purché ciò avvenisse dopo la liberazione di Roma.
    Intanto il B., minacciando le dimissioni, doveva sventare la minaccia della cessione di un terzo della flotta italiana all’URSS, quale compenso per l’appoggio sovietico al re e al suo governo; il 18 marzo infatti Mosca, al fine di far sentire l’influenza russa nel Mediterraneo, annunziava che avrebbe stabilito rapporti diretti con il regio governo di Badoglio. Il 27 giungeva dall’URSS Palmiro Togliatti, il quale si dichiarava pronto a entrare nel governo Badoglio, con viva soddisfazione del maresciallo. In realtà l’intervento sovietico, che sulle prime irritò quasi tutti gli antifascisti, valeva a modificare la politica degli Anglo-Americani che il 10 aprile, per bocca del generale Mac Farlane, presenti i membri nuovi e vecchi del Consiglio consultivo d’Italia, dichiaravano essere ormai indispensabile la rinuncia immediata del re alle sue prerogative e ai suoi poteri e suggerivano una luogotenenza del principe di Piemonte. Era un vero ultimatum: il re dovette cedere, salvo rinviare la trasmissione del potere al momento della liberazione di Roma.
    Il B. iniziava allora le consultazioni per il nuovo ministero, che il 21 aprile era formato, con rappresentanti dei partiti – conservando solo in carica i ministri militari – e con sede a Salerno: esso s’impegnava a far eleggere a guerra finita un’assemblea costituente. In questo modo però il nuovo governo risultava più che mai legato all’Inghilterra e all’America, e faceva cadere i timori di Churchill che un governo democratico potesse richiedere una revisione o un’attenuazione delle durissime clausole del duplice armistizio. Contro la permanenza di B. al governo e contro il nuovo ministero, considerato legato a circostanze transitorie e di carattere provvisorio, si schierava il C.L.N. dell’Italia settentrionale con una mozione del 26 aprile. Invece il C.L.N. romano, nel cui seno si erano pure manifestati forti contrasti, riflesso anche dell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24-25 marzo, il 5 maggio stabiliva che tutti i partiti cooperassero con il governo “ai fini della guerra di liberazione nazionale”.
    Ma una vera partecipazione alla guerra con forze adeguate secondo i piani di B. e del nuovo capo dello Stato Maggiore generale, maresciallo G. Messe, incontrava ancora ostacoli. Solo il 10 febbraio si ottenne che il raggruppamento motorizzato, riorganizzato dal gen. U. Utili, fosse di nuovo impiegato come unità combattente nella zona alle sorgenti del Volturno, settore relativamente secondario, dove il 18 febbraio ebbe il primo, onorevole contatto con il nemico. Spostato poi a nord di Cassino, il 31 marzo il raggruppamento conquistava monte Morrone, dopo aver preso l’antistante cima di Castelnuovo, respingendo poi con gravi perdite per l’assalitore un tentativo tedesco di riprendere monte Morrone nella notte sul 10 aprile. Il 18 aprile il raggruppamento assumeva il nome di Corpo italiano di liberazione, ed era subito ingrossato da un battaglione di fanteria di marina e dalla divisione paracadutisti Nembo, finalmente trasportata dalla Sardegna. Anche la marina e l’aviazione si prodigavano. Nella grande battaglia per la liberazione di Roma, iniziata il 12 maggio 1944, le truppe italiane, aggregate all’8ª armata, che si mosse dopo il successo della 5ª, non vennero impegnate che molto tardivamente, dietro insistenze e non poterono entrare in Roma, il 5 giugno, fra le truppe liberatrici.
    Liberata Roma, Vittorio Emanuele intendeva firmare nella capitale il decreto di nomina di Umberto a luogotenente, ma la maggioranza del ministero era per la firma immediata, che fu imposta dal gen. Mac Farlane a Ravello, presso Salerno, nella villa Rufolo, nel pomeriggio del 5 giugno, presente anche il Badoglio.
