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Ugo Brusati. 1907

    Ugo Brusati. 1907

    CASA MILITARE
    DI
    S.M. il RE
    GABINETTO
    del
    Primo Aiutante di Campo Generale

    Roma 26 Marzo 1907

    Eccellenza

    Ho l’onore di rimetterle qui unito, il
    ritratto con dedica autografa, che Sua Maestà il Re,
    Si è compiaciuta di concederle, e con l’opportunità
    Le riattesto la mia osservanza.

    Dr
    Ugo Brusati[1]

    A S.E.
    il Cmm. Carlo Schanzer[2]
    Ministro delle poste e dei Telegrafi
    ROMA


    Note

    [1] Ugo Brusati. Nato a Monza il 25 giugno 1847 da Giuseppe e da Teresa Aman, in una famiglia di spiriti patriottici, il B. frequentò il collegio militare di Firenze e l’accademia militare di Torino, ottenendo nel 1866 la nomina a sottotenente. Brillante ufficiale di Stato maggiore, fu insegnante alla scuola di guerra e poi addetto militare a Vienna; promosso colonnello, comandò il 71º reggimento di fanteria. Componeva nel frattempo alcune opere, destinate soprattutto all’uso degli ufficiali di Stato Maggiore; ricordiamo il Breve studio sullordinamento dello Stato Maggiore (Roma 1879), Ordinamento dellesercito germanico,austriaco,francese e italiano (Torino 1883) e Ordinamento dellesercito svizzero (Roma 1885).

    Nel 1895., mentre era capo di Stato Maggiore dell’XI corpo d’armata, il B. fu destinato al corpo di spedizione che sotto la direzione del gen. Baratieri doveva affrontare la guerra con l’Abissinia. Sbarcato a Massaua il 2 genn. 1896, assunse il comando del 2º reggimento fanteria della brigata Arimondi; riportava però un’impressione assai negativa dell’ambiente coloniale, che gli parve dominato dall’arrivismo e da una superficiale sottovalutazione del nemico (come risulta da una sua conferenza Impressioni e ricordi dAfrica, tenuta nel 1897, in cui parlò con dura franchezza). I timori del B. furono confermati dalla battaglia di Adua (1º marzo 1896): il suo reggimento, impegnato su terreno sconosciuto e sfavorevole contro un nemico superiore, fu distrutto, ed egli stesso fu uno dei pochi ufficiali superstiti, scampando alla morte grazie alla sua energia. Per il comportamento nella battaglia ebbe la croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia.

    Tornato in Italia, il B. fu promosso maggior generale e nominato comandante della brigata Friuli. L’anno seguente (1898) ricevette l’incarico che doveva determinare il restante corso della sua carriera: fu nominato primo aiutante di campo dell’erede al trono, Vittorio Emanuele, principe di Napoli. La morte del re Umberto lo portò al centro della vita politica e militare italiana: seguì infatti Vittorio Emanuele come aiutante di campo e nel 1902 assunse la carica di primo aiutante di campo generale del re, carica che doveva tenere fino al 1917.

    L’importanza di questo incarico non può essere sottovalutata: il B. era il primo consigliere militare del giovane sovrano, in un periodo in cui questi aveva ancora una diretta ingerenza nella vita dell’esercito e della marina e specialmente nelle promozioni ai più alti gradi. Tuttavia la delicatezza di questo alto incarico, l’innato riserbo del B. e la riservatezza con cui il re trattava questi problemi fecero sì che la sua attività passasse inosservata ai contemporanei e agli studiosi. In mancanza di testimonianze (e in attesa del riordinamento dei fondi relativi recentemente acquisiti dall’Archivio Centrale dello Stato) non è quindi possibile fornire informazioni sulla vita del B. che vadano oltre la registrazione della concessione di onorificenze quali la nomina a senatore (1912) e a cavaliere di gran croce dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro (1912).

