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Achille Starace, 22 NOV 1940

    Achille Starace, 1940
    Achille Starace, 1940

    22 NOV 1940
    Roma 19
    Anno

    PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
    MILIZIA VOLONTARIA SICUREZZA NAZIONALE[1]
    COMANDO GENERALE

    Ufficio: Rep. Storico e Stampa
    Sez. II°
    N. di Prot. 04859/II/2 Allegati una scheda
    Oggetto: Calendario M.V.S.N.
    Anno XIX°

    Com’è noto il Calendario della Milizia, di cui
    all’unita scheda di prenotazione, contribuisce con i
    suoi proventi alla vita dei due Istituti di Santa
    Margherita Ligure e Cividale del Friuli, che accol=
    gono gli orfani dei Legionari Caduti perl’Impero
    e per l’Idea Fascista.
    Il contributo di sangue della Guardia Armata
    della Rivoluzione[2] alla Vittoria ha esteso il nume=
    ro dei ricoverati aumentando gli oneri finanziari.
    Dare impulso all’acquisto del Calendario A.
    XIX° è più che mai tangibile testimonianza di gra=
    titudine nazionale alla memoria degli Eroi.

    IL CAPO DI STATO MAGGIORE
    A. Starace[3]

    Al Camerata
    Ing. ARNALDO FUZZI[4]
    Presid. dell’Ente di
    Colonizzazione di
    Romagna d’Etiopia
    ROMA Timbro ENTE DI COLONIZZAZIONE
    “ROMAGNA D’ETIOPIA”[5]
    N 1273/3
    R 26-11-1940


    Note

    [1] La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (in acronimo, MVSN e talora genericamente identificata con la locuzione camicie nere a causa delle camicie di colore nero adottate quale parte della divisa, come spesso indicato anche nella storiografia non italiana), è stata un corpo di gendarmeria ad ordinamento militare e, dal 1924, una autonoma forza armata del Regno d’Italia, sciolto dopo la firma dell’armistizio di Cassibile nel 1943.(fonte)

    [2] La marcia su Gondar fu un’azione condotta da truppe regolari e volontari al seguito del segretario del PNF Achille Starace mirata all’occupazione della regione degli Amara e del lago Tana.
    Dopo le vittoriose battaglie dell’Endertà, del Tembién e dello Scirè, gli eserciti etiopi del nord erano stati annientati lasciando le regioni settentrionali dell’impero praticamente indifese. Mentre Hailé Selassié con l’ultima armata rimasta integra si preparava a sbarrare il passo alle truppe italiane lungo la via per la capitale presso Quoram, le truppe italiane procedevano ad occupare i passi di Alagi e le località di Corbettà e Socotà, capoluogo dell’Uag.
    Nel vuoto lasciato dalle truppe di Ras Immirù in ritirata dallo Scirè e contando sulla posizione ambigue del suo luogotenente Ajeleu Burrù che da tempo era in contatto con gli italiani, si lanciò una colonna celere capitanata dal segretario del PNF Achille Starace che aveva come obiettivo la conquista della capitale del territorio degli Amara, Gondar e il controllo del territorio del lago Tana.

