Vai al contenuto

Leonida Bissolati, verbale Aubry, 1908

    Leonida Bissolati, verbale Aubry, 1908
    Leonida Bissolati, verbale Aubry, 1908 -1
    « di 3 »

    CAMERA DEI DEPUTATI

    Oggi 23 Aprile 1908, in una sala di Montecitorio,
    si sono adunati i signori On. Giampietro Emilio[1] e
    Bettolo Giovanni[2] rappresentanti l’ammiraglio Aubry[3] e
    gli On.le Bissolati Leonida[4] e il Sig. Lanzoni Antonio
    rappresentanti dell’On. Giacomo Ferri[5]. I primi due
    hanno portato sfida all’On. Ferri in seguito ad
    una lettera di lui indirizzata all’Am.° Aubry
    e da questi ritenuta offensiva. La sfida è stata
    accettata.
    Prima però di passare alla scelta
    delle armi e di occuparsi delle modalità dello scontro,
    i quattro rappresentanti delle parti, compiendo il loro
    dovere, convengono di esaminare tutta la corrispondenza
    che originò la sfida; ed avendo in tal modo
    constatato che l’On. Ferri non ebbe mai,
    come del resto aveva già dichiarato nella sua
    prima lettera, intenzioni offensive verso la

    persona dell’On. Aubry, e che, dal canto
    suo, l’On. Aubry mentre mirava a rettificare
    talune deduzioni dell’On. Ferri, non ebbe
    l’intenzione di mettere in dubbio la
    buona fede, e che perciò le vivaci
    espressioni a cui le parti trascorsero
    nel seguito della corrispondenza non
    furono che l’effetto di un equivoco
    facilmente rilevabile, e che infine, all’infuori
    della presente vertenza, non si ha tra
    l’On. Aubry e l’On. Ferri alcun motivo
    di ostilità personale,
    i quattro rappresentanti pronunziando
    come giury, dichiarano unanimi:

    non esserci ragione per uno
    scontro, e invitano le parti
    a stringersi la mano, il che
    avverrà domani alla presenza
    dei sottoscritti, dichiarando così
    chiusa la vertenza.

    Roma 23 Aprile 1908
    Emilio Giampietro
    Leonida Bissolati
    Giovanni Bettolo
    Antonio Lanzoni

    carta intestata con timbro a secco


    Note

    [1] Emilio Giampietro. Nacque a Napoli il 17 ag. 1849 da Ferdinando, piccolo imprenditore pastario, e da Mariannina Sciorilli, originaria di Tornareccio (Chieti), località della quale il fratello del G., Alfredo, fu sindaco dal 1870 al 1880. Volontario garibaldino, insieme con F. Cavallotti, al quale si legò di affettuosa amicizia, si distinse nello scontro di Mentana (3 nov. 1867) contro le truppe franco-pontificie. Abbandonato l’intransigentismo repubblicano per divenire “democratico fattivo” – come si definì nel suo Ricordi e riforme –, con il radicalizzarsi della lotta politica si dedicò all’attività giornalistica, raccogliendo l’invito rivolto da G. Garibaldi ai seguaci. Nel 1875, insieme con G. Bovio, F. Paternostro e altri, fondò a Napoli il giornale democratico La Spira, divenendone direttore, e si adoperò, l’anno successivo, nella raccolta dei fondi necessari alla fondazione della Lega della democrazia, il battagliero quotidiano ispirato da A. Mario, organo dell’omonima associazione voluta dal Garibaldi. Quando Bovio, nel 1877-78, volle dare a La Spira un indirizzo più marcatamente repubblicano, il G., non condividendo la svolta, cedette la direzione a F. Colacito.

    Convinto assertore del progetto politico dei radicali mirante a democratizzare la monarchia, fu fra i principali sostenitori dell’elezione al Parlamento del Cavallotti (1873), intravvedendo nell’azione politica dell’amico “l’anima e la forza” dell’Estrema Sinistra. Attento studioso dei fenomeni economici e particolarmente versato negli affari, il G. si era intanto affermato come intraprendente industriale e abile finanziere, tanto da ricoprire prestigiose cariche sociali in alcuni importanti istituti economici napoletani.

    L’indiscussa perizia tecnica gli valse, alla fine degli anni Settanta, un notevole successo personale nelle dispute che opposero la Camera di commercio, della quale era vicepresidente, al Banco di Napoli, sulle modalità di formazione della commissione di sconto e del consiglio generale dell’istituto di credito. Un suo rapporto del dicembre 1882 al ministro dell’Agricoltura D. Berti, ebbe tuttavia l’effetto di comporre il dissidio tra i due istituti, tanto che il G. entrò a far parte del consiglio d’amministrazione del Banco, e uguale carica ricoprì in altri istituti di credito cittadini, come la Banca popolare di Napoli e il Credito operaio.

    Di fronte al mutamento della strategia economica in atto in quegli anni, volta a promuovere la prima espansione industriale in Italia, il G. intervenne sia nel dibattito sull’abolizione del corso forzoso, assumendo rispetto alla linea adottata dal governo una posizione più cauta intesa a tutelare gli interessi del Mezzogiorno, sia nella politica di intervento statale a sostegno di alcuni settori industriali ritenuti di importanza nazionale, come quello della marina mercantile.

    In un suo scritto diretto al sen. F. Brioschi, presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sulla marina mercantile, il G., consapevole del peso che la ripresa della cantieristica avrebbe avuto sullo sviluppo generale dell’economia italiana, osservò che nel secolo dell’elettricità e del vapore non era più pensabile costruire navi a vela e che senza una forte marina mercantile non si poteva puntare alla trasformazione economica italiana. Le miniere di ferro e carbone esistenti in Italia consentivano del resto l’allestimento di una moderna e potente flotta mercantile a vapore in ferro, la cui realizzazione esigeva, per i costi più elevati di costruzione e di esercizio, l’intervento dello Stato mediante opportuni provvedimenti.

    Nel 1880, il G. si trasferì, su invito di G. Nicotera, a Salerno. La sua molteplice attività commerciale, i legami affaristici con il mondo politico-amministrativo locale e la posizione di rilievo subito assunta nell’entourage nicoterino gli spianarono la via alla politica. Nello stesso anno, infatti, si candidò alle elezioni generali nel collegio di Campagna, ma fu sconfitto per pochi voti di scarto dal liberale C. Bonavoglia. Alle successive consultazioni del 29 ott. 1882 fu eletto nel collegio di Campagna con 2482 voti, collocandosi al terzo posto dopo F. Alario e F. Spirito, famoso penalista, seguace di F. Crispi e acerrimo avversario del Nicotera. La sua elezione confermò l’egemonia politica del gruppo nicoterino nel Salernitano; tuttavia l’elezione fu annullata dopo lunghe indagini condotte da un comitato inquirente che trasmise gli atti alla Camera dei deputati, la quale a sua volta li inviò all’autorità giudiziaria, per verificare la fondatezza delle frodi elettorali. Nonostante la condanna per corruzione emessa a carico suo e di altri politici locali dalla corte di appello di Salerno, il G. fu rieletto nel maggio 1886, con 3883 voti, nello stesso collegio di Campagna. Nelle riunioni assembleari ebbe modo di manifestare le sue capacità di fine mediatore politico e il suo spessore di studioso di economia. I suoi interventi sul bilancio dello Stato, sulle attività produttive, sulla circolazione monetaria, sul sistema tributario e sulla finanza pubblica furono apprezzati anche dagli avversari politici per l’equilibrio e il rigore scientifico.