    L’intervento in guerra dell’Italia nel 1915 rese più importante, ma anche più delicata la posizione del B., perché il fratello Roberto era uno dei maggiori comandanti italiani. Il “siluramento” del fratello da parte di Cadorna (maggio 1916) e la successiva campagna di stampa segnarono appunto l’inizio della disgrazia del B.: egli infatti attribuì all’inimicizia del Cadorna l’allontanamento dall’alto incarico e dal servizio attivo nel 1917, poiché la motivazione ufficiale (il raggiungimento dei limiti di età) non era stata fatta valere per altri generali. Si chiuse nel silenzio assoluto, ma la fitta corrispondenza col fratello testimonia quanto gli costasse questo riserbo e con quanto sdegno e poi malinconia egli seguisse le successive vicende d’Italia. Fu promosso generale d’armata in posizione ausiliaria e poi collocato a riposo per età nel 1925. Morì a Roma il 4 nov. 1936; non fu commemorato in Senato per sua volontà.(fonte)

    [2] Carlo Schanzer. Nacque a Vienna il 18 dicembre 1865, primogenito di Luigi, avvocato d’impresa di origine polacca, e di Amalia Grundberg, affermata pianista.

    Alla metà degli anni Settanta la famiglia si trasferì a Milano e poi a Roma per seguire Luigi, interessato per conto di finanzieri austriaci ai progetti di bonifica dell’Agro romano e delle valli di Comacchio. Il padre era in stretto contatto con gli ambienti democratici e intimo amico di Cesare Correnti. Schanzer compì gli studi liceali a Roma e si laureò in giurisprudenza nel novembre del 1886. Nel 1887 ottenne dal Magistrato civico di Trieste la pertinenza alla città giuliana, cosa che gli permise l’anno successivo di chiedere e ottenere il riconoscimento della nazionalità italiana.

    Dopo un breve passaggio alla Direzione di statistica, nel luglio del 1887 entrò nella Biblioteca del Senato, dove giunse rapidamente al grado di bibliotecario archivista. Nel 1893 vinse per concorso il posto di referendario di 2a classe al Consiglio di Stato. Nel 1895 fu assegnato alla IV sezione.

    Si segnalò per alcune pubblicazioni scientifiche: Il diritto di guerra e dei trattati negli stati a governo rappresentativo (Roma 1891), in cui auspicava un’evoluzione costituzionale che portasse i parlamenti a votare lo stato di guerra e tutti i trattati internazionali, superando la tradizione che attribuiva quei poteri agli esecutivi, e La trasformazione delle confraternite nel diritto pubblico italiano (Roma 1899), primo bilancio della riforma crispina delle istituzioni di beneficenze.

    Fu incaricato nel 1897 dal governo Di Rudinì di stendere una proposta di modifica della legge sul Consiglio di Stato per risolvere i conflitti di competenza fra la IV sezione e la magistratura ordinaria e affrontare il problema della trattazione dei ricorsi contro provvedimenti emanati su parere favorevole di un’altra sezione del Consiglio. Da questi studi, che non ebbero esito in sede legislativa, nacque il saggio La posizione costituzionale della IV sezione del Consiglio di Stato (Roma 1901).

    Interloquendo con Vittorio Emanuele Orlando e Ludovico Mortara, Schanzer sostenne che la IV sezione non era un potere autonomo dell’ordinamento statale, come la magistratura, ma un organo coordinato con il potere regio, cui spettava la suprema competenza di revisione di legittimità degli atti amministrativi. Con regio decreto del 18 giugno 1898 fu nominato consigliere di Stato e assegnato alla IV sezione, dove fu relatore di molte sentenze che interessarono l’applicazione della legislazione sulla beneficenza pubblica. L’ascesa negli alti gradi dell’amministrazione fu rapidissima: nell’ottobre del 1900 il governo Saracco lo nominò presidente della commissione d’inchiesta sulle amministrazioni comunali di Palermo, funzione che svolse con rigore e in tempi rapidi.

    Nel febbraio del 1901 Giovanni Giolitti lo mise a capo della Direzione generale dell’amministrazione civile nel ministero degli Interni, una posizione chiave nel processo di riorganizzazione in corso in quel dicastero. Iniziò così un lungo sodalizio con Giolitti.

