IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Roma 6 giugno 1906
Mi pregio trasmettere all’E.V. l’unita co-
pia autentica del decreto, in data 1° corrente
mese, col quale Sua Maestà il Re[1] L’ha nominata
Sotto Segretario di Stato per la Marina.
Il Presidente del Consiglio
Giolitti
A S. E.
Il Contrammiraglio Augusto Aubry[3]
Sotto Segretario di Stato per la Marina
Note
[1] Vittorio Emanuele III di Savoia. Figlio (Napoli 1869 – Alessandria d’Egitto 1947) di Umberto I e di Margherita di Savoia. Ricevuta una rigorosa educazione militare, percorse rapidamente la successiva carriera, fino a ottenere (1897) il comando del corpo d’armata di stanza a Napoli; l’anno prima aveva sposato Elena, figlia del principe Nicola di Montenegro. Salito improvvisamente al trono (1900) in seguito all’assassinio del padre, non si oppose alla svolta liberale impressa dai governi di G. Zanardelli e G. Giolitti; in politica estera appoggiò, pur rimanendo nel solco della Triplice Alleanza, il riavvicinamento diplomatico con Inghilterra e Francia. Favorevole all’impresa di Libia (1911-12), sostenne l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, non facendo mancare il suo appoggio al governo di A. Salandra nelle giornate del maggio 1915 e seguendo personalmente, anche sul fronte, l’andamento del conflitto. Nella difficile situazione del dopoguerra, V. E. III dimostrò una sostanziale sfiducia nelle capacità di governo della classe dirigente liberale e preferì l’accettazione del fatto compiuto alla difesa attiva delle istituzioni. Tale atteggiamento fu evidente il 28 ott. 1922, quando, in occasione della marcia su Roma delle camicie nere fasciste, rifiutò di proclamare lo stato d’assedio e affidò l’incarico di formare il nuovo governo a B. Mussolini. Durante il ventennio fascista, nonostante reciproche diffidenze, V. E. III non separò mai le sorti e le responsabilità della dinastia da quelle del regime. Sul piano interno non si oppose alla graduale soppressione delle libertà garantite dallo Statuto e accettò, di fatto, che si venisse a creare una “diarchia” tra il duce e la corona che lasciava a quest’ultima un primato solo nominale. In politica estera, il sovrano non prospettò possibilità alternative all’iniziativa di Mussolini, accettando i titoli di imperatore di Etiopia (1936) e di re d’Albania (1939); anche l’intervento italiano nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania (1940) ebbe luogo nonostante le sue perplessità. Il timore che il disastroso andamento del conflitto segnasse la fine non solo del regime, ma anche della dinastia, convinse V. E. III ad agire, arrestando Mussolini (25 luglio 1943) e nominando capo del nuovo governo il maresciallo P. Badoglio. Il 9 sett., il giorno seguente l’annuncio dell’armistizio, il sovrano e Badoglio abbandonarono Roma e fuggirono prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli Alleati. Di fronte alle pressioni delle forze antifasciste, che chiedevano la sua abdicazione, dopo molte resistenze V. E. III fu costretto ad accettare una soluzione di compromesso, impegnandosi ad affidare la luogotenenza del regno al figlio Umberto quando fosse stata liberata Roma. Verificatosi tale evento (4 giugno 1944), V. E. III si risolse ad abdicare a favore del figlio solo il 9 maggio 1946, a ridosso del referendum istituzionale del 2 giugno, con il chiaro intento di favorire il successo monarchico. Ritiratosi in esilio ad Alessandria d’Egitto, l’anno seguente morì e fu sepolto nella cattedrale di S. Caterina.(fonte)
[2] Giovanni Giolitti. Uomo politico e statista italiano (Mondovì 1842 – Cavour 1928). Segretario generale della Corte dei Conti e poi Consigliere di stato, fu deputato (1882, 1924), ministro del Tesoro (1889-90) e degli Interni (1901-03), presidente del Consiglio (1892-93, a più riprese fino al 1914, 1920-21). Considerato uno tra i maggiori protagonisti della storia unitaria italiana, G. ha dominato la scena politica nel primo quindicennio del Novecento, periodo che è stato definito “età giolittiana”, dando un’impronta liberale alle linee di governo, specie rispetto ai conflitti dei lavoratori.
