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Ferruccio Parri, memoriale, 1931

    Ferruccio Parri, 1931
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    1. Non risulta che in opposizione al concetto offensivo austriaco (ma-
      novra del Gr.Conrad[1] con l’11a A Schuescheustuel e del Gr. Boroevic[2]) il
      C. S.[3] italiano avesse preparata un’offensiva: pertanto non poteva la VI A
      compierla contro il Gr. Conrad.
      Risulta invece che il C. S. italiano – secondo gli accordi intervenuti al
      Consiglio interalleato a Rapallo[4] – doveva, per tutto il 18, mantenere una
      salda difensiva, come dovevasi fare sugli altri fronti, sia sul tratto mon-
      tano che su quello del Piave.
    2. Date le condizioni generali delle forze dell’Intesa, ed in particolare del-
      le nostre appena riorganizzate dopo la ritirata di Caporetto[5],
      tale difensiva – specie sul tratto montano – era già difficile data
      l’impossibilità di costituire poi un sistema elastico e scaglionato
      in profondità. Si sapeva anche che Germania ed Austria per
      la prossima offensiva stavano preparando uno sforzo immane
      giocando forse le loro ultime carte.
    3. Che l’offensiva austriaca sia stata arrestata, sul tratto montano,
      sui dai primi giorni (15 – 16) è vero e col 17 la lotta cessò sul fronte
      della VI[6] e IV[7] A: ma ciò è spiegato dal fatto che su quel tratto
      l’azione della XI a A austriaca aveva carattere dimostrativo – All’ar-
      resto certo contribuì molto la nostra contropreparazione dato che po=
      temmo, il 14, conoscere l’ora d’inizi dell’offensiva.
      Il concetto d’azione austriaco era di sfondare in due punti del
      Piave per impadronirsi delle due grandi strade di Milano e di
      Venezia = il che spiega l’accanita lotta sul Montello.
    4. Sembra voler capovolgere il naturale andamento della comples-
      sa azione (semplice però nella sua linea maestra) pensare ad
      un’offensiva nostra sul fronte montano. E pare evidente che
      non ci sia che da ringraziare, ancora oggi, la buona stella se in
      quella grande battaglia, – ch’è sempre la nostra maggior vitto-
      ria! – il C. S. ebbe chiara la percezione sul disegno nemico e
      non si lasciò ingannare dall’azione sul fronte montano!
      logico quindi il fatto d’aver saggiamente predisposte forti
      riserve ed averne procurate altre – lotta durante – dai settori


      già stabilizzati in modo da alimentare la difesa e poi accen
      dere la controffensiva in quello vitale del Piave!
    5. Come si potesse – e si possa oggi – concepire un’offensiva sul
      fronte montano, da parte nostra, non riesco a concepire!
      Certo che se il 23 giugno o nei giorni precedenti avessimo
      potuto disporre d’imponenti forze col morale elevato dalla
      forte resistenza sul Piave avremmo potuto – forse – compiere
      una grossa e decisiva manovra, ma noi non avevamo
      che quanto era – e fu – appena sufficiente per contenere
      l’urto nemico sul Piave (e questo, dobbiamo ricono-
      scere, ci aiutò anche assai!…)
    6. È vero: i grandi capitani non si lasciano sfuggire le occasio-
      ni favorevoli: appunto perciò dimostrano la rara facoltà
      di percepire il giusto momento; perciò si distinguono da
      quelli che non sono grandi e che si lasciano soltanto
      trascinare dall’azzardo (o dalla presunzione, o dall’ambi-
      zione, o da entrambe) e convincono così gli eserciti alla
      sconfitta e la nazione alla rovina = gli esempi non
      mancano …..

    Caro Barone[8],

    Ecco, come Lei desidera, le mie idee in proposito del proble-
    mino = veramente mi sembra che di mio ci sia poco poiché le cose
    dette appartengono ormai alla storia militare. Ad ogni modo
    ne faccia il conto che crede e voglia considerarle di un Tizio
    qualunque!
    Non so se potrò venire a Genova presto ad ogni modo spero ci
    rivedremo qui fra breve.
    Con affettuosi saluti mi creda

    l’affettuoso suo
    Parri[9]

    4 – XII – 931
    Tredici anni or sono, in questo giorno ed ora, battevo coi miei pezzi, l’ansa
    di Zenson ultimo rifugio di due eroici battaglioni austriaci! È strano co
    me la lotta renda più felici gli uomini!

    Ferruccio Parri, busta
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    MESSINA FERROVIA 19-20 4 . XII 31-X

    TUTTI GLI UFFICI POSTALI
    ESEGUONO IL SERVIZIO
    DEI PACCHI URGENTI 


    Note

    Una premessa sul memoriale:
    Il dattiloscritto è quello fornito dal Barone Lumbroso ai vari generali e riporta il contenuto della questione sollevata dal Generale Monti[10], relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad.
    Parri, nelle sue note, si riferisce al foglio fornito dal Barone per annotare, sul lato destro, le sue considerazioni a riguardo.

    La busta riporta solo l’annullo della stazione di partenza. Probabilmente è dovuto alla condizione che trovava ancora nel 1931 Parri al confino. La corrispondenza delle persone al confino, in arrivo e in partenza era controllata e censurata. Per questo motivo non ha un annullo di ricezione.

    [1] Franz Conrad von Hötzendorf. Feldmaresciallo austriaco, nato l’11 novembre 1852 a Penzing presso Vienna, morto a Mergentheim il 25 agosto 1925. Nel 1906 fu nominato capo di Stato maggiore. Tedesco di stirpe, egli era prettamente austriaco per sentimento, e considerava un furto le rivendicazioni dell’Italia nel 1859 e nel 1866; e sotto lo stesso punto di vista considerava le agitazioni interne ed esterne delle varie nazionalità della duplice monarchia. Perciò egli vide l’unico mezzo di salvezza nella guerra preventiva contro l’Italia (da lui considerata come il nemico tradizionale) e contro la Serbia, sede dell’irredentismo slavo: nel 1911 il ministro Aehrenthal, in seguito a un nuovo tentativo d’indurre alla guerra contro l’Italia impegnata a Tripoli, ottenne dall’imperatore che si ponesse fine a una politica dallo stesso ministro qualificata “di banditismo”, e il C. fu allontanato dalla carica di capo di Stato maggiore; alla quale fu però richiamato dopo la morte dell’Aehrenthal (1912).
    Il C., rimase spesso un solitario, chiuso nella propria superiorità intellettuale, lontano dalla realtà: fino a vedere, ad esempio, continui disegni di aggressione da parte dell’Italia, la quale invece sino a pochi anni prima della guerra mondiale non aveva avuto, verso oriente, che timidi progetti di mobilitazione a carattere difensivo.
    Allo scoppiare della guerra europea egli scrisse a Cadorna che il precedente capo di Stato maggiore, Pollio, gli aveva promesso di mandare truppe in Austria: il C. stesso nelle sue memorie, minute talvolta fino al superfluo, si guarda bene dal precisare dove il Pollio avrebbe fatto simile promessa, in realtà inesistente.
    Anche in guerra il C. si tenne, per abitudine, fuori del contatto con i comandi dipendenti: il generale Krauss, capo di Stato maggiore del comando della fronte verso l’Italia, durante i 27 mesi trascorsi in tale carica non vide mai il C.: così si spiega come questi non conoscesse a sufficienza né i comandi né le truppe. Tali caratteristiche negative, e i preconcetti teorici spiegano gl’insuccessi che il C. ebbe nel campo della realtà. Fu quasi sempre in disaccordo con lo Stato maggiore germanico: tipico il dissenso col Falkenhayn nel maggio 1916, contro il parere del quale attuò l’offensiva del Trentino, con grave danno per le operazioni alla fronte russa.
    Dopo la morte di Francesco Giuseppe, il nuovo imperatore volle assumere personalmente la direzione delle operazioni, ma non trovò un collaboratore gradito nel C., il quale d’altra parte aveva perduto molto del suo prestigio presso l’esercito in seguito all’insuccesso dell’offensiva del giugno 1916 contro l’Italia. L’imperatore Carlo lo mandò a comandare il gruppo di armate del Tirolo. La battaglia del Piave (v.) nel giugno del 1918, nella quale il C. sperava di attuare la sua antica concezione di scendere dagli Altipiani per prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano, fu un disastroso insuccesso per il maresciallo. L’imperatore lo esonerò dal comando, colmandolo tuttavia di onori. Il C. si ritrasse a vita privata e negli ultimi tempi attese a scrivere le sue memorie (Aus meiner Dienstzeit), dal 1906 fino a tutto il 1914, troncate dalla sua morte. Traspare in esse il malanimo contro l’Italia, diventato nel C. una seconda natura, ma le memorie sono un documento prezioso per la nostra storia mettendo in luce i progressi del nostro esercito negli anni precedenti la guerra.
    L’odio tolse al C. la serenità necessaria per apprezzare al giusto valore gli avversari e questa fu non ultima ragione per la quale il successo raramente gli arrise. Si debbono però riconoscergli grandi doti d’intelletto, di operosità e di carattere.(fonte)