    Schanzer fece parte di quella leva di giovani funzionari e magistrati che Giolitti portò nell’amministrazione e in Parlamento per circondarsi di personale competente in grado di assecondare il proprio progetto riformista. Si segnalò come uno dei prediletti dello statista di Dronero, al punto che i più importanti progetti di legge passarono dal suo tavolo per un parere preliminare. Giolitti gli aprì la strada del Parlamento favorendo la sua elezione nel dicembre del 1903 nel collegio di Aversa, dove fu confermato nelle elezioni generali del 1904. Nel 1909 e nel 1913 risultò eletto dal collegio di Spoleto. Nel maggio del 1906 Giolitti lo chiamò al governo come ministro delle Poste e Telegrafi, carica che coprì fino al dicembre del 1909.

    Il giovane ministro ebbe modo di dimostrare la sua sensibilità per lo sviluppo di un’amministrazione tecnica cruciale per lo sviluppo del Paese. Molto attento alla formazione del personale patrocinò la creazione dell’Istituto superiore postale e telegrafico, sul modello di analoghe istituzioni in Francia e Germania, che inaugurò nel marzo del 1908. Di grande importanza l’adozione nel 1907 del principio dei ruoli aperti nell’amministrazione postale, misura che permise le progressioni di carriera senza necessità di avanzamento gerarchico, e aprì nel contempo le carriere anche al personale femminile. In questo modo venne incontro alle rivendicazioni di una fra le categorie più sindacalizzate, smorzandone in parte la carica conflittuale.

    Nel 1908 portò con successo all’approvazione del Parlamento la legge 5 aprile 1908 n.111 sulle convenzioni marittime, che proseguiva la politica di sovvenzioni statali alle linee di navigazione private. Le convenzioni firmate in base alla nuova legge suscitarono fortissime polemiche per un presunto cedimento alle grandi compagnie monopolistiche, tanto da indurre Giolitti alle dimissioni il 2 dicembre 1909. Rientrato a palazzo Spada, assegnato alla II sezione, Schanzer continuò a pubblicare interventi, soprattutto sulla Nuova Antologia, inerenti la riforma della pubblica amministrazione. Nel 1912 rappresentò il governo alla conferenza internazionale dell’Aja sul diritto cambiario. All’indomani della guerra di Libia pubblicò il volume L’acquisto delle colonie e il diritto pubblico italiano (Roma 1912) in cui auspicava la formazione di una scuola di diritto coloniale. Nello stesso anno fu nominato presidente della III sezione del Consiglio di Stato.

    Partecipò nel 1913 al primo congresso del Partito democratico costituzionale, ove presentò una relazione sull’estensione del suffragio universale in Italia. I rapporti con il Partito non furono facili, e dopo le elezioni lo abbandonò, accusando la direzione di cedimento verso i socialisti massimalisti.

    Nella primavera del 1914 fu in predicato di entrare nel governo Salandra come ministro dell’Agricoltura, offerta che alla fine declinò. Nel gennaio del 1916 pubblicò Il problema della burocrazia (in Nuova Antologia, s. 6, 1916, vol. 181, pp. 200-215), saggio che riprendeva la sua concezione produttivistica dell’amministrazione pubblica, ammonendo che la necessaria riforma della burocrazia doveva passare per un incremento dell’efficienza e della formazione e non ridursi alle sole economie nel bilancio, preludio al grande e inconcludente dibattito che si accese nel Paese nel primo dopoguerra. Dopo la caduta del governo Salandra, cui negò la fiducia nel giugno del 1916, fu oggetto di ripetute accuse secondo le quali avrebbe ottenuto fraudolentemente la cittadinanza, cui reagì fino a sfidare e ferire in duello Maffeo Pantaleoni che quelle accuse aveva riportato sulla stampa.