    Nel corso dei lavori preparatori alle elezioni politiche del 1890, alle quali i radicali attribuivano importanza decisiva per la realizzazione del programma del Patto di Roma e per creare i presupposti della formazione di un nuovo governo presieduto da A. Starabba di Rudinì o da G. Zanardelli, il G. si distinse per l’attivismo nel procacciare i fondi necessari alla campagna elettorale del partito, tanto da essere definito nell’ambiente parlamentare “il finanziere dell’Estrema Sinistra”. In realtà, dall’esito delle elezioni derivava non solo la verifica, a livello nazionale, del programma radicale, quanto soprattutto – come è stato osservato – con la sua riconferma alla Camera, “tutta la strategia politica del radicalismo governativo meridionale”, del quale il G. – entrato nel frattempo, con F. Cavallotti, L. Ferrari, N. Colajanni ed E. Pantano, nel consiglio direttivo del giornale La Capitale, fondato a Roma da R. Sonzogno – aveva assunto la leadership.

    Le elezioni politiche si svolsero il 23 nov. 1890 in un clima che a Salerno fu particolarmente infuocato, dopo una campagna elettorale molto accesa, nella quale si riversarono rancori personali e faide municipali e in cui la competizione divenne il banco di prova dello scontro tra il vecchio notabilato della borghesia agraria e delle professioni e quello emergente del “ministerialismo” nicoterino.

    Dalle colonne del periodico La Provincia, fondato e diretto da P. Naddeo, si scatenò contro il G. una violenta campagna diffamatoria che lo accusò di aver tessuto una fitta trama di legami politici e di affari con taluni esponenti del potere amministrativo napoletano (A. Aniello Casale), di essere implicato in un giro di cambiali protestate e di aver fatto assegnare, corrompendo funzionari dell’amministrazione provinciale di Napoli, l’appalto per la costruzione del tronco ferroviario Napoli-Cancello alla società di cui era titolare insieme con A. Crocco. Benché le accuse mossegli avessero un evidente carattere strumentale, teso ad arrestare la sua ascesa politica e ad assestare un duro colpo al blocco di potere nicoterino, pare che esse avessero fondamento e che effettivamente il G. fosse al centro di intrighi affaristici e collusioni clientelari (R. De Zerbi, P. Billi). Ma il dominante clima politico e il carattere conservatore del ceto dirigente, della borghesia e in particolare della magistratura salernitana, che si mostrò indifferente a perseguire le manifestazioni del dilagante malcostume politico perché timorosa delle conseguenze di un processo che avrebbe messo sotto accusa larga parte della deputazione parlamentare campana, fecero calare un velo di silenzio su quella vicenda: il G., infatti, fu ugualmente eletto deputato nel collegio di Campagna con oltre 4000 voti.

    Apertasi la crisi del governo Crispi (gennaio 1891), il G. svolse ancora una volta un delicato ruolo di mediazione nella formazione del ministero di Rudinì – Nicotera, riuscendo ad assicurare l’appoggio dell’Estrema Sinistra alla nuova compagine. Nel corso della XVII legislatura si distinse, inoltre, per la circostanziata relazione sullo sviluppo del traffico ferroviario e marittimo, nella quale criticò le alte tariffe ritenendole un forte ostacolo alla crescita del commercio nazionale e suggerì una profonda modifica dell’indirizzo economico-doganale. Nel discorso pronunziato alla Camera sui trattati di commercio (14 genn. 1892), il G. sottolineò, infatti, l’opportunità di trovare una via intermedia tra “la sconfinata libertà economica” e il protezionismo, scostandosi dalle posizioni degli economisti liberali (V. Pareto, M. Pantaleoni), che in quegli anni conducevano una tenace campagna contro il protezionismo e l’intervento dello Stato nell’economia.

    Erano trascorsi appena due anni dalla denuncia del Naddeo quando il G., coinvolto nello scandalo della Banca romana, vide il suo nome inserito nell’elenco (redatto dal Comitato dei sette preposto alla revisione degli atti contabili per appurare l’esistenza di irregolarità nella gestione) dei debitori morosi o favoriti da quell’istituto, presso il quale aveva cambiali in sofferenza per 10.000 lire. L’eco del suo coinvolgimento nello scandalo ebbe riflessi negativi sui risultati delle elezioni dell’8 genn. 1893, nelle quali, ottenendo appena 1047 voti, fu sconfitto nel collegio di Montecorvino Rovella da B. Spirito, fratello del suo antico rivale; tuttavia, ebbe modo di rifarsi nella successiva competizione (21 marzo 1897), quando fu di nuovo eletto deputato nel collegio di Sala Consilina.

    Nel quinquennio 1893-97 il G. si dedicò con maggiore cura alle sue numerose attività industriali. Nel 1895 cedette alla società Neuchâtel Asphalte di Londra le miniere di bitume e gli stabilimenti, siti a Lettomanoppello, a Manoppello e in altri comuni abruzzesi, di cui era proprietario insieme con D. Paparella. In quell’occasione, in un suo scritto rivolto ai componenti della giunta amministrativa di Chieti (Per la Neuchâtel Asphalte Company limited di Londra, Lanciano 1895), stigmatizzando le resistenze del Comune di Abbateggio nel rinnovo della concessione di sfruttamento delle miniere, sottolineò la necessità di una nuova legislazione mineraria, in grado di salvaguardare gli interessi dello scopritore e degli industriali che avevano investito cospicui capitali. L’attenzione ai problemi economici era anche al centro del volume L’Italia al bivio (Roma 1894), in cui il G. auspicò che il radicalismo svolgesse un ruolo propulsivo nel processo di trasformazione complessiva del paese.