    [2] Svetozar Boroević. Feldmaresciallo austriaco, nato a Umetic (Croazia) il 13 dicembre 1856, morto il 13 maggio 1920 a Klagenfurt. Comandante il VI corpo d’armata, si segnalò nella battaglia di Komarów (29 e 30 agosto 1914), ove fu sconfitta la V armata russa, e il 4 settembre fu nominato comandante della III armata. Alla testa di tale grande unità partecipò alla battaglia di Leopoli, la quale, malgrado i successi locali conseguiti dal B., terminò con la ritirata dell’esercito austroungarico (11 settembre), che abbandonò ai Russi circa centomila prigionieri e tutta la Galizia. L’armata del B. nell’autunno del 1914 fu destinata alla difesa dei Carpazî. Nella battaglia di Limanowa (dicembre 1914), nella quale i Russi dopo lunga lotta furono arrestati nella loro avanzata minacciosa verso la Slesia, il B. avrebbe dovuto, scendendo dai monti, attaccare sul fianco sinistro i Russi e produrre la decisione, ma dopo qualche successo, nuovi rinforzi giunti all’avversario costrinsero (Natale 1914) il B. a ritirarsí dopo aspri combattimenti presso Jasło, sino alla cresta dei Carpazî, che difese con grande tenacia. Di fronte agli attacchi ostinati dei Russi il B. seppe cedere poco terreno, senza compromettere la solidità della difesa.
    Le forze del B. in unione alla II armata tentarono invano nel marzo di liberare il campo trincerato di Przemysł che il 22 marzo dovette arrendersi. Con le forze rese cosị disponibili i Russi rinnovarono persistenti e sanguinosi attacchi specialmente contro il centro e la destra delle truppe del B., talchḫ fu necessario inviare in rinforzo il corpo d’armata tedesco detto dei Beschidi, con l’aiuto del quale i Russi vennero respinti.
    Dopo la battaglia di Gorlice (2 maggio 1915) i Russi furono costretti alla ritirata e l’armata del B. passn̄ all’offensiva contro l’avversario che ripiegava sull’intera fronte. Il 27 maggio 1915 al B. venne affidato il comando della nuova V armata destinata allo scacchiere italiano per la difesa della fronte dal Monte Nero al mare. Da allora il B. rimase nel teatro d’operazioni italiano. La V armata prese dal gennaio 1916 il nome di armata dell’Isonzo; il 23 agosto 1917 essa fu divisa in due armate, la I e II armata dell’Isonzo, le quali costituirono il gruppo d’armata Boroević.
    Il B. diresse tutte le operazioni alla fronte giulia: egli ebbe quindi parte preminente nella tenace difesa che l’esercito imperiale oppose alle nostre offensive durante gli anni 1915-16-17: nonostante però il valore delle truppe e l’abilità dei capi e i continui rinforzi tratti dalla fronte russa, la nostra azione poderosa aveva portato l’esercito austriaco vicino allo sfacelo, tanto che l’Austria fu costretta a ricorrere alla Germania, la quale inviò alla fronte giulia un’armata per effettuare l’offensiva di Caporetto. In questa operazione si verificarono fra l’armata di destra del B. e le truppe vicine attriti e contrattempi che diedero motivo a gravi accuse da parte degli avversarî del B. Il generale di fanteria Alfredo Krauss, che fu capo di Stato maggiore delle forze austriache alla fronte italiana e che comandò durante l’offensiva di Caporetto il I corpo d’armata austriaco alla dipendenza della XIV armata tedesca (conca di Plezzo), nella sua opera Die Ursachen unserer Niederlage afferma che il B. rimase troppo lontano dalle truppe operanti e che egli con inopportuni ordini motivati da invidia “salvò la III armata italiana”. Il generale austriaco soggiunge che la limitata capacità del B. era ben nota nell’esercito ed anche al comando supremo. Tali aspri giudizî sono un’eco evidente degli attriti esistenti nell’esercito austriaco fra comandanti di differenti nazionalità.
    Raggiunto il Piave e partita la XIV armata germanica, la fronte dal mare al Grappa fu affidata al B. (nel febbraio promosso feldmaresciallo), mentre la fronte montana era affidata al Conrad. Nell’offensiva del giugno, secondo il primitivo disegno d’operazione, l’attacco decisivo avrebbe dovuto essere effettuato esclusivamente dal Conrad, mentre un compito soltanto dimostrativo era affidato al gruppo B. Questi avrebbe preferito non dare battaglia, per conservare le forze intatte in vista di una prossima pace; ma, come afferma il generale tedesco Cramon (allora addetto al Comando supremo austro-ungarico) nel suo libro Unser österreichischungarischer Bundesgenosse, il B. non era un uomo da accontentarsi, una volta decisa l’offensiva, d’incarichi secondarî. In tal modo l’attacco, diluito pressoché sull’intera fronte, perdette di vigore e naufragò miseramente. Tuttavia, mentre l’offensiva del Conrad fu stroncata sin dal primo giorno, le truppe del B. riuscirono a passare il Piave e a mantenervisi, sia pure in ristretto spazio, per alcuni giorni; ma il 20 giugno, cioè cinque giorni dopo l’inizio dell’offensiva, il B. dichiarò esplicitamente al Comando supremo che, se si voleva evitare una catastrofe, occorreva ritirare le truppe sulla sinistra del Piave. Dopo una giornata di esitazioni dovute a motivi politici, l’imperatore si piegò alle ragioni militari del B.
    L’attacco italiano dell’ottobre 1918 fu da principio diretto contro il gruppo dell’esercito Boroević, prima sul Grappa, dove le truppe imperiali opposero accanita ed efficace resistenza, poi sul Piave. Ma dopo che le forze nostre ebbero guadagnato a viva forza il passaggio del fiume, l’esercito, seguendo l’esempio del paese, incominciò a sconnettersi, e il maresciallo dovette assistere impotente alla ritirata e alla dissoluzione dell’esercito imperiale.
    Il B., generale stimato in pace per la sua elevata capacità, si era dimostrato a Komarów comandante di corpo d’armata prudente e nello stesso tempo energico e tenace. Il suo ordine del giorno nell’assumere il comando dell’armata incomincia: “Soldati, io vengo a voi come vincitore…” In realtà il B. d’allora in poi non conobbe più la vittoria vera, perché le sue azioni fortunate furono riflesso di successi altrui. È però certo ch’egli mostrò, sia sui Carpazî sia sull’Isonzo, fermezza ed energia non comuni, non mai smentite durante oltre quattro anni di guerra.(fonte)

    [3] Il Comando Supremo Militare Italiano era l’organo di vertice delle forze armate italiane, tra il 1915 e il 1920, durante il Regno d’Italia.
    Istituito durante la prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, con sede operativa a Villa Volpe a Fagagna e dal mese di giugno nel Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il Comando Supremo del Regio Esercito fu sciolto il 1º gennaio 1920 e parte delle sue competenze passarono allo Stato Maggiore del Regio Esercito.
    Tra il 1941 e il 1945 fu istituito il Comando Supremo italiano.
    Era suddiviso in tre organi principali, l’Ufficio del Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano Tenente Generale Luigi Cadorna, il Riparto Operazioni e il Quartier generale, composti da un certo numero di uffici ciascuno.
    L’8 novembre 1917, dopo la Battaglia di Caporetto, la sede, dopo aver ripiegato dal 27 ottobre a Palazzo Revedin di Treviso, poi a Palazzo Dolfin di Padova, poi nella villa di Bruno Brunelli Bonetti a Tramonte di Teolo è stabilita all’Hotel Trieste di Abano Terme agli ordini del Generale Armando Diaz.(fonte)