    La marcia. La colonna, forte di 3348 uomini e di 500 automezzi caricati con munizioni e salmerie, costituita dal 3º Reggimento bersaglieri e dall’82º Battaglione CCNN Benito Mussolini di Forlì, partì da Asmara il 15 marzo arrivando rapidamente sul Setit, vecchio confine della colonia Eritrea, presso la località di Omhajer. Mentre la truppe italiane occupavano le zone circostanti per coprire le spalle agli attaccanti, la colonna celere, varcato il confine, puntò decisamente verso Gondar seguendo una pista parzialmente coperta dalla vegetazione e tormentata dalle frane che un ufficiale italiano di nome Malugani aveva tracciato nel 1909.
    Il 21 marzo Badoglio aggiornò via radio Starace sui rapporti che intratteneva il degiac Ajeleu Burrù, comandante delle forze che avrebbero dovuto contrastare la colonna, e il comando superiore, suggerendogli di prendere contatti e ottenerne la collaborazione, ma il degiac pur non ostacolando la colonna che avanzava si rifiutò, almeno momentaneamente, di collaborare con gli italiani.
    Secondo le memorie di Giovanni Artieri e Paolo Caccia Dominioni che parteciparono alla marcia, il nemico fu spesso avvistato ma non attaccò mai, neppure nei difficili passaggi del fiume Angareb, dell’amba Samboccò. Le truppe etiopi comunque si astennero dall’ingaggiare battaglia non tanto per un ordine esplicito di Ajeleu Burrù ma in quanto incalzate dagli ascari della terza brigata agli ordini del generale Cubeddu, che Badoglio aveva inviato con l’ordine di fiancheggiare prima e infine precederla la colonna celere A.O, allo scopo di proteggere l’incolumità del segretario del PNF. La veloce avanzata degli ascari non dava infatti il tempo alle truppe abissine di fermarsi per organizzare una linea di difesa, costringendole costantemente ad arretrare.
    Il 30 marzo, dopo aver guadato il torrente Sengià, la pista divenne impraticabile a causa delle frane e perciò Starace decise di abbandonare gli automezzi e di proseguire a piedi per il tratto finale della marcia. Nel frattempo gli ascari di Cubeddu erano arrivati alle porte di Gondar ma aspettarono per motivi politici che fosse la colonna celere ad entrare per prima in città il giorno successivo ponendo termine alla marcia dopo due settimane e 330 km percorsi in territorio nemico.
    Starace sostò poco a Gondar, spronato infatti da Mussolini che per motivi di opportunità voleva occupare le rive del lago Tana, unico interesse inglese in Etiopia, e desideroso di verificare la fattibilità di stabilirvi una base di idrovolanti, il giorno 11 aprile si mise nuovamente in marcia e, senza incontrare ostacoli, raggiunse il lago il giorno successivo, occupandone le isole e la riva.(fonte)

    [3] Achille Starace. Nacque a Sannicola (allora frazione di Gallipoli), in provincia di Lecce, il 18 agosto 1889, da Luigi, affermato commerciante di oli e di vini, e dalla nobildonna Francesca Vetromile dei baroni di Palmireto, una facoltosa famiglia del Salento. Achille aveva due fratelli più grandi, e quattro sorelle di lui più giovani.

    Trasferitosi a Venezia nel 1905, s’iscrisse a una scuola tecnica, conseguendo il diploma di ragioniere. Nel 1909 si sposò con la triestina Ines Massari, da cui avrebbe avuto due figli, Francesca, detta Fanny, e Luigi (un terzo figlio, Vincenzo, morì alla nascita). Nello stesso 1909 fu richiamato alle armi come ufficiale nel corpo dei bersaglieri, e, terminato il periodo di leva, firmò per trattenersi in servizio.

    Nell’agosto del 1914 si fece notare a Milano, in Galleria, per l’aggressione ai danni di un gruppo di manifestanti pacifisti. Partecipò alla prima guerra mondiale comportandosi valorosamente e guadagnandosi una medaglia d’argento, quattro di bronzo, due croci di guerra e la promozione a capitano.

    Nel dopoguerra aderì tra i primi al movimento dei fasci, e nel 1920 fu inviato da Benito Mussolini a fare il segretario del fascio a Trento, dove si distinse per la ferocia con cui condusse alcune azioni squadristiche. Nel congresso di fondazione del Partito nazionale fascista (PNF) del novembre 1921, fu nominato vicesegretario (insieme a Giuseppe Bastianini e Attilio Teruzzi).