    Nel quadro del processo evolutivo del radicalismo italiano, apertosi in seguito alla tragica scomparsa del Cavallotti (1898) e affidato alla guida di E. Sacchi, che riuscì a imporre al partito un mutamento di rotta che lo portò su posizioni centriste disponibili per un esperimento ministeriale, il G. appoggiò le operazioni governative della nuova segreteria. Tuttavia, la morte del Nicotera (1894) e lo sfaldarsi del suo sistema clientelare avevano già imposto una battuta d’arresto alla sua carriera politica. Di conseguenza, per circa un quindicennio, il G. non fu più rieletto, nonostante vari tentativi. Nel 1903, pubblicò a Casalbordino il volume Ricordi e riforme, nel quale ripercorreva le tappe principali della sua avventura politica, soffermandosi in particolare sulle riforme di cui il paese aveva più urgente bisogno: riservando ai malanni del Mezzogiorno un’intera sezione del libro, il G. rimarcava la mancanza di iniziativa imprenditoriale, la carenza di capitali e di un moderno sistema di credito, l’esiguità delle scuole tecniche, in ciò scorgendo, con l’aggravante della corruzione amministrativa, le cause dell’arretratezza meridionale. Tra le proposte di ordine generale avanzate dal G. spiccavano l’istituzione di un’apposita commissione parlamentare sulla questione meridionale, la riforma della scuola finalizzata all’incremento degli istituti tecnici e professionali, un più deciso decentramento amministrativo con la formazione delle regioni che, spezzando il regime di monopolio esercitato dalle clientele provinciali, avrebbe giovato non solo al progresso economico, ma anche allo svecchiamento del corpo politico.

    Nel 1913, quando già pareva che la sua carriera politica volgesse al tramonto, il G., ormai su piene posizioni ministeriali, ritornò alla Camera in seguito all’affermazione riportata nel collegio di Montecorvino Rovella a spese di B. Spirito, la cui caduta, oltre che dalla consunzione dell’antica influenza locale, fu accelerata dal processo di sostituzione del personale politico coordinato dalla prefettura salernitana. Le elezioni del 1919, con l’allargamento del diritto di voto e l’introduzione del sistema proporzionale, dovevano, però, segnare la fine politica del G., la cui lista di opposizione Unione democratica (con il gallo come simbolo) non ottenne alcun quoziente. In realtà, le elezioni del 1919 nel Salernitano, sebbene l’elettorato rimanesse sotto il controllo di potenti blocchi familiari organizzati nei nuovi schieramenti partitici, segnarono il ricambio di gruppi e di persone: un ricambio nel quale per un candidato di vecchio stampo come il G. non c’era più posto. Morì a Pescara nel 1928.(fonte)

    [2] Giovanni Bettolo. Nacque il 25 maggio 1846 a Genova, dove il padre, irredento di Valsugana, teneva una bottega di libraio ch’era il luogo di convegno degl’intellettuali e dei patrioti liguri. Entrò a far parte dell’armata nel novembre del 1863, classificato secondo su cento idonei in un concorso straordinario bandito per il grado di guardiamarina tra studenti universitarî d’ingegneria. Con tale grado prese parte alla battaglia di Lissa sulla fregata Principe Umberto e l’anno stesso fu promosso sottotenente di vascello; nel 1897 raggiunse il grado di contrammiraglio, nel 1905 quello di vice-ammiraglio.

    Tenente di vascello, pubblicò un trattato di artiglieria navale (Manuale teoricopratico di artiglieria navale, 2 voll., Firenze 1879-81), che fu molto apprezzato per il valore tecnico, e molto discusso perché sosteneva i grossi calibri quando non tutti erano d’accordo nell’ammetterne i vantaggi. Di questa sua antiveggenza ben si avvalse il ministro Brin, che lo volle per lungo tempo suo collaboratore nella rinnovazione del naviglio da lui promossa.

    Capitano di fregata, al comando di una flottiglia di navi sottili, veloci per quei tempi e principalmente armate di lanciasiluri, quando ancora non era ben definito l’impiego delle siluranti, svolse tutto un programma sull’uso in guerra di tale tipo di navi, con sicuro intuito sulla sua efficacia strategica.

    Comandante di grande nave, la Re Umberto, all’inaugurazione del canale di Kiel (1895), per il suo ponderato tecnicismo e per il suo ardimento marinaresco riuscì ad effettuare sollecitamente il disincaglio della Sardegna nel Baltico, meritandosi lode unanime per il brillante salvataggio. Altra prova di ardimento e perizia egli diede guidando senza pilota la Flavio Gioia, nave-scuola degli allievi della Regia Accademia navale, nei meandri degl’insidiosi canali della Scozia.

    Da ammiraglio, come comandante in capo di dipartimento o comandante di squadra o capo di Stato maggiore della marina, lasciò tracce profonde di sapienza tecnica, di lucide direttive, di geniale organizzazione, validamente contribuendo alla preparazione dell’armata per la guerra.

    Raggiunto il limite prescritto di età nel 1911, fu collocato nella posizione di servizio ausiliario, essendosi opposto al desiderio di molti ed autorevoli amici che avrebbero voluto proporre per lui un’eccezione con un apposito disegno di legge: e a riconoscimento degli ottimi servigi da lui prestati nell’armata al paese il re gli conferiva il titolo di conte.

    Ebbe spiccate qualità di uomo politico, che gli fecero presto conseguire un posto eminente nella camera dei deputati, dove entrò nel 1890 e rimase, per il secondo collegio di Genova prima, poi per quello di Recco, finché visse. Fu ministro della marina dal 14 maggio 1899 al 24 giugno 1900 nel gabinetto Pelloux, dal 22 aprile al 21 giugno 1903 nel gabinetto Zanardelli, e nel gabinetto Sonnino dal 12 dicembre 1909 al 1° aprile 1910. Le accuse di concussione rivoltegli da Enrico Ferri furono completamente sfatate nel processo che il B. intentò al suo accusatore che fu condannato

    Predilesse lo studio delle artiglierie e in genere delle armi navali; ideò alcuni strumenti indicatori e cioè l'”indicatore dei fuochi Bettolo” (1877) e l'”indicatore di lancio Bettolo” (1883); ma non trascurò lo studio del programma d’insieme e dei problemi inerenti alla marina mercantile, come attestano i suoi numerosi discorsi politici e gli articoli pubblicati nella Rivista Marittima e in altri periodici. Morì in Roma il 14 aprile 1916.(fonte)

    [3] Augusto Aubry. Nato in Napoli il 29 aprile 1849, entrò allievo nella R. Scuola di marina il 27 novembre 1863; nel 1866 fu nominato guardiamarina, nel 1903 fu promosso contrammiraglio, vice-ammiraglio nel 1907.

    Deputato al Parlamento per il collegio di Castellammare d Stabia, poi per il 1° di Napoli, nella XXII e XXXIII legislatura, fu sottosegretario di stato per la marina dal 17 dicembre 1903 al 2 dicembre 1905 e dal 1 giugno 1906 al 15 dicembre 1909, valoroso collaboratore del ministro Carlo Mirabello in un periodo d’intensa e tenace preparazione dell’armata.