    Nel 1917 entrò a far parte della Commissione reale per il dopoguerra, dove finì a presiedere la VII sezione sulle questioni coloniali. Nella Relazione della settima sezione della Commissione del dopo-guerra: quistioni coloniali (Roma 1919), auspicò un’uniformità amministrativa nelle colonie, la divisione della Libia in due amministrazioni distinte e una netta separazione fra comandi militari e amministrazione civile. Riprendendo i progetti anteguerra sottolineò l’opportunità di creare istituti per la formazione del personale coloniale. Nel 1918 fece parte anche di una commissione governativa incaricata di studiare le riforme da apportare agli ordinamenti amministrativi di comuni e province.

    Durante la guerra si era avvicinato a Francesco Saverio Nitti, che lo chiamò a reggere, nel giugno del 1919, il ministero del Tesoro. Mantenne l’incarico, intervallato da un breve passaggio alle Finanze, fino al giugno del 1920. In un momento molto difficile per le finanze dello Stato fu inviato in missione a Londra dove cercò con scarso successo di ottenere crediti dai banchieri privati inglesi. All’interno provò a riprendere la riforma dell’amministrazione statale, dando vita a una nuova commissione per la riforma dei servizi. In campo fiscale elaborò un progetto di imposta patrimoniale che riprendeva il progetto Meda, alleggerendone le aliquote. Ma le proteste delle categorie colpite e i discordanti pareri di economisti e tributaristi lo indussero ad accantonare il progetto a favore del lancio del VI prestito nazionale. Nitti, forse per metterlo al sicuro dalle imminenti elezioni, ne propose la nomina a senatore, firmata dal re il 7 ottobre 1919.

    Nel 1920 Giolitti lo inviò a Ginevra come delegato alla Società delle Nazioni. Partecipò ai lavori della III commissione, che si occupò di riduzione degli armamenti e, nel dicembre del 1920, alla riunione del Consiglio che approvò lo statuto della Corte permanente di giustizia internazionale. Forte della sua notevole competenza linguistica (parlava il tedesco, l’inglese e il francese) il governo Bonomi lo nominò capo delegazione alla Conferenza navale di Washington nel novembre del 1921. La Conferenza si chiuse nel febbraio del 1922 con un accordo generale sulla limitazione delle grandi navi militari che segnò un’importante vittoria di immagine per l’Italia, la cui flotta fu classificata al livello di quella francese. Durante la conferenza si verificò una furiosa lite a porte chiuse fra Schanzer e Aristide Briand, nata da un malinteso e ampiamente riportata dagli organi di informazione. Rientrato in patria circondato da una certa popolarità, l’amico Luigi Facta lo chiamò a ricoprire il dicastero degli Esteri, carica che mantenne fino al 30 ottobre, quando passò le consegne a Benito Mussolini.

    Furono mesi intensi, in cui Schanzer fu impegnato nell’organizzazione della Conferenza di Genova, convocata per cercare un accordo multilaterale sui debiti di guerra e un modus vivendi fra i Paesi dell’Europa occidentale e la Russia. A margine della conferenza, che si concluse con un nulla di fatto, Schanzer riuscì ad avviare colloqui con i rappresentanti del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni per l’applicazione del trattato di Rapallo, poi perfezionati nel successivo trattato di Santa Margherita Ligure, firmato il 23 ottobre 1922. Le difficoltà politiche del momento lo spinsero a chiedere la ratifica del trattato per decreto legge, contraddicendo la prerogativa parlamentare in politica estera sostenuta per trent’anni; fu la dura presa di posizione del Partito nazionale fascista (PNF), apparentemente avverso al trattato, a indurlo a tornare sui suoi passi. Già dall’estate Schanzer era stato ripetutamente attaccato dal PNF per la sua linea politica giudicata troppo subordinata all’Inghilterra. Nel 1923 rientrò nel Consiglio di Stato, come presidente di sezione, ma continuò a rappresentare l’Italia alla Società delle Nazioni fino all’autunno del 1924.

    Si impegnò all’interno della commissione provvisoria mista sulla riduzione degli armamenti, difendendo un approccio multilaterale contro le proposte di accordi parziali o regionali per il controllo degli armamenti avanzate dalla Francia, e stando ben attento agli interessi geopolitici e industriali, compresi i produttori d’armi, dell’Italia.