    Nell’ottobre del 1922 partecipò alla marcia su Roma al comando delle squadre della Venezia Tridentina, di Verona, Vicenza e Padova. In quanto vicesegretario, entrò a far parte di diritto del Gran consiglio del fascismo, il massimo organo direttivo del partito. Nel 1923 venne incaricato di seguire la pubblicazione del nuovo settimanale dei giovani fascisti, Il giornale dei Balilla. Lasciò la carica di vicesegretario nell’ottobre 1923, quando venne inviato a Trieste a ricoprire il ruolo di comandante della sede locale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Venne eletto deputato nelle elezioni politiche dell’aprile 1924. Dal 1926 fu di nuovo vicesegretario del partito.

    Nel 1931 venne scelto per succedere a Giovanni Battista Giuriati nella carica di segretario del partito, che avrebbe ricoperto ininterrottamente fino all’ottobre del 1939, quando sarebbe stato sostituito da Ettore Muti.

    Dopo la ‘cura dimagrante’ nel numero degli iscritti portata a termine dai due precedenti segretari, Augusto Turati e Giuriati, e nella prospettiva delle imminenti celebrazioni del decennale del regime (1932), Starace riaprì le iscrizioni, e l’afflusso dei giovani – quelli che, come disse Mussolini, non avevano fatto né la guerra del 1915-18 né la ‘rivoluzione’ fascista – fu imponente: il partito passò in un anno da 1 milione circa di iscritti a 1 milione e 415.000.

    Il nuovo statuto del PNF, fatto approvare da Starace, formalizzava la più stretta dipendenza del partito da Mussolini e lo svuotamento dell’autorità del Gran consiglio. Limitando i propri compiti essenzialmente agli aspetti organizzativi e propagandistici, Starace annesse al partito alcune organizzazioni che fino ad allora erano riuscite a garantirsi un minimo di autonomia, tra cui l’Opera nazionale dopolavoro (OND). Dette inoltre un forte impulso all’Opera nazionale Balilla (ONB) e a tutto il movimento giovanile fascista, un impulso che raggiunse il suo culmine nella costituzione, nel 1937, di un’unica organizzazione, la Gioventù italiana del Littorio (GIL), che raccoglieva l’eredità sia dell’ONB sia dei Fasci giovanili e delle Giovani fasciste, inquadrando di fatto nelle proprie file tutti i giovani di ambo i sessi dai sei ai ventun anni. Anche i giovani universitari furono oggetto del ‘furore organizzativo’ di Starace, che avviò, con la costituzione dei Littoriali dello sport, la valorizzazione delle attività sportive e agonistiche, alle quali attribuiva importanza fondamentale per legare i giovani universitari al regime. Anche le iniziative culturali dei Gruppi universitari fascisti (GUF) ebbero un notevole impulso. Si cercò nel contempo di rafforzarne i processi di penetrazione a carattere politico-ideologico attraverso una presenza ossessiva del partito sulla stampa universitaria, nel teatro sperimentale, nei Cine-GUF e nei Littoriali della cultura, e con l’affidamento ai giovani universitari di corsi di preparazione politica da condurre presso le federazioni.

    Ma dove Starace lavorò con più costanza fu nell’introduzione nella vita del regime di usi e rituali, imposti tramite i cosiddetti Fogli di disposizioni, che avrebbero dovuto forgiare lo ‘stile fascista’, preludio alla formazione dell’uomo nuovo del regime. A questa stagione appartennero l’introduzione del saluto romano, l’uso del voi al posto del lei e di Duce al posto di Capo, il ricorso massiccio all’esibizione pubblica di divise e medaglie, l’iscrizione sui muri delle città delle frasi celebri di Mussolini, il divieto tassativo di termini e nomi di origine straniera, i giochi ginnici, i raduni oceanici, l’istituzione del ‘sabato fascista’, con le prestazioni di ciascuno dei partecipanti annotate su un «libretto personale di valutazione dello stato fisico e della preparazione del cittadino» (Nolte 1963; trad. it. 1971, p. 380). Starace dette vita, insomma, a quella che un altro dirigente del partito, Giuseppe Bottai (1982, 1989), chiamò una «dittatura formalistica e cancelleresca» (p. 489).

    Nei grandi eventi Starace cercò sempre di garantire a Mussolini il concorso delle folle, che egli radunava attivando in modo capillare le strutture periferiche e territoriali del partito.