    [4] Il trattato di Rapallo fu un accordo internazionale firmato il 12 novembre 1920 a Rapallo tramite il quale l’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono consensualmente i confini dei due Stati e le rispettive sovranità, nel rispetto reciproco dei principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli. Esso comportò l’annessione al Regno d’Italia di Gorizia, Trieste, Pola e Zara.
    I negoziati e la riunione di villa Spinola
    Giovanni Giolitti, che successe a Nitti il 15 giugno 1920, ereditò da quest’ultimo la questione adriatica e il problema della definizione dei confini orientali. A tal fine, scelse Carlo Sforza come Ministro degli affari esteri. Quest’ultimo, allo scoppio della prima guerra mondiale, era politicamente collocato nelle file dell’interventismo democratico. La sua visione della guerra era conforme a quella mazziniana e risorgimentale, secondo cui la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico sarebbe stata ineluttabile, dovuta al risveglio delle nazionalità oppresse. Diplomatico di carriera, tra il 1916 e il 1918, Sforza aveva rivestito la carica di ministro plenipotenziario presso il governo serbo – rifugiatosi a Corfù – e si trovò a gestire diplomaticamente il nodo dei rapporti transadriatici, in contrasto con il suo superiore politico Sidney Sonnino. In tale veste aveva stretto ottimi rapporti con i rappresentanti politici serbi, che conosceva personalmente.
    Una delle prime iniziative adottate da Sforza, fu l’evacuazione delle truppe d’occupazione italiane in Albania, mantenendo una sola guarnigione sull’isoletta di Saseno. Tale operazione fu attuata anche in vista di una normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi.
    A latere della Conferenza interalleata di Spa, nel luglio 1920, Sforza ebbe tre colloqui con il Ministro degli esteri del regno dei Serbi, Croati e Sloveni Ante Trumbić. Nel terzo di tali colloqui, che si tenne il 17 luglio, Trumbić espresse a Sforza il desiderio di riprendere i colloqui interrotti a Pallanza. Il ministro degli Esteri italiano rispose di condividere la necessità di riprendere il negoziato, ritenendo peraltro che ogni precedente risoluzione doveva considerarsi azzerata. Sforza si disse favorevole alla costituzione di uno Stato indipendente fiumano, ma aggiunse di considerare essenziale un confine fissato sulle Alpi Giulie, coincidente con quello naturale tra i due Regni, e l’integrazione in favore dell’Italia di alcune isole adiacenti, quali Cherso e Lussino ed altre da definire. Affermò, infine, di essere disposto ad affrontare qualsiasi passeggera impopolarità nel suo paese, pur di difendere gli interessi permanenti dell’Italia e della pace tra i due Regni.
    Nelle settimane successive Trumbić si recò a Londra e a Parigi, al fine di premere sui governanti inglesi e francesi sulle pretese del nuovo governo italiano. Il ministro jugoslavo fu tuttavia diplomaticamente ben contrastato dal ministro Sforza, che, in entrambi i casi, fece illustrare ai governanti alleati la posizione italiana dai propri ambasciatori. Contemporaneamente, Sforza inviò dei dispacci dettagliati ai suoi colleghi inglese e francese, ed anche a Washington, circa la linea di confine che definiva non negoziabile con gli jugoslavi, acquisendone l’appoggio diplomatico. Infine, Sforza dette istruzioni all’ambasciatore italiano a Belgrado di far presente al Primo ministro jugoslavo Milenko Vesnić, che l’evacuazione dell’Albania da parte delle truppe italiane, e la non annessione italiana di Fiume, costituivano due atti, da parte dell’Italia, che il governo jugoslavo doveva, giustamente, apprezzare.
    Il negoziato fu fissato a partire dal 7 novembre successivo, nella Villa Spinola (oggi conosciuta anche come “Villa del Trattato”), nel borgo di San Michele di Pagana presso Rapallo. Sforza era accompagnato dal Ministro della guerra Ivanoe Bonomi; solo a trattative ultimate, per la firma dell’accordo, fu raggiunto dal Primo ministro Giolitti. La delegazione jugoslava era composta dal Primo ministro Vesnić, dal ministro Trumbić e dal Ministro delle finanze Kosta Stojanović.
    Sin dalla prima riunione, apertasi l’8 novembre alle ore 9.30, Sforza pose sul tavolo le sue condizioni: la fissazione della frontiera terrestre allo spartiacque alpino da Tarvisio al Golfo del Quarnaro, compreso il Monte Nevoso; la costituzione del territorio di Fiume in Stato libero indipendente, collegato all’Italia da una striscia costiera, l’assegnazione all’Italia della città di Zara e delle isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa. Nei due giorni successivi, si tentò ancora, da parte di Belgrado, di avvicinare gli ambasciatori inglese e francese, al fine di premere sui rappresentanti italiani, ma senza alcun esito. La mattina del 10 novembre, Sforza poté, dunque, insistere su tutti i punti richiesti, salvo che per l’isola di Lissa, che, inizialmente, faceva parte delle richieste italiane. Infine, superando anche le ultime riserve relative al passaggio di Zara all’Italia, la sera del 10 novembre, Ante Trumbić comunicò a Sforza di accettare le frontiere proposte dal governo italiano. L’accordo venne sottoscritto il 12 novembre 1920.
    Un successivo accordo, firmato il 25 novembre 1920 a Santa Margherita Ligure, prevedeva una serie di intese economiche e finanziarie tra i due paesi e, il 12 novembre, i due governi sottoscrissero una convenzione antiasburgica per la mutua difesa delle condizioni del precedente Trattato di Saint-Germain.(fonte)

    [5] La battaglia di Caporetto, o dodicesima battaglia dell’Isonzo (in tedesco Schlacht von Karfreit, o zwölfte Isonzoschlacht), conosciuta in Italia e all’estero anche come “rotta” o “disfatta di Caporetto”, fu uno scontro combattuto sul fronte italiano della prima guerra mondiale, tra le forze congiunte degli eserciti austro-ungarico e tedesco, contro il Regio Esercito italiano. L’attacco, cominciato alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917 contro le linee della 2ª Armata italiana sulla linea tra Tolmino e Caporetto (Kobarid), portò alla più grave disfatta nella storia dell’esercito italiano, al collasso di interi corpi d’armata e al ripiegamento dell’intero esercito italiano fino al fiume Piave. La rotta produsse quasi 300 000 prigionieri e 350 000 sbandati, tanto che ancora oggi il termine “Caporetto” è entrato nell’uso comune della lingua italiana per indicare una pesante sconfitta, una disfatta, una capitolazione.
    Approfittando della crisi politica interna alla Russia zarista, dovuta alla rivoluzione bolscevica, Austria-Ungheria e Germania poterono trasferire consistenti truppe dal fronte orientale a quello occidentale e italiano. Forti di questi rinforzi, gli austro-ungarici, con l’apporto di reparti d’élite tedeschi, sfondarono le linee tenute dalle truppe italiane che, impreparate a una guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti undici battaglie dell’Isonzo, non ressero all’urto e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave, a 150 chilometri di distanza.
    La sconfitta portò a immediate conseguenze politiche (le dimissioni del Governo Boselli e la nomina di Vittorio Emanuele Orlando) e militari, con l’avvicendamento del generale Luigi Cadorna (che cercò di nascondere i suoi gravi errori tattici, imputando le responsabilità alla presunta viltà di alcuni reparti) con il generale Armando Diaz. Le unità italiane si riorganizzarono abbastanza velocemente e fermarono le truppe austro-ungariche e tedesche nella successiva prima battaglia del Piave, riuscendo a tenere a oltranza la nuova linea difensiva su cui aveva fatto ripiegare Cadorna.(fonte)

    [6] Sesta Armata (Regio Esercito). Le origini della grande unità risalgono al 28 maggio 1916 quando venne costituito il Comando truppe altipiani, che venne posto alle dipendenze tattiche della 1ª Armata e immediatamente impiegato per arginare l’offensiva austriaca in Trentino, la cosiddetta Strafexpedition o Frühjahrsoffensive (“offensiva di primavera”). Fortemente voluta e pianificata dal Capo di Stato maggiore dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico, feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, l’offensiva aveva il dichiarato intento di annientare l’Esercito Italiano scatenando una poderosa offensiva attraverso le linee della 1ª Armata, per prendere di rovescio l’intero schieramento italiano. Successivamente il Comando truppe Altipiani venne schierato tra la Val d’Astico e la Valle del Brenta.
    Il 1º dicembre 1916 il Comando truppe altipiani fu trasformato nel Comando della 6ª Armata, prendendo parte, dal 10 al 29 giugno 1917, al comando del generale Ettore Mambretti alla battaglia del monte Ortigara sull’altopiano dei Sette Comuni, attaccando in forze il settore austro-ungarico difeso dall’11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel. Il 20 settembre 1917 il Comando della 6ª Armata venne trasformato nuovamente in Comando truppe altipiani, che venne definitivamente sciolto il 1º marzo 1918, e venne ricostituito nella stessa data il Comando della 6ª Armata, al comando del Tenente generale Luca Montuori, distinguendosi particolarmente durante la battaglia del Solstizio e nel mese di ottobre in quella di Vittorio Veneto.
    Alla vittoria nella battaglia del Solstizio contribuì notevolmente il comando artiglieria del Maggior generale Roberto Segre, grazie alla tattica della “contropreparazione anticipata”, con cui l’artiglieria della parte in difesa non si limita ad attendere il tiro di preparazione avversario, ma lo eguaglia o lo anticipa, non limitandosi al fuoco di controbatteria ma prendendo di mira anche i luoghi di adunata delle truppe avversarie, fiaccandone così la spinta offensiva. Questa tattica permise di bloccare sul nascere l’offensiva austro-ungarica sugli Altipiani, tanto che le artiglierie di Segre poterono essere distolte dal proprio fronte per intervenire in difesa del settore occidentale del Grappa..
    Tra le file della 6ª Armata vi è stato, presso l’Ufficio informazioni, dal dicembre 1916 al luglio 1917, il Capitano pilota (ex del 6º Reggimento alpini e decorato anche nella Guerra italo-turca) Armando Armani futuro Capo di stato maggiore della Regia Aeronautica.
    Il 10 maggio 1917 venne costituito il Comando Aeronautica che aveva alle dipendenze il VII Gruppo, poi 7º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre. L’8 novembre successivo venne chiuso il Comando Aeronautica ed il 17 marzo 1918 venne costituito l’Ufficio di Aeronautica con il Maggiore Ermanno Beltramo che aveva sempre alle sue dipendenze il VII Gruppo. Dal 4 ottobre 1918 la 6ª Armata ricevette alle sue dipendenze il XXIV Gruppo aereo.
    Al termine del conflitto, il 1º luglio 1919 la 6ª Armata venne definitivamente sciolta.(fonte)