    Avuto dal principe Umberto l’incarico di costituire il nuovo ministero, il B. giunse a Roma con il luogotenente la mattina dell’8. Ma qui tutti i membri del C.L.N. romano, presente il gen. Mac Farlane, dichiararono necessario un governo schiettamente democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e tale da poter condurre energicamente la guerra e preparare la libera consultazione popolare per la scelta della forma istituzionale, designando unanime il Bonomi quale presidente. Così il B. lasciava silenziosamente Roma la mattina del 9 giugno, invano sperando che P. Togliatti non approvasse l’operato del C.L.N. Il 10 giugno il Bonomi presentava al luogotenente la lista del nuovo ministero: gli alleati tardarono a riconoscere il fatto compiuto, e si dové attendere a Salerno il loro placet; solo il 15 luglio il nuovo ministero poteva insediarsi a Roma. Pare che il B. si adoperasse per avallare il nuovo governo presso gli alleati. Ma prima di sparire definitivamente dalla scena politica, nella speranza di cancellare la macchia della fuga di Pescara, il B. si adoperò perché venisse iniziata una severa inchiesta circa la mancata difesa di Roma, e specialmente contro il gen. Carboni che, invece, di sua iniziativa, aveva cercato di difenderla contro i Tedeschi.
    Ritiratosi a vita privata, fu dichiarato decaduto da senatore il 30 marzo 1945 per l’adesione data al fascismo; due anni dopo il provvedimento era cassato dalla Corte di Cassazione. Pubblicava poi due libri di memorie: Rivelazioni su Fiume, Roma 1946, con ampia appendice di documenti, e L’Italia nella seconda guerra mondiale (Memorie e documenti), Milano 1946.
    Il B. morì a Grazzano il 1° nov. 1956.(fonte)

    [11] Roberto Segre. Nacque a Torino il 6 aprile 1872 da una famiglia ebrea originaria di Saluzzo. Il padre, Giacomo, si distinse nella presa di Roma del 1870 come ufficiale dell’esercito del Regno d’Italia; la madre si chiamava Annetta Segre.
    Già nel 1885 fu al Collegio militare di Milano, quindi frequentò brillantemente l’Accademia di Torino, da cui uscì sottotenente di Stato maggiore di artiglieria (16 novembre 1890), l’arma di cui divenne un noto esperto. Dopo la formazione alla Scuola di applicazione di artiglieria e genio e le prime assegnazioni a Genova, nel novembre del 1895 fu traferito all’Ispettorato delle costruzioni di artiglieria in Roma, dove poté dedicarsi alle prime ricerche (nel 1895-97 pubblicò studi su nuovi sistemi di sviluppo tecnologico e d’impiego dell’arma). Frequentò la Scuola di guerra di Torino (1897-1900) e si dedicò all’approfondimento delle lingue (fu in Germania nel settembre del 1900). Nel corso del 1900 fu al 3° reggimento di Bologna, allo Stato maggiore della 12ªͣ divisione di manovra e, a Roma, presso il Comando del corpo di Stato maggiore. Nel maggio del 1901 fu trasferito a Napoli, al Comando artiglieria del X corpo d’armata. Promosso capitano nel dicembre del 1902, fu trasferito al 20° reggimento di Padova.
    Il 6 aprile 1905 – da febbraio era presso il Comando della divisione militare di Perugia – sposò la contessina Paolina Corinaldi, da cui ebbe tre figli.
    Nel novembre del 1907 poté tornare, non senza ostacoli, al suo incarico a Roma.
    Seguirono anni di servizio effettivo, studio e lavoro editoriale, corsi di perfezionamento e attività addestrative. Alcuni studi teorici d’artiglieria trovarono applicazione tardiva durante la guerra di Libia (1912-13) e nella Grande Guerra, altri – nonostante le novità tecniche e operative – vennero osteggiati sia da colleghi sia dal governo italiano (Zarcone, 2014, pp. 17 nota, 21-23, 30 s.).
    Dal 20 settembre 1911 – alla vigilia dell’intervento italiano in Africa – Segre fu in Tripolitania presso l’ufficio coloniale, dove predispose uno studio per il nuovo assetto difensivo delle località occupate dal corpo di spedizione italiano. Partecipò anche alle operazioni belliche dell’estate del 1913 (fu, comunque, in Italia da marzo a settembre del 1912).
    Con l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, nel maggio del 1915 il promosso maggiore (aprile 1914) raggiunse il fronte in qualità di capo di Stato maggiore della 23ªͣ divisione fanteria e, in settembre, ottenne il grado di tenente colonnello.