    Starace si mostrò un fedele esecutore delle direttive di Mussolini anche quando si trattava di liberare il capo del fascismo da dirigenti locali del PNF divenuti politicamente ‘ingombranti’.

    Nella veste di vicesegretario, già tra la fine del 1928 e i primi mesi del 1929, incaricato da Mussolini di risolvere la spinosa questione della liquidazione politica di Mario Giampaoli, segretario della federazione di Milano, si era distinto per determinazione e assenza di scrupoli nel liberarsi di quest’ultimo – ormai inviso a Mussolini perché fautore di un fascismo ‘di sinistra’ – e nell’avviare un’ampia epurazione tra le file dei suoi seguaci.

    Nella veste di segretario si trovò subito, tra la fine del 1931 e gli inizi del 1932, ad affrontare il caso di Carlo Scorza, segretario della federazione di Lucca, che, su richiesta di Mussolini, fu allontanato dal Direttorio nazionale del PNF, inseguito da accuse infamanti, fatte circolare ad arte da Starace, che riguardavano anche voci su uno sfrenato affarismo di Scorza e di alcuni membri della sua famiglia. In realtà Scorza dava fastidio a Mussolini poiché si era esposto troppo nella polemica con il Vaticano sulla questione dell’Azione cattolica, sviluppatasi nel corso della primavera-estate del 1931. Una volta raggiunto l’accordo con la S. Sede (2 settembre 1931), Mussolini aveva deciso di sacrificare sull’altare della ritrovata sintonia l’uomo più inviso alle gerarchie d’oltretevere. Starace fu in quell’occasione l’esecutore della sentenza.

    Stesso ruolo giocò qualche anno dopo nella liquidazione di Leandro Arpinati, segretario della federazione di Bologna, che non solo venne cacciato dal partito ma addirittura subì il confino. Arpinati aveva sempre manifestato insofferenza per l’ala intransigente del fascismo e verso i tentativi di Starace di militarizzare il partito e il Paese. Nella primavera del 1933 espresse, per di più, critiche verso la politica economica del regime, incentrata sul progetto corporativo. Il vago liberismo di Arpinati in materia economica, espresso anche in pubblico, dette fastidio a Mussolini, che trovò di nuovo in Starace il fido esecutore delle sue direttive. Arpinati, defenestrato, venne in seguito, come detto, spedito al confino, e, come aveva fatto con Giampaoli e i suoi seguaci, Starace iniziò una vasta epurazione nel partito bolognese, con la cacciata di tutti i fedeli di Arpinati.

    In occasione della guerra d’Etiopia (ottobre 1934-maggio 1935) volle dare l’esempio dello spirito guerriero che avrebbe dovuto animare l’uomo fascista: partecipò così all’ultima fase del conflitto, nel corso della quale si fece notare per la sua crudeltà verso i prigionieri etiopi. Partito dalla capitale dell’Eritrea, Asmara, a metà di marzo del 1935, alla testa di una colonna celere di bersaglieri, entrò a Gondar il 1° aprile, raggiungendo successivamente il lago Tana. Si trattò di una marcia senza battaglie, con un nemico ormai sconfitto e in fuga. Starace pubblicò sulla sua ‘impresa’ africana un libro di memorie, La marcia su Gondar (1936), infarcito di una retorica fastidiosa per i toni epici con cui egli esaltava l’evento, nel patetico tentativo di celare l’assenza di una sia pur minima scaramuccia con il nemico. Ma le stesse relazioni della polizia segreta (l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo, OVRA) descrivono l’avanzata della sua colonna nell’Etiopia occidentale come «una marcia automobilistica priva di reali incognite» (cit. in Festorazzi, 2002, p. 149).