    Prese parte alla campagna del 1866, poi a quella d’Africa de 1889. Tenne, da ammiraglio, le cariche di direttore generale del personale militare al ministero nel 1903 e quella di vice-presidente del consiglio superiore di marina dal 1 febbraio 1911. Scoppiata la guerra italo-turca, fu nominato comandante in capo delle forze navali riunite, e legò il suo nome ad uno dei più gloriosi fatti d’arme di quella campagna, cima allo sbarco delle truppe a Bengasi sotto un micidiale fuoco nemico, e alla presa della città.

    Ammalatosi dopo un anno di comando, nel febbraio 1912, rimase tuttavia sulla sua nave, la Vittorio Emanuele, ad onta che il male rapidamente si aggravasse, e morì a bordo, il 4 marzo avendo compiuto fino all’ultimo il suo dovere.(fonte)

    [4] Leonida Bissolati. Nacque a Cremona il 20 febbr. 1857 dal canonico Stefano Bissolati e da Paolina Caccialupi, moglie di Demetrio Bergamaschi. Nel 1861 S. Bissolati svestiva l’abito talare e nel 1865, morto il Bergamaschi, già da molti anni malato, sposava la Caccialupi, adottando il figlio.

    La madre era una donna di grande intelletto e di fortissima tempra; il padre aveva vissuto una tormentata crisi di coscienza, e sentito, soprattutto su un piano politico-sociale, il dramma del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno: particolarmente l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del moto risorgimentale aveva determinato il suo distacco dal sacerdozio.

    In questo ambiente familiare, in un’atmosfera improntata a rigide idealità morali, il B. ricevette la sua prima formazione. Frequentò il liceo classico a Cremona, dove ebbe compagno F. Turati, e seguì i corsi universitari della facoltà di legge, prima a Pavia poi a Bologna.

    Qui ebbe a compagni, oltre a Turati, un gruppo di giovani particolarmente sensibili ai problemi sociali, tra cui A. Loria ed E. Ferri, e tra i suoi maestri furono P. Ellero, A. Angiulli, G. Ceneri, A. Marescotti, P. Siciliani, A. Saffi; per quanto al di fuori dell’ambito specifico dei suoi studi, il B. riconobbe però in Carducci il suo vero maestro. Autore egli stesso di poesie di impronta carducciana e di un saggio dedicato all’opera di Carducci., il B. vide nel poeta soprattutto un esempio di idealità sociali e di valori morali, e ne fece la guida del suo giovanile repubblicanesimo. D’altro lato, egli coltivava anche gli studi filosofici; il positivismo, conosciuto attraverso i maestri bolognesi e maturato successivamente con la lettura di G. Ferrari e soprattutto di R. Ardigò, costituì il secondo motivo fondamentale della formazione giovanile del B., e lo spinse, come molti altri della generazione immediatamente post-risorgimentale, a porre in termini nuovi i problemi politici e sociali.

    Il B. intanto aveva iniziato l’attività giornalistica, collaborando a periodici di orientamento repubblicano: Il Preludio, fondato a Cremona dall’amico A. Ghisleri, e la milanese Rivista repubblicana. Nel 1877 discusse a Bologna la tesi di laurea, Della proprietà letteraria, nella quale difendeva il diritto dell’autore alla piena proprietà dell’opera del suo ingegno. Poi, tra la fine del 1877 e i primi del 1879, prestò servizio militare come soldato semplice. Ritornato a Cremona, esercitò saltuariamente l’avvocatura nello studio legale del cugino E. Sacchi. impegnandosi sempre più nell’attività politica. Nel giugno 1879, poco dopo che Garibaldi aveva lanciato il manifesto per la Lega della democrazia, insieme con E. Sacchi costituì il circolo C. Cattaneo, il cui programma esprimeva una profonda sfiducia nel sistema politico vigente e nei singoli partiti parlamentari e prevedeva una serie di riforme politiche e sociali a carattere democratico progressista. Nel 1880, eletto da una maggioranza radicale, il B. diventò consigliere comunale di Cremona, e nel 1882 fu nominato assessore all’istruzione: in tale carica, che gli permise di avvicinarsi più concretamente ai problemi sociali, sostenne che la scuola doveva essere essenzialmente scuola di mestieri, diretta alla formazione professionale dell’operaio. Nello stesso anno diventava direttore del cremonese Torrazzo, settimanale della democrazia radicale e organo dell’estrema sinistra lombarda.

    Sono gli anni nei quali maturavano l’avvicinamento e l’adesione al socialismo di molti giovani radicali e repubblicani. Attraverso L. Musini, medico condotto di Zibello nel Parmense, il B. ebbe i primi contatti col socialismo; valendosi della sua conoscenza del tedesco, lesse Kautsky, con cui entrò in corrispondenza e della cui opera contribuì alla diffusione in Italia. Particolarmente significativo è il nesso con cui il B. legava ora Risorgimento e socialismo: il Risorgimento era stato un fenomeno politico al quale occorreva far seguire una trasformazione sociale, compito che il socialismo si era prefisso di attuare mediante l’emancipazione economica delle classi diseredate. Sempre sul Torrazzo cominciò ad accettare la dialettica della lotta di classe.

    L’adesione al socialismo maturò con il progressivo mutamento della sfera d’azione del Bissolati. Egli riteneva possibile la collaborazione tra movimento operaio e democrazia progressista borghese nelle città; e ancora nel 1887 si presentava candidato in una lista radicale alle elezioni per il consiglio comunale di Cremona. Invece, per l’elevazione delle classi contadine, alle quali ora cominciava a dedicare prevalentemente la propria attività, riteneva necessaria una politica rigorosamente classista, dato che esse erano molto più arretrate dei ceti operai urbani. Gli scioperi del 1885 nelle campagne lombarde, che condussero all’arresto di molti contadini, furono per il B. uno stimolo a occuparsi più concretamente e attivamente dei problemi delle campagne.

    Del 1886 è infatti uno studio intitolato I contadini del circondario di Cremona,  analisi penetrante e documentata dello stato delle campagne e delle condizioni della popolazione rurale. Per eliminare la situazione di sfruttamento delle classi subalterne, il B. proponeva di abolire il sistema dell’affitto e di affidare la coltivazione della terra ad associazioni cooperative contadine, che avrebbero dovuto ottenere da società operaie di credito i finanziamenti necessari.

    Alla puntualizzazione teorica dei problemi dei ceti contadini affiancò un’azione pratica sempre più intensa, diretta all’elevazione morale e al miglioramento delle condizioni materiali delle masse agricole. Tale azione ebbe dal gennaio del 1889 un ulteriore importante strumento di diffusione nelle campagne cremonesi col settimanale L’Eco del popolo, il cui programma rivelava la sempre più netta adesione del B. al socialismo.