    [7] Quarta Armata (Regio Esercito). La 4ª Armata deriva dal Comando designato d’armata di Bologna, trasformato nell’ottobre 1914 nel Comando della 4ª Armata.
    All’entrata in guerra dell’Regno d’Italia, il 24 maggio 1915, la 4ª Armata, al comando del tenente generale Luigi Nava e quartier generale a Vittorio Veneto, aveva alle sue dipendenze il I Corpo d’armata del tenente generale Ottavio Ragni, il IX Corpo d’armata del generale Pietro Marini e il Comando zona Carnia del tenente generale Clemente Lequio. Capo di stato maggiore dell’armata era il maggior generale Oreste Bandini.
    La grande unità schierava le proprie forze dal Passo Cereda al Monte Peralba (sorgenti del Piave) su un fronte di circa 75 km e negli intenti del generale dell’esercito Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, doveva passare all’offensiva generale iniziando con l’espugnazione dei forti di Sexten, Landro e Valparola, con un’azione di spiccato carattere e vigore. Il primo obbiettivo delle operazioni doveva esser quello di impadronirsi alla destra del nodo di Toblach e alla sinistra dei colli circostanti al gruppo montuoso del Sella.
    La 4ª Armata non riuscì a realizzare le aspettative, e il generale Nava si segnalò come il più attendista dei comandanti d’armata italiani. Alla fine del giugno 1915 Nava chiese l’esonero del generale Pietro Marini, comandante del IX Corpo d’armata, colpevole di aver occupato imprudentemente la selletta del Sasso di Stria e Cadorna, che non condivideva la stima di cui Nava era pressoché unanimemente accreditato, accettò la richiesta, ma il 25 settembre dello stesso anno esonerò anche Nava, sostituendolo con il tenente generale Mario Nicolis di Robilant.
    La motivazione ufficiale fu che: nei primi quindici giorni di operazioni non ha agito con prontezza ed energia, sfruttando la sua superiorità di forze, e ha esercitato il comando con insufficiente decisione.
    La 4ª Armata prese parte alla battaglia di monte Piana, una lunga e sanguinosa serie di scontri in montagna avvenute sulla sommità del monte Piana, uno dei teatri più sanguinosi e statici di tutta la guerra, facente parte del massiccio delle Dolomiti di Sesto, dove tra il 1915 e il 1917 si consumarono alcuni dei più violenti scontri tra soldati italiani e austro-ungarici che per ben due anni lottarono sulla sommità pianeggiante di questo monte.
    A seguito della disfatta di Caporetto alla 4ª Armata fu ordinato dal generale Cadorna di ritirarsi nei pressi del monte Grappa, ma Nicolis di Robilant, che forse non si era reso conto della gravità della situazione, ordinò di ripiegare con un ritardo che causò la cattura di circa 11.500 uomini, intrappolati dalle forze di Otto von Below; a questo suo grave errore comunque Nicolis di Robilant rispose poco tempo dopo vincendo la prima battaglia del Piave.
    Nel febbraio del 1918 Nicolis di Robilant lasciò il comando della 4ª Armata, per passare al comando della 5ª Armata, al tenente generale in comando di armata Gaetano Giardino, che si preoccupò di incrementare le difese del massiccio del Grappa, che rappresentava l’ultimo ostacolo naturale fra il fronte e la pianura veneta e di migliorare anche le comunicazioni e, soprattutto, le condizioni di vita delle truppe che difendevano la posizione, sia in trincea sia nei periodi di riposo e inoltre, nel campo dell’impiego tattico delle truppe, si preoccupò di innovare i metodi di combattimento, introducendo nella dottrina tattica della sua armata sia i reparti d’assalto sia il tiro di contropreparazione dell’artiglieria. Tale preparazione delle truppe su istruzioni tattiche più moderne fu salutare nel corso della battaglia del solstizio, quando il fronte, dopo un iniziale sbandamento, fu ripristinato utilizzando il 9º reparto d’assalto, comandato dal maggiore Giovanni Messe e all’azione congiunta delle artiglierie della 4ª e della 6ª Armata. Nel corso della battaglia di Vittorio Veneto l’Armata del Grappa, che aveva alle sue dipendenze il IX Corpo d’armata del tenente generale Emilio De Bono, il VI Corpo d’armata del tenente generale in comando di corpo d’armata Stefano Lombardi, si batté nelle operazioni che si svolsero dal 24 al 29 ottobre 1918, perdendo 25 000 uomini.
    Il 18 luglio 1919 l’Armata del Grappa venne sciolta.(fonte)