VITA E ATTIVITÀ
Laureato in giurisprudenza, lavorò dal 1862 nell’amministrazione statale, dal 1872 come reggente della direzione generale delle Finanze e poi come segretario generale della Corte dei conti. Consigliere di stato dal 1882 su invito di A. Depretis, l’anno stesso poté presentarsi candidato alla Camera e fu eletto deputato a Cuneo. Attivo nel gruppo dei liberali progressisti, seguì con impegno particolare la politica finanziaria, dal 1885 in espressa polemica con il ministro del Tesoro A. Magliani, e nel 1887 sostenne il gabinetto Crispi. Dimessosi Magliani, fu G. ad assumere il ministero del Tesoro (marzo 1889 – dic. 1890) divenendo il leader del partito delle economie nella sinistra liberale. Ciò lo mise in una luce particolare per cui, caduto il governo Rudinì, la scelta del re, sollecitata da U. Rattazzi, cadde su G. per l’incarico di presidente del Consiglio (maggio 1892). Sciolta la Camera e costituita una consistente maggioranza con le elezioni del 1892, a segnare la fine del I gabinetto G. (nov. 1893) intervennero la battaglia parlamentare di Crispi e lo scandalo della Banca Romana, nel quale il presidente del Consiglio venne accusato da un comitato di parlamentari, incaricato di indagare sulle vicende dell’istituto di emissione, di irregolarità commesse allorché era ministro del Tesoro (gli atti d’accusa furono archiviati nel 1895, non prima che G., onde evitare un probabile arresto, si trasferisse in Germania). Con l’inizio del secolo G. prese a occupare un posto di grandissimo rilievo nel quadro politico, tanto che sovente gli storici del secondo dopoguerra hanno parlato del periodo 1901-14 come dell'”età giolittiana”: fu infatti ministro degli Interni del gabinetto Zanardelli (1901-03), durante il quale fu in effetti l’ispiratore della politica governativa, poi presidente del Consiglio per tre lunghi ministeri fino al 1914, interrotti dai gabinetti Tittoni, Fortis e Sonnino (1905-06), e dai gabinetti Sonnino e Luzzatti (1909-11). La politica giolittiana fu orientata verso un “ordinato progresso civile”, che comportava un prudente allargamento delle basi del potere onde permettere una qual certa forma di partecipazione al movimento dei lavoratori; in questa prospettiva egli accentuò – visto anche il fallimento delle politiche puramente repressive dei predecessori – il carattere liberale della linea governativa, cercando di porre lo stato in una posizione neutrale o intermedia nei conflitti di lavoro (negli anni giolittiani ebbe un certo sviluppo anche la legislazione del lavoro). In ambito economico, G. tese a sostenere, con un cauto protezionismo, lo sviluppo dell’industria – in ascesa rispetto a una struttura economica tradizionalmente agraria – pur difendendo il bilancio statale dalle pressioni dei privati. I punti dove maggiormente si diressero le polemiche degli oppositori di sinistra furono la politica meridionale (il protezionismo sul grano sosteneva di fatto il latifondo) e la spregiudicata prassi elettoralistica (in un celebre pamphlet del 1909, G. Salvemini lo bollò come “il ministro della mala vita”), mentre da altri settori (G. Fortunato, L. Einaudi) gli veniva rimproverato l’abbandono del liberismo sul terreno della politica economica (lavori pubblici, protezionismo, legislazione del lavoro, ecc.), e da settori industriali l’acquiescenza nei confronti delle rivendicazioni sindacali. A suo favore G. ebbe la Corona, il socialismo riformista (che conseguì da quella politica un obiettivo impulso e una forte crescita), alcuni settori intellettuali (soprattutto B. Croce) e larghi strati della borghesia. Poté così costruire e mantenere un articolato sistema di potere i cui primi segni di squilibrio si manifestarono verso la fine del primo decennio, allorché si profilò una crisi generale della società e dello stato liberali, attraverso una serie di spostamenti politici significativamente centrifughi: il movimento operaio, posta in minoranza la componente riformista, iniziò a pretendere un più sostanziale coinvolgimento nel potere, i cattolici rivendicavano una presenza non più marginale nello stato, mentre alcuni settori politici e intellettuali ipotizzavano un’organizzazione sociale di tipo corporativo e si diffondeva il movimento nazionalista. G. si rivolse allora al mondo cattolico e strinse nel 1913 un accordo elettorale (patto Gentiloni) che gli avrebbe consentito maggiori spazî di manovra politica; ma anche la Camera uscita dalle elezioni del 1913 (era stata varata una riforma che introduceva un suffragio quasi universale) gli rese difficile l’azione di governo e nel marzo 1914 G. preferì dimettersi. Neutralista, restò ai margini della vita politica per il periodo bellico, ma venne chiamato nel giugno 1920 a costituire il suo quinto ministero, in una situazione in cui il durissimo conflitto politico e sociale segnava la dissoluzione dello stato liberale, rendendo pressoché inesistenti i margini della tradizionale mediazione giolittiana. Sciolta la Camera il responso delle urne gli fu nuovamente avverso e nel giugno 1921 rassegnò le dimissioni ponendo termine alla carriera di statista. Come deputato liberale, dal 1924 fu all’opposizione del governo Mussolini.(fonte)
[3] Augusto Aubry. Nato in Napoli il 29 aprile 1849, entrò allievo nella R. Scuola di marina il 27 novembre 1863; nel 1866 fu nominato guardiamarina, nel 1903 fu promosso contrammiraglio, vice-ammiraglio nel 1907.
Deputato al Parlamento per il collegio di Castellammare d Stabia, poi per il 1° di Napoli, nella XXII e XXXIII legislatura, fu sottosegretario di stato per la marina dal 17 dicembre 1903 al 2 dicembre 1905 e dal 1 giugno 1906 al 15 dicembre 1909, valoroso collaboratore del ministro Carlo Mirabello in un periodo d’intensa e tenace preparazione dell’armata.
Prese parte alla campagna del 1866, poi a quella d’Africa de 1889. Tenne, da ammiraglio, le cariche di direttore generale del personale militare al ministero nel 1903 e quella di vice-presidente del consiglio superiore di marina dal 1 febbraio 1911. Scoppiata la guerra italo-turca, fu nominato comandante in capo delle forze navali riunite, e legò il suo nome ad uno dei più gloriosi fatti d’arme di quella campagna, cima allo sbarco delle truppe a Bengasi sotto un micidiale fuoco nemico, e alla presa della città.
Ammalatosi dopo un anno di comando, nel febbraio 1912, rimase tuttavia sulla sua nave, la Vittorio Emanuele, ad onta che il male rapidamente si aggravasse, e morì a bordo, il 4 marzo avendo compiuto fino all’ultimo il suo dovere.(fonte)