    Nel 1891 la rivista milanese Cuore e critica, alla quale il B. collaborava saltuariamente, si trasformò in Critica sociale. I legami politici tra il B. e il gruppo milanese si fecero più stretti: sotto l’influenza della Kuliscioff, le letture marxiste, poco documentate e comunque scarse negli anni precedenti, si fecero più ampie. Nell’agosto 1892 il B. partecipò, pur senza svolgervi una funzione di primo piano, al congresso del Partito dei lavoratori italiani, nel quale nasceva, con il distacco dell’ala anarchica, il partito socialista; nel settembre un suo intervento in polemica con le teorie di L. Luzzatti al congresso operaio di Cremona ebbe notevole importanza nel dibattito ideologico di quegli anni.

    Il B. negava che un governo capitalista potesse prendere in considerazione gli interessi dei ceti operai, se non costrettovi dalla pressione della lotta di classe. Luzzatti respingeva questa pregiudiziale socialista, e sosteneva che la comprensione dell’interesse generale poteva spingere il governo spontaneamente a concessioni, come dimostrava l’evoluzione sociale in Inghilterra.

    Nel 1895, alle elezioni politiche, il B. risultò vincitore per il collegio rurale di Pescarolo; essendosi però accese discussioni sulla validità di alcune schede, rifiutò la nomina e sottostette al ballottaggio, nel quale prevalse il ministeriale Anselmi.

    Cominciavano intanto a presentarsi al partito socialista importanti problemi che, apparentemente, investivano solo motivi di tattica elettorale, mentre, in realtà, sottintendevano scelte politiche più profonde. Al congresso dei socialisti lombardi, nell’aprile del 1896, il B. propose, in vista delle nuove elezioni, un ordine del giorno estremamente conciliante e transigente in quel che riguardava i rapporti con le altre forze democratiche: prospettava non solo l’eventualità di appoggiare in secondo scrutinio il candidato che accettasse almeno una parte del programma socialista, ma anche quella di votare, sia dal primo scrutinio, per il candidato politicamente più avanzato, in quei collegi dove la forza elettorale socialista si presentasse troppo debole. Al congresso nazionale di Firenze prevalse però un ordine del giorno Ferri molto più rigido.

    Rispetto alla linea ufficiale del partito il B. dimostrava quindi di possedere una visione più elastica del rapporto tra socialismo e democrazia radicale borghese, e di aver deposto l’intransigenza classista che aveva caratterizzato il periodo della sua attività dedicato all’organizzazione contadina: su questo problema il B., sempre al congresso di Firenze, aveva tenuto una relazione in cui aveva chiesto al partito un maggiore interessamento per i problemi dei mezzadri e dei piccoli proprietari.

    Decisa la fondazione di un quotidiano del partito, l’Avanti!, gliene fu affidata la direzione il 1º nov. 1896; si dovette quindi trasferire da Milano a Roma. Dal soggiorno romano ebbe una visione nazionale dei problemi non sempre più esatta, ma spesso più ampia di quella di altri capi socialisti, talora troppo legati alle forti organizzazioni operaie del settentrione.

    Nelle elezioni politiche del 1897 il B. venne eletto deputato per il collegio di Pescarolo, e nell’aprile esordì in Parlamento con un discorso dedicato alla rivolta di Candia, i cui accenti libertari si inserivano in una visione democratica dei rapporti tra i popoli, derivata dalla sopravvivenza di ideali risorgimentali. Nel 1898, appena avuta notizia della rivolta di Milano, il B. vi si trasferì, ma fu immediatamente arrestato; anche la sede romana dell’Avanti! fu invasa dalla polizia, ma Ferri riuscì a far uscire egualmente il giornale. La Camera negò l’autorizzazione a procedere contro il B., che così nel settembre poté riprendere la direzione del giornale; e poiché l’organizzazione del partito era stata messa in crisi dai provvedimenti repressivi e dagli arresti, il giornale divenne il centro attivo del partito, e dalle sue colonne il B. poté guidare la campagna contro l’involuzione reazionaria di fine secolo.

    Il metodo di questa lotta risentiva della formazione politica del B., da sempre profondamente legato ai valori affermati dalla borghesia italiana nella fase libertaria e risorgimentale. Le forze socialiste divenivano il nucleo di una battaglia liberale, rivolta alla restaurazione della legalità costituzionale e alla pacificazione sociale. Per il B. il proletariato, invece di trarsi in disparte nell’aspettazione mitica della fine della società capitalistica, doveva dare il suo contributo alla formazione di un’Italia moderna. Era una piattaforma su cui confluivano tutte le forze della democrazia radicale e repubblicana, e l’Avanti!, su iniziativa del B., aprì le sue colonne a uomini di cultura, esponenti dell’opposizione non socialista, come Pareto e Pantaleoni. Di fronte alla presentazione da parte di Pelloux dei provvedimenti eccezionali, anche al B. parve indispensabile il ricorso a mezzi di lotta extralegali: teorizzò, sul giornale, il ricorso “all’ostruzionismo parlamentare” e partecipò, alla Camera, all’episodio del rovesciamento delle urne. Chiusa, anticipatamente la sessione parlamentare e privato così dell’immunità, si rifugiò a Modane; riaperto il Parlamento, si costituì, ma fu rilasciato.

    Le elezioni generali del 1900 segnarono un brillante successo per il partito socialista, ma il B. ritornò in Parlamento solo vincendo un’elezione suppletiva a Budrio. Il governo “civile” di Saracco si prefiggeva intanto, come il B. aveva auspicato, la pacificazione nazionale: per il partito socialista si trattava di scegliere tra il ritorno all’antica intransigenza classista e la collaborazione con le altre forze politiche.

    Pur rendendosi conto della difficoltà di trasformare un accordo nato su una piattaforma di opposizione in un programma politico costruttivo, il B. propendeva per la via della collaborazione. Riteneva che alla causa socialista giovasse non tanto l’astratta propaganda dei principi assoluti, quanto l’appoggio a riforme che elevassero la condizione umana del proletariato.