    [8] Alberto Emanuele Lumbroso. Nacque a Torino il 1o ott. 1872, in una famiglia israelita, unico figlio di Giacomo e di Maria Esmeralda Todros, di nazionalità francese.
    Il nonno paterno, Abramo, protomedico del bey di Tunisi, aveva ottenuto nel 1866 da Vittorio Emanuele II il titolo di barone per meriti scientifici e per speciali benemerenze. Il padre del L., Giacomo, era nato a Bardo, in Tunisia, nel 1844. Ellenista e papirologo di fama internazionale, dal 1874 socio della Deutsche Akademie der Wissenschaften, influenzò fortemente l’educazione e la formazione intellettuale del Lumbroso. Trasferitosi a Roma intorno al 1877, divenne accademico dei Lincei (1878) e pubblicò la sua opera principale, L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani (Roma 1882), ottenendo nello stesso 1882 la cattedra di storia antica all’Università di Palermo. Con il medesimo insegnamento, nel 1884, si trasferì a Pisa, quindi, nel 1887, nuovamente a Roma dove insegnò storia moderna alla “Sapienza” (vedi le Lezioni universitarie su Cola di Rienzo, ibid. 1891). Giacomo morì a Rapallo nel 1925.
    I trasferimenti del padre lasciarono notevoli tracce nella formazione del giovane L.; tra le sue prime esperienze romane si ricordano la frequentazione delle case di T. Mamiani e di Q. Sella, dove divenne amico di S. Giacomelli, nipote di questo; in Sicilia rimase affascinato da G. Pitrè e, nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari da lui diretto, pubblicò nel 1896 il suo primo articolo.
    Nel periodo pisano il L. continuò con successo gli studi e sviluppò una notevole passione per la cultura erudita, collezionando autografi, raccogliendo motti, proverbi e notizie folkloristiche, sempre in perfetta sintonia con il padre. Tornato a Roma si diplomò al liceo classico E.Q. Visconti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si appassionò al periodo napoleonico, laureandosi, intorno al 1894, con una tesi su Napoleone I e l’Inghilterra (poi rielaborata e pubblicata in volume: Napoleone I e l’Inghilterra. Saggio sulle origini del blocco continentale e sulle sue conseguenze economiche, Roma 1897). Gli studi napoleonici occuparono interamente il L. fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. La frequentazione di ambienti intellettuali ed eruditi italiani (soprattutto romani, torinesi e, più tardi, napoletani) e francesi, l’assoluta familiarità con la lingua della madre e lo sviluppo di un talento compilativo dimostrato fin dalla prima giovinezza portarono il L. alla realizzazione di un gran numero di pubblicazioni.
    Tra il 1894 e il 1895 uscirono i cinque volumi del Saggio di una bibliografia ragionata per servire alla storia dell’epoca napoleonica (Modena), circa mille pagine dedicate alle lettere “da A a Bernays” (l’opera resterà incompiuta) e tra il 1895 e il 1898 le sei serie della Miscellanea napoleonica (Roma-Modena), altra cospicua opera erudita di oltre millecinquecento pagine che raccoglieva memoriali, lettere, canzoni, accadimenti notevoli e minuti forniti da studiosi europei e introdotti dal L.; nella Bibliografia dell’età del Risorgimento V.E. Giuntella li definì “saggi bibliografici che, sebbene arretrati, possono ancora essere utilmente consultati” (I, Firenze 1971, p. 405).
    L’interesse per il periodo napoleonico portò il L. a Napoli, in cerca di notizie e documenti su Gioacchino Murat. Suo interlocutore privilegiato in quella città fu B. Croce: il L. frequentò la casa del filosofo negli ultimi anni del secolo e i rapporti epistolari tra i due si protrassero a lungo.
    I maggiori lavori napoletani del L. furono la Correspondance de Joachim Murat, chasseur à cheval, général, maréchal d’Empire, grand-duc de Clèves et de Berg (julliet 1791 – julliet 1808 [sic]), (prefaz. di H. Houssaves, Turin 1899 e L’agonia di un Regno: Gioacchino Murat al Pizzo (1815), I, L’addio a Napoli, prefaz. di G. Mazzatinti, Roma-Bologna 1904.
    Alla fine del secolo il L. fu organizzatore e presidente operativo del Comitato internazionale per il centenario della battaglia di Marengo (14 giugno 1800-1900): chiamò alla presidenza onoraria G. Larroumet, professore della Sorbona e accademico di Francia, ottenendo la partecipazione onoraria di noti intellettuali tra cui G. Carducci, B. Croce, G. Mazzatinti, C. Segre, A. Sorel, le cui lettere di adesione furono via via pubblicate nel Bulletin mensuel du Comité international; nel 1903, accompagnato da una lettera-prefazione di Larroumet, fu edito il primo tomo, poi rimasto senza seguito, dei Mélanges Marengo (s.l. [ma Frascati] né d.).
    Ancora una volta il L. usa uno stile cronachistico, cerca e pubblica ogni genere di fonte, prediligendo quelle dirette. A tale scopo rintraccia figli e nipoti dei personaggi che descrive; caso emblematico quello dei “Napoleonidi”: e infatti, grazie ai suoi lavori e alle sue frequentazioni parigine, divenne “Bibliothécaire honoraire de S.A.I. le prince Napoléon” [Vittorio Napoleone]; pubblicò poi Napoleone II, studi e ricerche. Ritratti, fac-simili di autografi e vari scritti editi ed inediti sul duca di Reichstadt (Roma 1902), Bibliografia ragionata per servire alla storia di Napoleone II, re di Roma, duca di Reichstadt (ibid. 1905) e – più tardi – redasse le voci su Napoleone I e i Napoleonidi per il Grande Dizionario enciclopedico UTET (1937, VII, pp. 1100-1150). A coronamento dei suoi interessi per i Bonaparte, nel 1901 il L. fondò e diresse la Revue napoléonienne, bimestrale (ma, dal 1908, mensile) che uscì fino al 1913, coinvolgendo nell’iniziativa un gran numero di studiosi italiani e francesi.
    L’interesse per la cultura d’Oltralpe lo portò a pubblicare anche lavori su Voltaire (Voltairiana inedita, Roma 1901), Stendhal (Stendhaliana: da Enrico Beyle a Gioacchino Rossini, Pinerolo 1902) e soprattutto Maupassant (Souvenirs sur Guy de Maupassant: sa dernière maladie, sa mort. Avec des lettres inédites communiquées par madame Laure de Maupassant et des notes recueillies parmi les amis et les médecins de l’écrivain, Genève-Rome 1905), scritto durante un lungo soggiorno parigino.
    Nel 1898 il L. era intanto diventato consigliere della Società bibliografica italiana e probabilmente nel contesto culturale della Società conobbe Carducci, cui dedicò, postuma, una Miscellanea carducciana (con prefaz. di B. Croce, Bologna 1911), raccolta di notizie critiche, biografiche e bibliografiche sul poeta.
    Nel 1897 aveva sposato Natalia Besso, dall’unione con la quale nacquero Maria Letizia (1898) e Ortensia (1901). Nel 1901 l’intera famiglia abbracciò la religione cattolica. Nel 1904 il L. donò la sua ricca biblioteca napoleonica (circa trentamila volumi e opuscoli) alla Biblioteca nazionale di Torino, da poco distrutta in un incendio. Nel 1907 assunse, con A.J. Rusconi, la direzione della Rivista di Roma e, a partire dal 1909, ne divenne direttore unico.
    La direzione della Rivista rappresentò una svolta nei suoi interessi e nei suoi studi, che da internazionali ed eruditi divennero più “patriottici”, legati a eventi del Risorgimento e della storia italiana (in particolare il L. sì appassionò alla riabilitazione dell’ammiraglio C. Pellion di Persano e, oltre agli articoli apparsi nella Rivista, sull’argomento pubblicò La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda: la verità sulla campagna navale del 1866 desunta da nuovi documenti e testimonianze, Roma 1910, seguita da ulteriori approfondimenti, tra cui Il carteggio di un vinto, ibid. 1917). Tra coloro chiamati dal L. a collaborare alla Rivista – che dal primo momento egli volle “crispina, salandrina e antigiolittiana” e, dopo la guerra, “antibonomiana e antinittiana” (Premessa, s. 3, XXXII [1928], 1) – D. Oliva, E. Corradini, L. Ferderzoni, A. Dudan.
    Dal 1909 G. D’Annunzio collaborò alla Rivista di Roma. Il contatto diretto portò in breve tempo il L., inizialmente piuttosto critico nei confronti del poeta (si veda del L. Plagi, imitazioni e traduzioni, in Id., Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo(, Frascati 1902, pubblicazione che Croce aveva particolarmente apprezzato), a divenirne ammiratore e paladino, fino a entrare in forte polemica sia con lo stesso Croce sia con G.A. Borgese; nel 1913, nel cinquantesimo anniversario di D’Annunzio, volle dedicargli l’intero n. 6 della Rivista; nello stesso anno il L. fu attivo nel Comitato pro Dalmazia italiana e, nel 1914, diede vita a un Comitato pro Polonia del quale offrì la presidenza onoraria al poeta.
    Approssimandosi la guerra, la Rivista di Roma svolse campagne in favore dell’intervento e, nel 1915, lo stesso L. partì volontario col grado di sottotenente. Promosso tenente, dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto presso l’ambasciata italiana ad Atene e, al termine del conflitto, fu insignito del cavalierato nell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per benemerenze acquisite in guerra.
    Nel 1924, ormai di fatto separato dalla moglie, il L. si trasferì a Genova dove riprese la pubblicazione della Rivista di Roma, sospesa nel biennio 1922-23, che diresse fino al 1932. A Genova ebbe due figli, Emanuele e Maria Tornaghi, nati nel 1918 e nel 1919 da Adriana Tornaghi, con la quale aveva a lungo convissuto.
    Dopo la morte del padre, il L. ne pubblicò la bibliografia (in Raccolta di scritti in onore di Giacomo Lumbroso, Milano 1925); fin dal 1923 aveva collaborato con Critica fascista, e nel 1929 inviò suoi libri a B. Mussolini e chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista. I lavori più consistenti del L. negli anni Venti e Trenta furono dedicati principalmente alla Grande Guerra e a personaggi della casa reale.
    Bibliografia ragionata della guerra delle nazioni: numeri 1-1000 (scritti anteriori al 1  marzo 1916), Roma 1920; Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, I-II, Milano 1926-28; Carteggi imperiali e reali: 1870-1918. Come sovrani e uomini di Stato stranieri passarono da un sincero pacifismo al convincimento della guerra inevitabile, ibid. 1931; Cinque capi nella tormenta e dopo: Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Giardino, Thaon di Revel visti da vicino, ibid. 1932; Da Adua alla Bainsizza a Vittorio Veneto: documenti inediti, polemiche, spunti critici, Genova 1932; Fame usurpate: il dramma del comando unico interalleato, Milano 1934.
    Fra gli ultimi volumi pubblicati dal L. si ricordano ancora: Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, con uno studio sulla campagna del 1848 e con un’appendice di documenti inediti o sconosciuti tradotti sugli autografi francesi del re da Carlo Promis (s.l. 1935) nonché, per i “Quaderni di cultura sabauda”, I duchi di Genova dal 1822 ad oggi (Ferdinando, Tommaso, Ferdinando-Umberto), ed Elena di Montenegro regina d’Italia (entrambi Firenze 1934).
    Grazie al suo prestigio personale e all’adesione al cattolicesimo risalente al 1901, i Lumbroso furono discriminati dall’applicazione delle leggi razziali del 1938, ma il L. non pubblicò più. Il L. morì a Santa Margherita Ligure l’8 maggio 1942.(fonte)