    Continuò a seguire e commentare le vicende della Società delle Nazioni sulla Nuova Antologia, interventi raccolti e rielaborati nel volume Il mondo tra pace e guerra (Milano 1932) ove, accanto a una analisi realistica dei limiti della Società delle Nazioni e dell’imperfezione dell’ordinamento internazionale, esprimeva l’ineluttabilità della cooperazione internazionale come condizione per mantenere la pace.

    Schanzer assunse un atteggiamento collaborativo verso il governo Mussolini, di cui apprezzò la politica liberalizzatrice e il rigore finanziario. Mantenne una posizione defilata nelle grandi questioni politiche, astenendosi al termine della discussione del dicembre 1924 sul delitto Matteotti.

    Nel gennaio del 1926 si trovò a presiedere l’Ufficio II del Senato, che esaminò il disegno di legge sulla disciplina giuridica dei contratti collettivi di lavoro, da lui calorosamente sostenuto, anche nella successiva discussione in aula. Nel maggio del 1926 si iscrisse all’Unione nazionale dei senatori, primo gruppo parlamentare organizzato della Camera alta, utilizzato dal PNF per attirare personalità indipendenti. Sostenne l’opera di stabilizzazione monetaria di Mussolini, entrando come vicepresidente nella Cassa di ammortamento del debito pubblico, istituita nel giugno del 1927 e sostenendo la politica di ‘quota 90’.

    Sul suo atteggiamento giocò l’ambizione di giungere alla presidenza del Consiglio di Stato. L’anzianità di servizio e la posizione di presidente di sezione ne facevano il naturale candidato. Invece nel dicembre del 1928, quando la nomina era data per certa, la forte opposizione di alcuni gerarchi, con cui si era scontrato da ministro, indusse Mussolini a preferirgli un candidato esterno al Consiglio e già iscritto al PNF, Santi Romano. Dopo pochi giorni Schanzer presentò la richiesta di pensionamento. Il regime non gli fu però avaro di riconoscimenti; nel dicembre del 1928 fu nominato ministro di Stato, nell’aprile del 1929 gli venne concessa la tessera del PNF, retrodatata al 1926.

    All’inizio degli anni Trenta si fece pubblicamente sostenitore del ministro degli esteri Dino Grandi, di cui condivise l’atteggiamento collaborativo e vicino all’Inghilterra nelle istituzioni internazionali, e la cautela critica nei confronti della Conferenza internazionale sul disarmo.

    Nel marzo del 1932 fu sollecitato a intervenire in aula a favore del testo unico della legge comunale e provinciale. Si distinse ancora il 12 gennaio 1934 per un convinto discorso a favore della legge istitutiva delle corporazioni, e nel dicembre del 1935, per il dono di 141 grammi d’oro a sostegno della guerra d’Etiopia. Continuò a partecipare ai lavori del Senato, ormai confinati nelle commissioni, mentre assieme a pochi altri senatori liberali, non partecipò alla seduta in cui furono approvate le leggi razziali (1938).

    Il 7 agosto 1944 l’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, Carlo Sforza, propose la sua decadenza, decisa dall’Alta Corte di giustizia con ordinanza del 21 ottobre 1944. Contro l’ordinanza Schanzer presentò ricorso alla Corte suprema di Cassazione, la quale, con sentenza dell’8 luglio 1948, annullò la decadenza. Trascorse gli ultimi anni riordinando le proprie carte e cercando di difendere la propria immagine dalle polemiche giornalistiche che di tanto in tanto ancora sorgevano attorno alla sua figura. Morì a Roma il 23 ottobre 1953.

    Dei fratelli, Ottone fu musicologo e compositore e Roberto ingegnere e matematico, mentre la sorella Alice, sposata con Tancredi Galimberti, fu poetessa e scrittrice di buona fama. Sposato dal 20 luglio 1899 con Corinna Centurini, ebbe due figlie, Fulvia e Ludovica.(fonte)