    Di fronte a questo dilemma, il socialismo italiano cominciò a dividersi. Nel 1902, al congresso di Imola, prevalse una mozione Bonomi, vicina all’orientamento del B., la cui posizione personale all’Avanti! però si andava indebolendo per l’accusa di aver fatto del giornale un organo di tendenza. Temendo di compromettere, con la sua permanenza alla direzione, l’esistenza stessa del giornale, il B. rassegnò le dimissioni. Continuò la sua attività giornalistica sul Tempo di C. Treves e in seguito anche su l’Azione socialista. Libero ormai dalla responsabilità della direzione dell’Avanti!, poté presentarsi più risolutamente quale leader di corrente al congresso di Bologna del 1904. Con un aspro discorso criticava una serie di dogmi che avrebbero devitalizzato l’azione del partito, e di contro affermava la necessità di intaccare mediante riforme il sistema di sfruttamento del proletariato: di qui nasceva l’esigenza di non rifiutare a priori l’appoggio a un governo che si impegnasse a soddisfare le necessità più urgenti delle classi operaie. La linea del B., che pure raccolse un notevole successo personale, venne però respinta dalla maggioranza del congresso, e solo nel 1908, con la vittoria riformista al congresso di Firenze, il B. poté tornare alla direzione dell’Avanti!. Nelle elezioni dell’anno seguente non si presentò più nei collegi rurali della Valle Padana, ma nel secondo collegio di Roma. Il distacco del B. dal mondo nel quale si era formata la sua personalità politica coincise con una ulteriore modificazione di alcuni suoi orientamenti e più ancora di suoi interessi politici. In seguito alla crisi seguita all’occupazione della Bosnia-Erzegovina si fece più vivo nel B. l’interesse per la politica estera, antico e non mai completamente sopito.

    Già nel 1905, al convegno di Trieste con rappresentanti dei partiti socialisti delle varie nazionalità della monarchia austro-ungarica, aveva avuto modo di constatare come un’azione comune con i socialisti austro-tedeschi avrebbe trovato dei limiti. Aveva quindi accentuato il suo distacco dalla tradizionale concezione socialista della politica estera basata sull’internazionalismo proletario. Questo distacco risulterà ancora più evidente nel suo intervento nel dibattito parlamentare del 1909 sull’aumento delle spese militari; al principio del solidarismo tra le classi operaie il B. cominciava a sostituire cautamente la possibilità di appoggio, da parte del proletariato, a una politica estera “nazionale” che si fondasse sul consenso del paese. Sul terreno della politica interna, spingeva il suo riformismo sino a posizioni di sfiducia nella funzione stessa del partito. Al congresso di Milano del 1910, dopo aver difeso l’autonomia del gruppo parlamentare e il suo “ministerialismo”, definì il partito “un ramo secco” e lo invitò a “passare la mano” alla vera rappresentanza delle organizzazioni operaie: la Confederazione del lavoro. Sopravalutando forse la capacità di iniziativa politica autonoma del sindacato, il B. mirava alla costituzione di un partito del lavoro sul modello inglese, per inserire più direttamente il movimento operaio nella vita politica della nazione.

    Il B. annunciò le dimissioni dall’Avanti!, adducendo motivi personali, durante il congresso di Milano del 1910. Nel 1911, caduto il ministero Luzzatti, del quale aveva appoggiato l’iniziativa diretta a un allargamento del diritto di voto, e profilandosi nuovamente la candidatura di Giolitti col programma di concedere il suffragio universale, compì un gesto di rottura nei confronti della tradizione politica del partito suscitando gravi polemiche all’interno del partito stesso: accettò di essere consultato dal re e di esporgli il suo pensiero sulla crisi politica del paese.

    Gli venne offerto nel nuovo gabinetto il ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio che il B., propenso in un primo momento ad accettare, successivamente rifiutò, adducendo motivi psicologici che lo avrebbero reso inadatto a una carica ministeriale. Probabilmente, invece, il B. temeva di spaccare il partito, che giudicava non ancora maturo per una partecipazione al governo. Non aveva però ancora compreso quanto profonda, e ormai insanabile, fosse la frattura tra la destra riformista e il resto del partito. In questo periodo si impegnò a fondo in quello che per lui era il più importante problema politico del momento: la battaglia per il suffragio universale come strumento di partecipazione delle masse alle scelte dello Stato e di abbattimento del clientelismo e della corruzione elettorale. L’atteggiamento del B. riecheggiava tutta una tradizione democratica, ma era in contrasto con la posizione ufficiale del socialismo, molto più cauta.

    Durante il conflitto di Libia, l’atteggiamento del B., pur fortemente critico, fu nel complesso solidale verso il ministero. Egli giustificava questo orientamento adducendo molteplici motivi: riteneva che l’opinione pubblica fosse sostanzialmente favorevole alla guerra, non condivideva l’atteggiamento ostile assunto dal partito nei riguardi dei combattenti, e riteneva controproducente isolarsi in un atteggiamento antipatriottico; voleva soprattutto evitare di danneggiare, con un’opposizione troppo rigida alla guerra, la situazione politica generale e particolarmente la concessione del suffragio universale.

    Il distacco dal partito era divenuto ormai inevitabile; il B., che nel febbraio 1912 aveva offerto le dimissioni dal gruppo parlamentare, fu espulso dal partito nel marzo 1912.

    L’occasione fu data da un fatto politico in sé marginale: in seguito all’attentato subito dal re nel marzo 1912, il B. si era unito ai colleghi di altri gruppi per porgere al sovrano le congratulazioni della Camera per lo scampato pericolo. Al congresso di Reggio Emilia, in un’atmosfera da processo inscenata da Mussolini, la maggioranza del partito, si dichiarò favorevole all’espulsione. Nel suo intervento il B. difese la posizione assunta verso la guerra di Libia dalla destra riformista; se acutamente additava il pericolo di lasciare al nazionalismo il monopolio del sentimento nazionale, si mostrava però poco consapevole del pericolo che poteva rappresentare l’esplosione di quel sentimento.

    Il giorno successivo all’espulsione si costituì il Partito socialista riformista; il suo programma contemplava la partecipazione al potere come fatto normale e non come situazione eccezionale, il rifiuto della pregiudiziale pacifista in politica internazionale, e il concetto che le alleanze con gli altri partiti democratici dipendevano solo dalla convergenza degli obiettivi politici immediati.

    Il nuovo partito si trovò però circondato da un’atmosfera di freddezza; la Confederazione del lavoro non lo seguì come forse avrebbe fatto in precedenza, non potendo approvare l’atteggiamento assunto dal B. verso la guerra di Libia. Conseguentemente, non riuscì ad avere la fisionomia di un partito operaio, come confermarono del resto le elezioni del 1913, che pure rappresentarono un notevole successo elettorale. Le adesioni al riformismo vennero da clientele massoniche, cui era gradito il suo acceso anticlericalismo, e dalle masse contadine del Sud trascurate dal socialismo ufficiale, cui il nuovo partito dedicava sin dal primo congresso un’attenzione particolare anche se velleitaria, e che erano state meno ostili alla guerra di Libia nella speranza di ottenere terre da coltivare.