    [9] Ferruccio Parri. Nacque a Pinerolo (Torino) il 19 gennaio 1890 da Fedele e Maria Marsili, quarto di cinque figli.
    I genitori erano di origini marchigiane, ma il lavoro del padre – insegnante di letteratura italiana nelle scuole del Regno – spinse la famiglia a spostarsi frequentemente. Dopo l’approdo a Pinerolo nel 1889, essa fu trasferita nuovamente nell’ottobre dell’anno successivo quando Fedele venne nominato direttore alla Scuola normale Giovanni Lanza di Casale Monferrato.
    Dopo aver completato gli studi liceali, Parri si iscrisse nell’autunno del 1908 alla facoltà di lettere dell’Università di Torino, scegliendo l’indirizzo storico-geografico. Da studente fu un avido lettore delle riviste fiorentine, in particolare La Voce di Giuseppe Prezzolini, che si sovrappose al mazzinianesimo familiare nell’indicargli il compito che le nuove generazioni dovevano fare proprio, ovvero battersi per una riforma etica della politica e promuovere l’educazione civile del popolo italiano. Insieme a Roberto Longhi, l’amico più caro di quegli anni, fondò un gruppo di ‘vocianismo studentesco’, animato da forti intenti polemici.
    Tornato per qualche tempo a vivere con la famiglia, nel frattempo trasferitasi a Genova, Parri completò sotto la direzione di Pietro Fedele la tesi di laurea in storia moderna, dedicata alla vita economica piemontese del Settecento. Svolto a Genova nel 1913 il servizio militare (frequentò il corso per allievi ufficiali presso il 90° reggimento di fanteria), si decise a seguire la carriera paterna, dedicandosi all’insegnamento. In seguito al superamento di un concorso a cattedre, fu incaricato nel gennaio 1914 come insegnante di lettere presso l’Istituto tecnico e nautico di Genova. L’anno successivo dovette trasferirsi a Reggio Emilia, dove svolse un ruolo di supplenza nella Scuola normale femminile, ottenendo in seguito la nomina alla cattedra di storia e geografia nella scuola Filippo Re. Qui insegnò fino a quando venne richiamato alle armi.
    A questo periodo risalgono le prime riflessioni politiche, largamente ispirate a motivi che circolavano nella cultura delle riviste di quell’epoca. In particolare, la critica del socialismo e del parlamentarismo gli derivava dall’intensa frequentazione dei motivi antigiolittiani di derivazione prezzoliniana. Il vagheggiamento di un’«aristocrazia a ruoli aperti» (Polese Remaggi, 2001, p. 38), che Parri confidò in una lettera scritta a Prezzolini pochi mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, esprimeva infatti l’insofferenza per un sistema politico che gli appariva bloccato, incapace cioè di promuovere il ricambio generazionale. Ai suoi occhi, la guerra dunque giunse come la grande occasione per intraprendere una ‘rivoluzione antigiolittiana’.
    Parri affrontò l’esperienza della guerra mondiale, armato di queste convinzioni. A Genova, aveva prestato il servizio di prima nomina come sottotenente di complemento presso il 42° reggimento di fanteria dal 15 marzo al 15 novembre 1914. Partì dunque per il fronte alla fine del maggio 1915 come sottotenente di complemento dell’89° reggimento di fanteria. Combatté sul monte Merzli, riportando due medaglie e diverse ferite, compreso un congelamento ai piedi. Diventato tenente per meriti di guerra, combatté nel 1916 sull’altopiano di Asiago e poi sul Carso, dove fu nuovamente ferito. Il suo disprezzo per il pericolo fu riconosciuto dalle autorità militari che lo premiarono più volte, conferendogli tre medaglie d’argento al valore. Nel gennaio 1917, a suggello di questo importante palmarès, ricevette l’ambita Croix de guerre della Repubblica francese. Le medaglie furono accompagnate da rapidi avanzamenti di carriera.
    Nel 1917 fu promosso al grado di capitano, ma non poté riprendere il servizio in trincea a causa delle conseguenze del congelamento ai piedi. Da allora, svolse mansioni di ufficiale di collegamento presso il comando della 28ª divisione sul Carso. Promosso nel corso dello stesso anno al grado di maggiore, partecipò al primo corso per ufficiali di stato maggiore che era stato aperto agli ufficiali di complemento. Si classificò al primo posto e nell’aprile 1918 venne assegnato all’ufficio operazioni del comando supremo. Il nuovo incarico si collocava nell’ambito delle sostituzioni ai vertici militari seguiti alla disfatta di Caporetto che Parri aveva avuto modo di seguire da vicino, percependo con largo anticipo i sintomi del malcontento che serpeggiava tra i soldati.
    Fra il corso ufficiali e servizio al comando supremo, Parri strinse alcune relazioni destinate a rivelarsi di grande importanza per la sua vita a venire. Conobbe Guido Visconti Venosta, figlio del decano della politica estera italiana, Ugo Ojetti, scrittore del Corriere della sera e impegnato nell’ufficio stampa e propaganda del comando, Giorgio Mortara, chiamato nel 1916 a dirigere i servizi statistici, Vincenzo Porri, impiegato anch’egli all’ufficio operazioni, e infine Umberto Zanotti Bianco.
    Parri svolse nell’ufficio un ruolo importante, ancorché misconosciuto, nella preparazione della controffensiva di Vittorio Veneto. Sua fu infatti l’idea – prontamente recepita dal suo superiore, Ugo Cavallero, e da questi girata al generale Armando Diaz – di concentrare il massimo sforzo per lo sfondamento delle linee nemiche nella zona in cui effettivamente avvenne. Con la fine della guerra, Parri continuò a occuparsi di questioni politico-militari relative all’armistizio e allo studio dei nuovi confini. Compì studi per il riordinamento dell’esercito, prima di lasciare il servizio militare il 17 giugno 1919.
    Si trasferì a Roma dove rimase fino alla fine del 1921, lavorando come impiegato nei servizi sociali dell’Organizzazione nazionale combattenti, istituita presso il ministero del Tesoro nel 1917. Tornò per qualche tempo a svolgere il suo precedente mestiere, quello di insegnante di scuola. Vincitore del concorso per le grandi sedi, infatti, il 1° ottobre 1920 fu destinato alla scuola tecnica Maurizio nella quale insegnò per un anno prima di trasferirsi a Milano.
    Nel periodo romano si adoperò per far circolare un progetto di riforma dell’esercito negli ambienti politici e governativi. Partecipò attivamente alla vita del combattentismo, schierandosi a favore di una riforma dell’Associazione nazionale dei combattenti (ANC), alla quale facevano riferimento gli ex soldati per le loro rivendicazioni economiche e sociali. Soprattutto, spese le proprie energie per la formazione di un partito politico ispirato agli ideali del mondo della trincea. Scrisse su alcuni giornali e riviste che si ispiravano ai valori della guerra quali La nuova giornata di Milano, Il Piemonte di Vercelli e Volontà di Roma. Nella capitale, insieme ad Achille Battaglia, Federico Comandini, Vincenzo Torraca e altri, fece parte di un gruppo di reduci che si ritrovava abitualmente in un caffè in via Cola di Rienzo. Essi condividevano il sentimento di appartenere a una giovane aristocrazia morale e intellettuale in conflitto con il mondo politico che li circondava.
    La persistenza delle suggestioni antigiolittiane caratterizzò la riflessione di Parri negli anni del primo dopoguerra. Fino quasi alla marcia su Roma, guardò al fascismo con fastidio, ma senza coglierne il significato profondo di movimento in guerra contro lo Stato liberale. L’occasione di abbandonare l’ambiente tutto sommato ristretto dei combattenti venne grazie alla conoscenza della famiglia Visconti Venosta, che lo aiutò a entrare in contatto con Luigi Albertini. All’inizio di gennaio del 1922 fu assunto al Corriere della sera. Chiese l’aspettativa dall’insegnamento fino al 1° ottobre del 1922 allorché ottenne il trasferimento alla scuola tecnica Fusi di Milano. A partire dall’anno successivo, nell’ottobre 1923, passò come ordinario di lettere nel ginnasio inferiore del liceo Parini. Appena sposatosi con Ester Verrua, già compagna di liceo e da allora in avanti inseparabile compagna di tutta la vita, Parri andò a vivere in via Moscova, non distante da via Solferino. La casa di Ferruccio e di Ester Parri divenne di lì a poco uno dei luoghi della cospirazione antifascista, dove passarono Ernesto Rossi, Carlo Rosselli e Piero Gobetti.
    La frequentazione del Corriere albertiniano coincise con una rapida maturazione di Parri in senso liberal-democratico. La prima importante iniziativa antifascista fu la fondazione de Il Caffè, un quindicinale che uscì il 1° luglio 1924, nel pieno della crisi Matteotti, per chiudere i battenti nella prima decade del maggio 1925, quando oramai la strada della fascistizzazione dello Stato era stata intrapresa. Attorno a Parri e Riccardo Bauer si strinse un gruppo di antifascisti di vario orientamento culturale. Questo gruppo era unito dalla prospettiva politica di combattere il fascismo, evitando che quella lotta finisse per promuovere la diffusione del comunismo e del massimalismo socialista. Il gruppo di Parri e di Bauer era convinto che fosse necessario conquistare il ceto medio per promuovere la democratizzazione dello Stato liberale.
    Un’altra iniziativa di Parri fu la pubblicazione, a partire dal novembre 1924, del periodico La Patria, un settimanale dei combattenti lombardi che intendeva contrastare, fino a quando fosse stato possibile, la fascistizzazione dell’ANC. Soggetto a continui sequestri per ordine del prefetto, La Patria riuscì a resistere fino al giugno 1925, allorquando la fascistizzazione dello Stato spinse un anonimo autore – probabilmente Parri stesso – a confessare ai pochi lettori che «nel grigiore dei tempi prebellici ci eravamo quasi dimenticati dello Statuto, non sentivamo più il valore di quei benefizi politici che vi erano sanciti […]. Confessiamo che li sentiamo nostri, li sentiamo necessari ora che ci sono contesi» (Polese Remaggi, 2004, p. 153). Il ciclo della rivoluzione antigiolittiana era quindi finalmente chiuso, mentre si apriva allora quello della battaglia antifascista per la democrazia.