    La competenza di Segre – che dovette, tuttavia, incontrare non pochi ostacoli in ordine alle promozioni – determinò l’efficacia delle azioni di fuoco in diversi frangenti del conflitto: durante la terza battaglia dell’Isonzo (novembre 1915), quale sottocapo di Stato maggiore d’artiglieria del duca Emanuele Filiberto di Savoia (qui sviluppò i criteri per un uso principalmente offensivo dell’arma), per la sesta battaglia dell’Isonzo (agosto 1916, con promozione a colonnello) e per la decima (maggio 1917) – a seguito di una sua missione osservativa sul fronte della Somme (Fondo F1, b. 97); nel 1917-18 fu capo di Stato maggiore del V corpo d’armata sugli Altipiani e, quindi, comandante della 6ª armata, ottenendo nel luglio del 1918 la promozione a maggiore generale per merito di guerra per la ‘battaglia del solstizio’ del giugno precedente.
    Il nome di Segre è principalmente legato al comando della missione viennese del 1918-22 per il rispetto delle clausole dell’armistizio del 4 novembre 1918 (Fondo E8, bb. 147, 159; Fondo E15, bb. 38, 44). Gli fu consentita una grande libertà nelle modalità d’azione e nelle scelte operative, benché le clausole del protocollo di Villa Giusti prevedessero, principalmente, smobilitazione e disarmo dell’esercito nemico, amministrazione provvisoria delle aree occupate e rimpatrio dei prigionieri italiani. Di fatto, Segre intese svolgere un’effettiva rappresentanza diplomatica, con il tentativo di salvaguardare anche gli interessi commerciali italiani sui territori ex asburgici. Incontrò, tuttavia, ostacoli e inimicizie anche da parte dei commissari politici italiani in Austria, dei colleghi militari e della stampa progressista.
    Dei diversi uffici svolti dalla missione alcuni rivestono, per le loro caratteristiche di novità, un certo interesse: la composizione di un ufficio stampa efficiente e l’organizzazione di una rete territoriale di delegazioni – al fine di significare e tutelare la presenza italiana; l’istituzione, per volontà dello stesso Segre, di una commissione artistica di persone qualificate (che determinò il rientro in Italia di migliaia di preziose opere d’arte trafugate nei decenni precedenti); le iniziative umanitarie per la popolazione bisognosa viennese.
    Nell’ottobre del 1919 Segre fu coinvolto in un’inchiesta governativa, alquanto torbida nei procedimenti, relativa alla missione viennese (Direzione generale personale militaread nomen; cfr. anche Fondo E11 – Missioni militari varie), a proposito di affari illeciti che coinvolsero interi uffici (irregolarità riconosciute dallo stesso Segre), il cui scandalo fu poi sollevato dalla stampa austriaca e italiana (dicembre 1919). Due successive inchieste amministrative nel 1920 – Segre era stato rimosso dall’incarico in gennaio – ne decisero il deferimento al magistrato penale per gravi responsabilità (Direzione generale personale militaread nomenInchiesta Meomartini) e l’arresto, nel maggio del 1921, costringendolo ad abbandonare il comando del corpo d’armata di Milano. Benché scagionato per inesistenza di reato (2 aprile 1922) – e assolto anche da un Consiglio di disciplina (maggio-giugno 1923) – la sua carriera dovette interrompersi.
    Il riconoscimento del grado di maggiore generale e la piena riabilitazione da parte della commissione voluta dal ministro della Guerra Armando Diaz (giugno 1923) non fermarono le polemiche precedenti relative alle graduatorie e le richieste di riparazione avanzate da Segre (ibid., per i lusinghieri giudizi dei superiori, ma anche per i vari contenziosi relativi agli avanzamenti di carriera).
    Il 23 gennaio 1924 ebbe il comando della 7ª divisione militare territoriale di Brescia; seguirono due anni di polemica con il comandante del corpo d’armata di Milano. Il 19 dicembre 1926 fu collocato a disposizione per ispezioni e, negli anni successivi, si dedicò allo studio e alle pubblicazioni, di cui la più importante resta quella sulla missione viennese.