    Allo scoppio della guerra europea, risolta subito la Kriegsschuldfrage attribuendo agli Imperi centrali la responsabilità del conflitto, si batté per la neutralità finché sembrava ancora possibile l’intervento a fianco della Triplice. Il B. era assolutamente sfiduciato quanto alla volontà delle forze democratiche in Austria e in Germania, soprattutto per quanto riguardava il socialismo austro-tedesco, cui guardava con riserva sin dall’incontro triestino del 1905. Successivamente, fu tra i primi a reclamare l’intervento a fianco dell’Intesa.

    Per il B. il conflitto europeo era un contrasto etico-politico tra stati autoritari e stati democratici, e in questo quadro il compito dell’Italia non era tanto quello di soddisfare il proprio interesse nazionale, quanto quello di contribuire alla causa della libertà e all’avvento di una più civile convivenza tra i popoli: il suo interventismo era insomma alimentato da motivi ideali di chiara derivazione risorgimentale. Nel periodo della neutralità il B. fu uno dei più autorevoli leaders dell’interventismo; come era nelle caratteristiche sue personali e di tutto il socialismo riformista, egli si mosse soprattutto su un piano parlamentare e di contatti con il governo. Quando il ministero Salandra sembrò ormai deciso all’intervento, il B. si inserì sostanzialmente nella maggioranza, pur rimproverando al governo la politica delle trattative segrete e dei mercanteggiamenti, che facevano parte di una concezione tradizionale della politica estera che egli non condivideva.

    Allo scoppio della guerra il B. si arruolò volontario nel 4º reggimento alpini, col grado di sergente. Partecipò ai combattimenti per la conquista del Monte Nero; nel luglio venne ferito due volte e fu decorato di medaglia d’argento. Nel primo anno di guerra alternò la permanenza al fronte con soggiorni a Roma per i lavori parlamentari. Al fronte si incominciò a utilizzarlo quale tramite tra esercito e mondo politico.

    Nel giugno 1916 entrò come ministro senza portafogli nel gabinetto Boselli; in tale veste richiese una più energica condotta militare della guerra e un più stretto collegamento politico con le altre nazioni dell’Intesa; soprattutto sosteneva la necessità di dichiarare guerra anche alla Germania, la cui struttura autoritaria e le cui mire imperialistiche gli sembravano il più grave ostacolo alla democratizzazione europea.

    Come ministro, il suo compito era essenzialmente quello di collegare il governo al fronte, il potere politico al comando supremo. I rapporti con Cadorna, difficili all’inizio, divennero in seguito quanto mai cordiali.

    Il 29 ott. 1916, nel più importante dei suoi discorsi del periodo di guerra, il B. commemorò a Cremona Cesare Battisti. Rievocando il sacrificio dell’amico socialista, egli polemizzò contro il socialismo italiano, che aveva rifiutato quella che per lui era guerra di liberazione europea, e contro l’atteggiamento dei partiti socialisti degli Imperi centrali, sul conto dei quali egli dimostrava però di non possedere dati sempre circostanziati e precisi. Il fulcro del discorso era la richiesta esplicita, prima manifestazione in tal senso da parte di un uomo di governo dell’Intesa, dell’inclusione tra i fini politici della guerra della dissoluzione dell’Austria-Ungheria, al cui posto dovevano sorgere Stati nazionali indipendenti. La sistemazione democratica dell’Europa danubiana e balcanica, che già durante le guerre balcaniche era stata uno dei motivi della tematica politica del B., trovava qui la sua prima chiara teorizzazione.

    Il convincimento del B., che la politica estera italiana si dovesse ispirare a maggiore democraticità, determinò una grave crisi del ministero nel giugno 1917, quando Sonnino proclamò con decisione unilaterale il protettorato italiano sull’Albania. Il B. disapprovò il gesto come contrario al principio di nazionalità, e presentò le dimissioni: Boselli riuscì a comporre il dissidio, ma il B. non ricevette alcuna garanzia di ordine politico.

    Confermando un atteggiamento che fu un po’ una costante del suo comportamento negli anni della guerra, il B. parve disposto a sacrificare il proprio giudizio politico sull’altare della concordia nazionale. Su un piano di politica interna intanto, risentendo di una tendenza diffusa nel paese e soprattutto al comando supremo, le cui tesi, sotto l’influsso della forte personalità di Cadorna, ora venivano fatte spesso proprie dal B., egli si spostò su posizioni di estrema durezza nei confronti delle correnti pacifiste che premevano per una pace di compromesso. Egli si trovava nell’impossibilità politico-morale di accettare una tale soluzione, dopo aver contribuito ad imporre al paese una guerra così sanguinosa: ma la difficoltà della sua posizione personale lo inasprì a tal punto da renderlo fautore di misure punitive contro i socialisti.

    La crisi politica dell’autunno 1917, concomitante con la sconfitta di Caporetto, portò Orlando alla presidenza del Consiglio e il B. assunse nel nuovo gabinetto il portafoglio dell’Assistenza militare e delle Pensioni di guerra. La sua posizione all’interno del ministero risultò però indebolita: l’enormità della sconfitta militare fece sì infatti che la sostituzione di Sonnino, già decisa, non venisse più effettuata, su proposta dello stesso B., nel timore di rafforzare le correnti neutraliste, e la permanenza di quello risultò fatale alla linea di politica estera perseguita dal Bissolati.

    Il dramma di Caporetto, che il B. visse al fronte, rappresentò per lui un momento di crisi e di prostrazione. Le prime reazioni furono di disperazione: espresse propositi di suicidio, sentì drammaticamente la responsabilità di aver contribuito all’intervento. Anche la valutazione della situazione gli sfuggì completamente: si avvicinò agli apprezzamenti di Cadorna sui soldati italiani, parlò di sciopero militare e di deficiente resistenza delle truppe, ma senza portare alcun elemento preciso, come gli rimproverò Orlando, in quei giorni molto più lucido di lui. Superata la crisi morale, psicologica e politica determinata dalla disfatta e allentati i legami con il comando supremo, l’attività del B. si orientò in altre direzioni. In politica interna tentò di accrescere il peso dell’interventismo democratico stimolandone una maggior coesione; nel maggio 1918 varie forze della democrazia e del socialismo interventista confluirono nell’Unione socialista italiana, ma il nuovo movimento si rivelò una formazione priva di un preciso programma politico, resa eterogenea dall’adesione di gruppi ideologicamente diversi. Più intensa fu l’azione del B. in politica internazionale: il punto fermo della sua azione era sempre l’abbattimento della monarchia austro-ungarica; ma il suo impegno si estese ora anche a problemi più particolari. Fu tra i fautori dell’impiego nella guerra contro l’Austria dei prigionieri cechi e slavi meridionali; cominciò a porsi in maniera concreta il problema dei nuovi confini orientali dell’Italia, e incoraggiò a tal fine un accordo con gli Slavi meridionali. Il congresso di Roma dei popoli soggetti all’Austria-Ungheria della primavera rappresentò indubbiamente una tappa fondamentale nel processo di dissoluzione della monarchia danubiana. Il successo conseguito dal B. a Roma non va però sopravalutato: la dichiarazione interalleata di Versailles del giugno 1918, che distingueva tra le aspirazioni dei Polacchi e quelle dei Cechi e degli Iugoslavi; il contrasto tra il B. e il Sonnino per quanto riguardava l’impiego dei prigionieri slavi nella guerra contro l’Austria; l’ipersensibilità alla questione nazionale anche nei più democratici tra gli Slavi, dimostravano come fosse ancora lontana la realizzazione di molti obiettivi politici del Bissolati.