    Nel novembre 1925 Parri si dimise dalla redazione del Corriere che oramai era stato sottratto agli Albertini e allineato dalla nuova proprietà alle direttive del governo fascista. Le dimissioni furono per Parri l’occasione di compiere il primo gesto pubblico del suo antifascismo integrale, senza compromessi. Iniziava allora quella faticosissima strada che lo fece assurgere al cospetto dei suoi coetanei e delle generazioni successive quale coscienza stessa della democrazia italiana. Dopo l’abbandono del Corriere, Parri partecipò alla costruzione di una rete clandestina, che si dette diversi compiti: realizzare espatri di personalità dell’antifascismo, pubblicare all’estero scritti che non trovavano più spazio sulla stampa italiana e provvedere, infine, all’assistenza legale e finanziaria dei perseguitati politici. Assieme a Carlo Rosselli, a Sandro Pertini e altri, realizzò, nel dicembre 1926, l’impresa di trasferire Filippo Turati in Francia, sbarcando in Corsica.
    Arrestato insieme a Rosselli sulla via del ritorno, fu protagonista, dopo un periodo di carcerazione, del processo celebrato a Savona, destinato a entrare nella memoria dell’antifascismo. Parri e Rosselli accusarono dal banco degli imputati il regime di Benito Mussolini, tacciandolo di essere l’incarnazione dell’‘antinazione’ che condannava al carcere i combattenti della Grande Guerra. I due antifascisti si rivolsero all’opinione pubblica europea, costantemente sollecitata a monitorare la situazione italiana grazie all’azione di esuli come Gaetano Salvemini. Le pene inflitte dal tribunale di Savona furono seguite da una vera e propria persecuzione di tipo amministrativo, condita dall’assenza della più elementare certezza del diritto. Parri trascorse sei anni tra carcerazione e confino che si conclusero il 20 dicembre 1932 in seguito all’amnistia concessa dal regime in occasione del decennale della marcia su Roma.
    Passò attraverso due processi (Savona e Roma), fu inviato in ben quattro luoghi di confino (Ustica, Lipari, Campagna in provincia di Salerno e Vallo della Lucania), stazionò in molte carceri del Regno (Massa, Savona, Civitavecchia, Roma e Palermo) e fu infine soggetto a una sorveglianza costante nel breve intervallo di libertà di cui godette nel corso del 1930. Pur essendosi rifiutato ripetutamente di firmare la domanda di grazia, nel 1930 Parri fu liberato condizionalmente con un atto di clemenza di Mussolini. Tornato a Milano, svolse per qualche tempo una vita quasi normale, con pochi problemi di polizia, potendo così allacciare nuovamente le vecchie amicizie e riprendere la vita familiare. Questa situazione durò poco, perché si trovò coinvolto nella retata del 29 e 30 ottobre 1930 che portò in carcere il gruppo di Giustizia e Libertà di Milano. Parri fu assolto dalla commissione istruttoria del tribunale speciale per la difesa dello Stato per insufficienza di prove, ma le sue pene non erano finite. Infatti, alla fine del marzo 1931, ancora recluso nel carcere romano di Regina Coeli, nonostante il proscioglimento dalle accuse di aver partecipato alla cospirazione giellista, subì una nuova condanna a cinque anni di confino, inflittagli da una commissione provinciale presieduta dal prefetto di Roma, ma non la dovette scontare per intero, potendo usufruire dell’amnistia del 1932.
    Il ritorno a Milano aprì una stagione nuova, caratterizzata dalla libertà personale e da una maggiore stabilità economica per la moglie e il figlio Giorgio. L’interessamento di amici di vecchia data fu cruciale. Tra questi, Giorgio Mortara – lo studioso di statistica, conosciuto ai tempi del comando supremo – era stato invitato da Giacinto Motta, presidente dell’Edison, per curare un’opera che illustrasse la vicenda dell’industria elettrica in Italia in occasione del suo cinquantenario. Mortara colse l’occasione per suggerire la collaborazione di Parri, il quale prese così a lavorare presso l’ufficio studi dell’azienda milanese. Grazie ancora all’intercessione di Mortara, Parri prese a collaborare al Giornale degli economisti e rivista di statistica, con saggi e recensioni retribuiti. Un’intera rete di contatti si stabilì a Milano, all’insegna del nesso fra moderno capitalismo industriale e antifascismo, coinvolgendo gli uffici studi di aziende e banche, tra cui quello della Banca commerciale italiana (Comit), dove si trovava Ugo La Malfa.
    Dai non molti scritti di questo periodo, emerge che Parri continuò a coltivare un liberismo di derivazione einaudiana come antidoto al nesso tra autoritarismo politico e regolamentazione economica, caratteristico degli anni Trenta. Sul versante dei suoi interessi storico-politici, pubblicò sulla Nuova rivista storica (XVII (1933), 1-2, pp. 160 s.) un importante saggio dedicato alla figura di Carlo Pisacane sotto forma di recensione al volume che Nello Rosselli aveva dedicato all’eroe di Sapri l’anno precedente (Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino 1932).
    Lo scenario aperto dalla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 convinse definitivamente Parri che il momento di impugnare le armi fosse tornato. Il progetto iniziale di coinvolgere parti dell’esercito regio nella lotta antifascista gli aveva fatto accettare con difficoltà i pronunciamenti repubblicani del Partito d’azione (PdA), al quale aveva aderito fin dalle prime battute nel 1942. Le conseguenze dell’8 settembre 1943 misero fine però alle suggestioni provenienti dalla memoria della Grande Guerra, che pure Parri non aveva mai smesso di coltivare. Dopo aver accettato l’incarico di responsabile militare del PdA all’inizio di settembre, fu naturale che in autunno i vertici del partito pensassero ancora a lui come guida delle formazioni di Giustizia e Libertà. Assunto il nome di battaglia di Maurizio, Parri accettò l’incarico non senza qualche esitazione, perché, pur rendendosi conto del ruolo crescente che le formazioni politiche stavano esercitando nella Resistenza antifascista, restava in lui ferma la convinzione che la nazione venisse prima dei partiti.
    Parri divenne quasi naturalmente il capo del comitato militare del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) milanese che si riuniva nei sotterranei della Edison. Coadiuvato da Alfredo Pizzoni, presidente del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) fino al 27 aprile 1945 e tesoriere della Resistenza, egli mostrò di avere fin da subito le idee molto chiare: separazione fra decisioni politiche e scelte militari, accentramento su di sé e sul proprio entourage (formato da Giovan Battista Boeri, Fermo Solari, Alberto Damiani, Alberto Cosattini) delle seconde, centralizzazione della direzione operativa sottratta ai capi diretti delle formazioni, costrizione dell’opera dei commissari politici entro i limiti dell’educazione politica unitaria, preferenza accordata a formazioni agili a scapito di quelle grandi (come quelle garibaldine) e monopolio dei rapporti con gli Alleati.
    Tutto ciò fu sufficiente a provocare uno scontro con i comunisti. Essi lo accusarono, infatti, di lesinare mezzi alle formazioni garibaldine, di concedere troppo spazio a elementi apolitici, di mantenere molte attività fuori dal controllo del CLN e dello stesso comitato militare. La tensione intorno alla presunta ‘dittatura incontrollata’ di Parri traeva origine anche da episodi particolari, come, ad esempio, il viaggio che egli aveva compiuto in Svizzera nel novembre del 1943. A Certenago, aveva incontrato insieme a Leo Valiani i rappresentanti dei servizi alleati, Allen Dulles per la statunitense Office of strategic service e John Mac Caffery per la britannica Special operations executive. Durante quell’incontro furono prese decisioni importanti, ma nonostante le buone premesse, l’esclusività dei rapporti tra azionisti e potenze occidentali non fu mai realizzata.
    La svolta di Salerno, quando l’arrivo di Togliatti da Mosca cambiò la posizione del Partito comunista, ebbe l’effetto di diminuire drasticamente il timore di un’insurrezione. La nomina di Luigi Longo a capo delle formazioni Garibaldi, incaricato di gestire il comitato militare del CLN assieme a Parri, contribuì a svelenire i rapporti. Parri e Longo si dedicarono congiuntamente a rafforzare le strutture della Resistenza. Pur reputando necessario un compromesso tra monarchia e antifascismo, Parri temeva a quel punto che le istanze di rinnovamento politico potessero venire affossate dal ripristino del gioco politico tradizionale, riorganizzatosi a Roma all’ombra delle armi alleate.
    L’intera vicenda del Corpo volontari della libertà (CVL) – di cui il generale Raffaele Cadorna divenne comandante nel novembre 1944, coadiuvato da due vicecomandanti, Longo e Parri – si svolse all’insegna della necessità di stabilire collegamenti con Roma e con gli Alleati senza disperdere però la spinta autonomistica proveniente dalle file del partigianato. I vertici politici e militari della Resistenza furono catapultati nell’Italia liberata per prendere contatto con le autorità militari anglo-americane e le autorità politiche di Roma. Per quanto la memorialistica e una parte della storiografia abbiano giudicato negativamente i Protocolli di Roma del 7 dicembre 1944 e il riconoscimento da parte del governo Bonomi il 26 dello stesso mese, nei fatti la firma di questi importanti documenti permise al CLNAI e al CVL di trovare finalmente una sistemazione giuridica e finanziaria che permise loro di arrivare fino ai giorni della Liberazione.
    Prima che gli aiuti giungessero a destinazione, le ultime settimane del 1944 furono segnate dal ridimensionamento delle strutture della Resistenza parallelamente a un nuovo slancio operativo da parte delle polizie fasciste e naziste nei territori urbani.
    Il 2 gennaio 1945 Parri venne catturato dalla Gestapo in un appartamento milanese dove era stato appena nascosto sotto falso nome assieme alla moglie. Insieme a lui furono presi alcuni giovani a lui fedeli, tra i quali l’olandese Walter de Hoog, nome di battaglia Tulipano. Parri fu interrogato nei locali dell’hotel Regina per poi essere trasferito nel carcere di Verona. Il suo caso entrò in una complessa trattativa fra i servizi segreti anglo-americani e le autorità naziste in cerca di un salvacondotto. Una volta liberato, trascorse le ultime settimane prima della Liberazione in Svizzera. Partecipò quindi a una seconda missione nel Sud d’Italia.
    Nell’immediato dopoguerra, Parri si ritrovò al centro della vita nazionale, allorquando i partiti antifascisti lo invitarono a presiedere il primo governo nominato dopo la Liberazione.