    Ancora nel 1932-33 dovette essere coinvolto in una querelle giornalistica – protrattasi fino alla sua morte – con il maresciallo d’Italia Gaetano Giardino, a proposito della paternità del successo della ‘battaglia del solstizio’.
    Dopo le ultime di numerose onorificenze, nel giugno del 1934 Segre fu collocato a disposizione e, nell’aprile del 1936 – con la promozione a generale di Corpo d’armata –, in ausiliaria per età.
    Morì il 22 settembre 1936, evitando – lui ma non la famiglia, costretta in seguito a lasciare l’Italia – l’oltraggio delle leggi razziali (1938).(fonte)

    [12] Alberto Emanuele Lumbroso Nacque a Torino il 1o ott. 1872, in una famiglia israelita, unico figlio di Giacomo e di Maria Esmeralda Todros, di nazionalità francese.
    Il nonno paterno, Abramo, protomedico del bey di Tunisi, aveva ottenuto nel 1866 da Vittorio Emanuele II il titolo di barone per meriti scientifici e per speciali benemerenze. Il padre del L., Giacomo, era nato a Bardo, in Tunisia, nel 1844. Ellenista e papirologo di fama internazionale, dal 1874 socio della Deutsche Akademie der Wissenschaften, influenzò fortemente l’educazione e la formazione intellettuale del Lumbroso. Trasferitosi a Roma intorno al 1877, divenne accademico dei Lincei (1878) e pubblicò la sua opera principale, L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani (Roma 1882), ottenendo nello stesso 1882 la cattedra di storia antica all’Università di Palermo. Con il medesimo insegnamento, nel 1884, si trasferì a Pisa, quindi, nel 1887, nuovamente a Roma dove insegnò storia moderna alla “Sapienza” (vedi le Lezioni universitarie su Cola di Rienzo, ibid. 1891). Giacomo morì a Rapallo nel 1925.
    I trasferimenti del padre lasciarono notevoli tracce nella formazione del giovane L.; tra le sue prime esperienze romane si ricordano la frequentazione delle case di T. Mamiani e di Q. Sella, dove divenne amico di S. Giacomelli, nipote di questo; in Sicilia rimase affascinato da G. Pitrè e, nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari da lui diretto, pubblicò nel 1896 il suo primo articolo.
    Nel periodo pisano il L. continuò con successo gli studi e sviluppò una notevole passione per la cultura erudita, collezionando autografi, raccogliendo motti, proverbi e notizie folkloristiche, sempre in perfetta sintonia con il padre. Tornato a Roma si diplomò al liceo classico E.Q. Visconti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si appassionò al periodo napoleonico, laureandosi, intorno al 1894, con una tesi su Napoleone I e l’Inghilterra (poi rielaborata e pubblicata in volume: Napoleone I e l’Inghilterra. Saggio sulle origini del blocco continentale e sulle sue conseguenze economiche, Roma 1897). Gli studi napoleonici occuparono interamente il L. fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. La frequentazione di ambienti intellettuali ed eruditi italiani (soprattutto romani, torinesi e, più tardi, napoletani) e francesi, l’assoluta familiarità con la lingua della madre e lo sviluppo di un talento compilativo dimostrato fin dalla prima giovinezza portarono il L. alla realizzazione di un gran numero di pubblicazioni.
    Tra il 1894 e il 1895 uscirono i cinque volumi del Saggio di una bibliografia ragionata per servire alla storia dell’epoca napoleonica (Modena), circa mille pagine dedicate alle lettere “da A a Bernays” (l’opera resterà incompiuta) e tra il 1895 e il 1898 le sei serie della Miscellanea napoleonica (Roma-Modena), altra cospicua opera erudita di oltre millecinquecento pagine che raccoglieva memoriali, lettere, canzoni, accadimenti notevoli e minuti forniti da studiosi europei e introdotti dal L.; nella Bibliografia dell’età del Risorgimento V.E. Giuntella li definì “saggi bibliografici che, sebbene arretrati, possono ancora essere utilmente consultati” (I, Firenze 1971, p. 405).