    Subito dopo l’armistizio, la posizione del B. in seno al ministero s’indebolì ulteriormente. Coerente ai suoi principi, che trovava rispecchiati nel pensiero del presidente Wilson, protestò contro l’occupazione della Dalmazia e del Tirolo meridionale. Dopo un violento scontro con Sonnino sulla questione dei rapporti con gli Iugoslavi, che era il punto di sbocco di un antico dissidio acuitosi nei mesi successivi all’armistizio, il 28 dicembre rassegnò le dimissioni dal governo.

    Le dimissioni del B., improvvise e avvenute senza consultare neppure gli amici della Unione socialista italiana, possono essere giudicate un errore politico, che ridusse vieppiù il già scarso peso dell’interventismo democratico in seno al governo e creò confusione nel paese, tanto più che a succedergli nel gabinetto fu Bonomi, del suo stesso partito. Ma il B., che in altre occasioni aveva accettato di sacrificare le proprie posizioni politiche per mantenere la concordia nazionale, sentì ora il dovere essenzialmente morale di lasciare il governo per battersi in piena libertà in difesa delle proprie convinzioni.

    L’esperienza governativa del B. sembrò terminare in un pieno fallimento; ma la sua linea politica non si può considerare sempre sconfitta. Nel 1916-17 contribuì a evitare il rafforzarsi in seno al governo della concezione più limitativa sugli scopi della guerra; la dichiarazione di guerra alla Germania seguì di pochissimo la sua entrata nel ministero; la politica di smembramento dell’Austria-Ungheria trovò adesioni nella classe politica e nel governo nonostante la politica di conservazione della monarchia voluta da Sonnino. Anche in Italia la politica delle nazionalità e l’appello alle tendenze centrifughe nella monarchia austro-ungarica ebbero notevole presa, se furono fatte proprio dall’autorevolissimo gruppo del Corriere della Sera, Albertini, Ruffini, Amendola, Borgese. Solo sul problema dei nuovi confini italiani e dei rapporti con gli Iugoslavi la sconfitta del B. fu grave. E anche se in fondo Giolitti e Sforza avrebbero poi dato al problema adriatico una soluzione molto simile a quella che il B. aveva propugnato, le relazioni ormai tese tra Italia e Iugoslavia, l’ulteriore risentimento nazionale iugoslavo e l’esasperata situazione interna italiana, impedirono che quest’accordo avesse il risultato che il B. aveva auspicato. La sua sconfitta su questo punto fu determinata soprattutto dalla permanenza di Sonnino al ministero degli Esteri per tutti gli anni della guerra. Il B., timoroso di favorire le correnti neutraliste e forse costituzionalmente inadatto a manovre di tal genere, non appoggiò mai con la necessaria energia i tentativi che uomini a lui vicini fecero per provocare la caduta di Sonnino, contribuendo così alla sconfitta della propria politica. Lasciato il governo, il B. decise di rivolgersi direttamente all’opinione pubblica italiana. L’11 genn. 1919 alla Scala di Milano espose i principi che animavano la sua azione in politica internazionale. Una gazzarra, inscenata da futuristi. nazionalisti e da Mussolini con i suoi seguaci, gli impedì di portare a termine il discorso, il cui testo fu conosciuto interamente solo attraverso i giornali.

    In esso il B. sosteneva che la vittoria dell’Intesa aveva gettato le fondamenta per un ordine nuovo, basato sulla Società delle Nazioni. In questo spirito di giustizia occorreva risolvere le questioni territoriali riguardanti l’Italia: il B. non solo proponeva un confine etnicamente giusto con la Iugoslavia, lasciando ad essa la Dalmazia, tranne Zara, e rivendicando invece all’Italia, in base al principio di nazionalità, Fiume; ma proponeva di rinunziare anche al Dodecaneso e al Tirolo meridionale. Il pensiero del B. non poteva essere accettato da quella larga parte dell’opinione pubblica sulla quale il nazionalismo esercitava la sua azione. Ma anche la maggior parte dell’opinione pubblica democratica rifiutava di portare alle conseguenze estreme il principio democratico della nazionalità come il B. faceva: questo non solo per considerazioni di prestigio e di politica di potenza, che non erano completamente estranee neppure a certe correnti dell’interventismo democratico, ma anche perché L. Albertini e gli uomini a lui vicini, politici forse più realisti del B., si rendevano conto di come fosse difficile arginare quelle forze, che l’interventismo e la guerra avevano contribuito a scatenare, se non concedendo loro un soddisfacimento almeno parziale dei loro obiettivi politici. Il B. stesso, rendendosi conto del suo isolamento, avvertiva che la battaglia era perduta in partenza se, concludendo il suo discorso alla Scala, dichiarava di considerare chiusa con esso la propria carriera politica.

    Dopo gli incidenti della Scala il B. subì un periodo di profonda depressione. La sua partecipazione alla vita pubblica era ormai soltanto episodica: intervenne al congresso dell’Unione socialista; pronunciò un discorso elettorale a Cremona; sul Secolo polemizzò col nazionalismo iugoslavo. Nel novembre 1919 il suo vecchio collegio di Pescarolo lo rielesse deputato. Il 10 marzo 1920, ormai gravemente ammalato, decise di sottoporsi a un intervento chirurgico: subentrò un’infezione, e il 6 maggio 1920 morì a Roma.(fonte)

    [5] Giacomo Ferri (San Felice sul Panaro, 7 gennaio 1860 – San Felice sul Panaro, 14 novembre 1930) è stato un politico italiano.
    Rappresentò il movimento socialista nella bassa pianura bolognese e modenese. A lui si devono le prime formazioni di cooperative e delle case operaie.
    Si interessò dello sviluppo agricolo, della condizione dei braccianti, degli operai. Avvocato, fu inoltre sindaco di San Felice sul Panaro, operando sempre per lo sviluppo e il progresso del mondo operaio.
    Massone, fu iniziato l’undici marzo 1910 nella loggia di Bologna “VIII agosto”, appartenente al Grande Oriente d’Italia e diventò Maestro il nove marzo 1911.(fonte)