    Il ‘governo della Resistenza’, nominato nel giugno 1945, fu caratterizzato dal confronto fra diverse ipotesi di ricostruzione democratica che oscillavano da quella di coniugare la democrazia con una qualche idea di rivoluzione, emersa dall’esperienza resistenziale appena conclusasi, a quella invece di innestare i processi di democratizzazione sul troncone della continuità statale. Parri si sentiva distante dalle risoluzioni più radicali dell’azionismo, attestandosi piuttosto su posizioni che nel partito venivano definite moderate. Egli sentiva in effetti la responsabilità di guidare la nazione verso la ricostruzione morale e materiale, superando le lotte di partito e le diversità ideologiche. Si rifiutò di considerare il partigianato in via di smobilitazione una categoria a cui lo Stato dovesse riconoscere particolari privilegi. La politica della responsabilità promossa da Parri era del resto sollecitata dalle spinose questioni che egli dovette affrontare nel corso dell’estate: la sistemazione del confine orientale, il separatismo siciliano, gli innumerevoli casi di disordine sociale sparsi per la penisola. Il presidente del Consiglio non mancò mai di parlare in nome della nazione, che egli considerava un valore superiore a qualsiasi ideologia.
    Allo stesso tempo, tuttavia, Parri non nascose che la rivoluzione dei CLN dovesse essere in qualche misura istituzionalizzata, come mostrò la celebre polemica che ebbe con Benedetto Croce alla Consulta nel settembre 1945 intorno alla definizione del regime liberale precedente il 1922. Dai rapidi riferimenti fatti da Parri nel suo intervento, emerse che, secondo il presidente del Consiglio, le istituzioni della democrazia in Italia dovevano essere create ex novo, perché il liberalismo prefascista non ne aveva prodotte. Era giunto insomma per Parri il momento di tradurre in cifra giuridica lo spirito della Resistenza. A più riprese in quei mesi, egli si mostrò convinto che la ricostruzione democratica spettasse a un’assemblea costituente dotata di forti poteri, comprendendo con difficoltà la proposta avanzata dalle autorità alleate per una ricostituzione commune by commune del tessuto della rappresentanza politica. Gran parte delle questioni che si trovarono nell’agenda del governo – dall’estensione dell’epurazione alle scadenze elettorali, dal cambio della moneta alla gestione delle lotte mezzadrili – risentì di un conflitto politico generale sull’idea di regime rappresentativo che in definitiva contribuì a minare l’unità delle forze politiche.
    Nel novembre 1945, i liberali aprirono la crisi che avrebbe costretto Parri alle dimissioni, chiudendo anche simbolicamente le speranze di rinnovamento attribuite da molti al movimento resistenziale. Nel febbraio 1946, Parri abbandonò il PdA, oramai degenerato nella conflittualità ideologica interna. Fondò assieme a La Malfa il Movimento della democrazia repubblicana che permise a entrambi di essere eletti all’Assemblea costituente. Dopo l’estate, i due leader ex azionisti entrarono nelle fila del Partito repubblicano italiano (PRI). Nel corso del 1947, Parri profuse le sue energie per la costruzione di una terza forza laica, che raccogliesse il consenso delle forze sociali non ancora egemonizzate dai partiti di massa. Nel contesto della guerra fredda incipiente, acquisì rapidamente la consapevolezza che lo spazio per un’élite resistenziale chiamata a forgiare uno Stato-nazione democratico di tipo nuovo si era oramai esaurito. Si convinse che una fragile democrazia rappresentativa come quella italiana avrebbe potuto consolidarsi soltanto attraverso uno stretto legame con le democrazie occidentali. Vicino alle posizioni del Movimento federalista europeo (MFE), aderì all’Union européenne des fédéralistes nella convinzione che la federazione europea potesse nascere soltanto in chiave antisovietica quale frutto di una forte interazione euro-americana. Entrò a far parte dell’Unione parlamentare europea, partecipando nel settembre del 1947 al congresso di Gstaad e, nel settembre 1948, in posizione di primo piano, a quello d’Interlaken. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, divenne presidente del gruppo parlamentare per l’Unione Europea al Senato italiano. Il discorso che Parri tenne nella Camera alta a favore del Patto atlantico nel marzo del 1949 rappresentò in un certo senso il culmine del suo occidentalismo democratico.
    Queste scelte ebbero una ricaduta anche sul terreno a lui più caro, l’indipendenza politica del partigianato. Di fronte alle pressioni comuniste, reputò necessario distaccare i partigiani che avevano aderito alle formazioni Mazzini, Matteotti e Giustizia e Libertà dall’Associazione nazionale partigiani. Nonostante questo strappo, Parri restava l’uomo simbolo della Resistenza agli occhi sia dei suoi antichi compagni sia dei suoi eterni nemici. Gli attacchi provenienti da periodici della destra qualunquista e neofascista quali Il Merlo giallo e Meridiano d’Italia gli derivarono dal costante impegno che egli stava profondendo nelle aule dei tribunali contro Rodolfo Graziani, già viceré d’Etiopia e ministro della Difesa nazionale della Repubblica sociale italiana. Nel 1949, convinto che nell’Italia divisa dalla guerra fredda fosse necessario tessere il filo condiviso della memoria resistenziale, si pose al centro di un’iniziativa di grande rilievo: la formazione dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia.
    L’occidentalismo implicito nel federalismo di Parri ebbe una vita intensa, ma breve. La speranza che, rompendo la sovranità degli Stati nazionali, si potesse procedere speditamente verso la formazione di uno Stato federale europeo fu presto ridimensionato dalla configurazione che i governi nazionali impressero alle iniziative europeistiche. Dopo averlo inizialmente approvato, Parri vide nel progetto della CED (Comunità Europea di Difesa) una sostanziale rinuncia alla dimensione sovranazionale e persino un potenziale di degenerazione in senso militaristico. Nello stesso periodo, sul piano della politica interna, Parri si allontanò dalle posizioni di La Malfa. Nell’autunno 1952, la proposta politica di stabilizzare la democrazia italiana attraverso la modifica della legge elettorale in senso maggioritario fece scorgere a Parri il rischio di uno strappo in senso autoritario. Ruppe così con il gruppo dirigente del PRI, diventando, in vista delle elezioni del giugno 1953, protagonista della battaglia contro la ‘legge truffa’, combattuta dalla piccola formazione di Unità popolare, la quale, assieme ad altre, impedì che scattasse il quorum previsto dalla legge per l’assegnazione del premio di maggioranza alla coalizione vincente.
    Il sostrato antifascista del discorso politico di Parri travalicò in questa occasione gli argini del centrismo. Nel suo discorso, il problema del fascismo in Italia non era più soltanto confinato al revival neofascista e alle volgarità del qualunquismo. La stessa maggioranza centrista, timorosa di cedere terreno alle sinistre, si stava infatti avviando, secondo Parri, sulla strada dell’autoritarismo clericale. Parri abbandonò dunque nel 1953 l’anticomunismo democratico, una componente tradizionale del suo pensiero, nella convinzione che la democratizzazione del sistema politico repubblicano dovesse passare soprattutto per il rafforzamento del suo fondamento antifascista.
    Pur non eletto nel nuovo Parlamento, nel 1955 si ritrovò a figurare come candidato delle sinistre, allorquando la scadenza del mandato di Luigi Einaudi pose il problema dell’elezione di un nuovo presidente della Repubblica. Confluita Unità popolare nel Partito socialista italiano (PSI), Parri tornò in Parlamento in seguito alle elezioni del 1958. A partire da allora, fu uno dei protagonisti della piena legittimazione della Resistenza antifascista che nel corso degli anni più duri della guerra fredda era rimasta ai margini dell’insegnamento scolastico e delle commemorazioni pubbliche.
    Assieme a uomini quali Umberto Terracini, Leopoldo Piccardi e Riccardo Lombardi, Parri lavorò all’inizio del 1959 alla costituzione di un consiglio federativo della Resistenza e fu uno dei protagonisti indiscussi delle giornate del luglio 1960. Il 12 luglio fu latore in Parlamento di una nuova proposta per lo scioglimento del Movimento sociale italiano (MSI), mentre il 21 dello stesso mese parlò a Porta S. Paolo a Roma di fronte a una piazza gremita, sottolineando ancora una volta il carattere antifascista della Costituzione repubblicana. Nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Antonio Segni il 2 marzo 1963, Parri continuò la sua battaglia politico-culturale lungo il sentiero tracciato negli anni precedenti. Fondò nell’aprile dello stesso anno L’Astrolabio assieme a Ernesto Rossi. A Parri, uno dei simboli riconosciuti della democrazia antifascista e uomo dal passato di graduato dell’esercito, si rivolsero ufficiali dei carabinieri fedeli alla Repubblica per denunciare il pesante condizionamento esercitato da manovre di tipo golpista sulla formazione del secondo governo Moro nell’estate del 1964. Nel corso del 1965 e del 1966, Parri fu autore sull’Astrolabio di una serie di interventi giornalistici che fecero da battistrada alle indagini sul caso del generale Giovanni De Lorenzo pubblicate successivamente da Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi sull’Espresso.
    Gli anni successivi si svolsero all’insegna di un costante avvicinamento di Parri al Partito comunista italiano (PCI), sia pure nella posizione di indipendente di sinistra. Grazie ai legami personali con Luigi Longo, risalenti ai tempi della Resistenza, ebbe la possibilità di guidare per alcuni anni un drappello di parlamentari, eletti con i voti comunisti, ma provenienti da aree diverse della sinistra italiana, dai socialisti Tullia Carettoni e Luigi Anderlini al dissidente cattolico Adriano Ossicini fino agli ex azionisti Carlo Levi e Giorgio Agosti. Nel corso degli anni Settanta, l’attività politica e giornalistica di Parri si ridusse progressivamente, a causa della vecchiaia e delle malattie.
    Ricoverato presso l’ospedale militare del Celio di Roma, morì in seguito a un collasso cardiocircolatorio alle tre e trenta del mattino dell’8 dicembre 1981.
    I funerali si svolsero il giorno successivo alla presenza del capo dello Stato, Sandro Pertini, mentre toccò a un altro compagno della lotta antifascista, Leo Valiani, il compito di pronunciare l’orazione funebre. Il corpo fu seppellito a Genova nel cimitero di Staglieno, non lontano dalla tomba di Giuseppe Mazzini.(fonte)

    [10] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
    Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.

    L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.

    Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)