    L’interesse per il periodo napoleonico portò il L. a Napoli, in cerca di notizie e documenti su Gioacchino Murat. Suo interlocutore privilegiato in quella città fu B. Croce: il L. frequentò la casa del filosofo negli ultimi anni del secolo e i rapporti epistolari tra i due si protrassero a lungo.
    I maggiori lavori napoletani del L. furono la Correspondance de Joachim Murat, chasseur à cheval, général, maréchal d’Empire, grand-duc de Clèves et de Berg (julliet 1791 – julliet 1808 [sic]), (prefaz. di H. Houssaves, Turin 1899 e L’agonia di un Regno: Gioacchino Murat al Pizzo (1815), I, L’addio a Napoli, prefaz. di G. Mazzatinti, Roma-Bologna 1904.
    Alla fine del secolo il L. fu organizzatore e presidente operativo del Comitato internazionale per il centenario della battaglia di Marengo (14 giugno 1800-1900): chiamò alla presidenza onoraria G. Larroumet, professore della Sorbona e accademico di Francia, ottenendo la partecipazione onoraria di noti intellettuali tra cui G. Carducci, B. Croce, G. Mazzatinti, C. Segre, A. Sorel, le cui lettere di adesione furono via via pubblicate nel Bulletin mensuel du Comité international; nel 1903, accompagnato da una lettera-prefazione di Larroumet, fu edito il primo tomo, poi rimasto senza seguito, dei Mélanges Marengo (s.l. [ma Frascati] né d.).
    Ancora una volta il L. usa uno stile cronachistico, cerca e pubblica ogni genere di fonte, prediligendo quelle dirette. A tale scopo rintraccia figli e nipoti dei personaggi che descrive; caso emblematico quello dei “Napoleonidi”: e infatti, grazie ai suoi lavori e alle sue frequentazioni parigine, divenne “Bibliothécaire honoraire de S.A.I. le prince Napoléon” [Vittorio Napoleone]; pubblicò poi Napoleone II, studi e ricerche. Ritratti, fac-simili di autografi e vari scritti editi ed inediti sul duca di Reichstadt (Roma 1902), Bibliografia ragionata per servire alla storia di Napoleone II, re di Roma, duca di Reichstadt (ibid. 1905) e – più tardi – redasse le voci su Napoleone I e i Napoleonidi per il Grande Dizionario enciclopedico UTET (1937, VII, pp. 1100-1150). A coronamento dei suoi interessi per i Bonaparte, nel 1901 il L. fondò e diresse la Revue napoléonienne, bimestrale (ma, dal 1908, mensile) che uscì fino al 1913, coinvolgendo nell’iniziativa un gran numero di studiosi italiani e francesi.
    L’interesse per la cultura d’Oltralpe lo portò a pubblicare anche lavori su Voltaire (Voltairiana inedita, Roma 1901), Stendhal (Stendhaliana: da Enrico Beyle a Gioacchino Rossini, Pinerolo 1902) e soprattutto Maupassant (Souvenirs sur Guy de Maupassant: sa dernière maladie, sa mort. Avec des lettres inédites communiquées par madame Laure de Maupassant et des notes recueillies parmi les amis et les médecins de l’écrivain, Genève-Rome 1905), scritto durante un lungo soggiorno parigino.
    Nel 1898 il L. era intanto diventato consigliere della Società bibliografica italiana e probabilmente nel contesto culturale della Società conobbe Carducci, cui dedicò, postuma, una Miscellanea carducciana (con prefaz. di B. Croce, Bologna 1911), raccolta di notizie critiche, biografiche e bibliografiche sul poeta.
    Nel 1897 aveva sposato Natalia Besso, dall’unione con la quale nacquero Maria Letizia (1898) e Ortensia (1901). Nel 1901 l’intera famiglia abbracciò la religione cattolica. Nel 1904 il L. donò la sua ricca biblioteca napoleonica (circa trentamila volumi e opuscoli) alla Biblioteca nazionale di Torino, da poco distrutta in un incendio. Nel 1907 assunse, con A.J. Rusconi, la direzione della Rivista di Roma e, a partire dal 1909, ne divenne direttore unico.
    La direzione della Rivista rappresentò una svolta nei suoi interessi e nei suoi studi, che da internazionali ed eruditi divennero più “patriottici”, legati a eventi del Risorgimento e della storia italiana (in particolare il L. sì appassionò alla riabilitazione dell’ammiraglio C. Pellion di Persano e, oltre agli articoli apparsi nella Rivista, sull’argomento pubblicò La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda: la verità sulla campagna navale del 1866 desunta da nuovi documenti e testimonianze, Roma 1910, seguita da ulteriori approfondimenti, tra cui Il carteggio di un vinto, ibid. 1917). Tra coloro chiamati dal L. a collaborare alla Rivista – che dal primo momento egli volle “crispina, salandrina e antigiolittiana” e, dopo la guerra, “antibonomiana e antinittiana” (Premessa, s. 3, XXXII [1928], 1) – D. Oliva, E. Corradini, L. Ferderzoni, A. Dudan.
    Dal 1909 G. D’Annunzio collaborò alla Rivista di Roma. Il contatto diretto portò in breve tempo il L., inizialmente piuttosto critico nei confronti del poeta (si veda del L. Plagi, imitazioni e traduzioni, in Id., Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo(, Frascati 1902, pubblicazione che Croce aveva particolarmente apprezzato), a divenirne ammiratore e paladino, fino a entrare in forte polemica sia con lo stesso Croce sia con G.A. Borgese; nel 1913, nel cinquantesimo anniversario di D’Annunzio, volle dedicargli l’intero n. 6 della Rivista; nello stesso anno il L. fu attivo nel Comitato pro Dalmazia italiana e, nel 1914, diede vita a un Comitato pro Polonia del quale offrì la presidenza onoraria al poeta.
    Approssimandosi la guerra, la Rivista di Roma svolse campagne in favore dell’intervento e, nel 1915, lo stesso L. partì volontario col grado di sottotenente. Promosso tenente, dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto presso l’ambasciata italiana ad Atene e, al termine del conflitto, fu insignito del cavalierato nell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per benemerenze acquisite in guerra.
    Nel 1924, ormai di fatto separato dalla moglie, il L. si trasferì a Genova dove riprese la pubblicazione della Rivista di Roma, sospesa nel biennio 1922-23, che diresse fino al 1932. A Genova ebbe due figli, Emanuele e Maria Tornaghi, nati nel 1918 e nel 1919 da Adriana Tornaghi, con la quale aveva a lungo convissuto.
    Dopo la morte del padre, il L. ne pubblicò la bibliografia (in Raccolta di scritti in onore di Giacomo Lumbroso, Milano 1925); fin dal 1923 aveva collaborato con Critica fascista, e nel 1929 inviò suoi libri a B. Mussolini e chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista. I lavori più consistenti del L. negli anni Venti e Trenta furono dedicati principalmente alla Grande Guerra e a personaggi della casa reale.
    Bibliografia ragionata della guerra delle nazioni: numeri 1-1000 (scritti anteriori al 1  marzo 1916), Roma 1920; Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, I-II, Milano 1926-28; Carteggi imperiali e reali: 1870-1918. Come sovrani e uomini di Stato stranieri passarono da un sincero pacifismo al convincimento della guerra inevitabile, ibid. 1931; Cinque capi nella tormenta e dopo: Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Giardino, Thaon di Revel visti da vicino, ibid. 1932; Da Adua alla Bainsizza a Vittorio Veneto: documenti inediti, polemiche, spunti critici, Genova 1932; Fame usurpate: il dramma del comando unico interalleato, Milano 1934.
    Fra gli ultimi volumi pubblicati dal L. si ricordano ancora: Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, con uno studio sulla campagna del 1848 e con un’appendice di documenti inediti o sconosciuti tradotti sugli autografi francesi del re da Carlo Promis (s.l. 1935) nonché, per i “Quaderni di cultura sabauda”, I duchi di Genova dal 1822 ad oggi (Ferdinando, Tommaso, Ferdinando-Umberto), ed Elena di Montenegro regina d’Italia (entrambi Firenze 1934).
    Grazie al suo prestigio personale e all’adesione al cattolicesimo risalente al 1901, i Lumbroso furono discriminati dall’applicazione delle leggi razziali del 1938, ma il L. non pubblicò più. Il L. morì a Santa Margherita Ligure l’8 maggio 1942.(fonte)

    [13] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
    Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.
    L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.
    Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)