    La segreteria staraciana del partito è stata oggetto di analisi storiografiche controverse, ma riteniamo che sia stato Renzo De Felice (1974, 1996) a metterne meglio a fuoco i caratteri (pp. 216-220). Dopo avere definito Starace un «uomo di scarsa intelligenza, animato da una mentalità grettamente militaresca e niente affatto politica», lo storico restringeva a tre i riflessi negativi che lo staracismo ebbe sulla vita del partito fascista e più in generale sul regime: la «depoliticizzazione e la burocratizzazione del PNF e la sua trasformazione in una super organizzazione di massa in funzione del consenso»; il progressivo venir meno del partito «come effettivo strumento politico», con la conseguente trasformazione del gruppo dirigente fascista «in tanti notabili senza reale potere proprio»; infine, la mancata formazione di una nuova classe dirigente fascista, che lo storico indicava come l’unico modo «per cercare di scongiurare i pericoli insiti nella nuova realtà del regime e per poter pensare ad una sopravvivenza del fascismo o, meglio, ad una nuova ‘civiltà fascista’ dopo Mussolini». De Felice considerava quindi una prova della poca intelligenza politica di Starace la soddisfazione che questi non nascondeva di fronte agli apparenti successi della sua azione nell’inquadramento delle masse, organizzate «con criteri essenzialmente burocratici», e nella loro partecipazione alla vita del regime «solo su basi emotive e coreografiche (in parte coattive)». Concludeva come la segreteria di Starace avesse finito per incidere alla lunga «su tutto il tessuto morale del regime ed ebbe su di esso una influenza indubbiamente negativa».

    Tuttavia, considerata la totale dipendenza di Starace dalle direttive che Mussolini di volta in volta gli imponeva, e l’assenza, per tutti gli anni della sua lunga segreteria, di un vero contrasto tra i due sul modo di concepire la funzione del partito, si può concludere che la funzione subalterna a cui venne ridotto il PNF dallo staracismo non fu altro che il risultato della volontà di Mussolini. Si chiedeva ironicamente Bottai, dopo la defenestrazione di Starace, se la sua lunga segreteria, con i suoi problemi di ‘stile’, non fosse altro che «il paradigma ideale del metodo educativo di Mussolini» (Bottai, 1982, 1989, p. 357).

    Negli anni 1938-39 Starace fu protagonista di momenti significativi della vita del regime, dalla partecipazione ai lavori preparatori per l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, al deciso sostegno della politica razziale e antisemita, in cui si mostrò fautore della linea ‘dura’ da adottarsi nei confronti della comunità ebraica italiana. Si schierò inoltre per l’alleanza con la Germania e per l’ingresso dell’Italia in guerra, fino a giungere, nel settembre del 1939, quasi alle mani, nell’anticamera dell’ufficio di Mussolini, con il capo della polizia, Arturo Bocchini, che poco prima aveva illustrato al capo del fascismo l’impreparazione militare e psicologica del Paese. Come avrebbe in seguito raccontato nelle sue memorie l’allora capo dell’OVRA Guido Leto (1951), mancò poco che la discussione degenerasse «in una colluttazione», e Bocchini tornò al suo posto di lavoro «rosso come un gambero ed ancora, visibilmente, assai agitato» (p. 205). Si trattava del culmine di un conflitto tra i due che era latente da anni, e il cui motivo era da ricercarsi nella forte resistenza che Bocchini aveva sempre opposto ai continui tentativi da parte di Starace di assoggettare lo strumento poliziesco alle direttive del partito.

    Forse quest’ultimo episodio – insieme all’ostilità che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano da tempo riservava al suo filogermanesimo e filointerventismo – può essere stato all’origine della caduta in disgrazia di Starace, il quale tuttavia si era già ampiamente screditato agli occhi di molti potenti gerarchi per la sua assoluta ottusità politica e per l’irritante e stolido zelo con cui eseguiva le direttive mussoliniane. Il generale Emilio De Bono, uno dei massimi esponenti del regime, giunse – secondo quanto scrisse Ciano nel suo diario (1963, 1980) – a definirlo un «sinistro buffone» (p. 345), e Ciano stesso scrisse il 23 settembre che «tutto il risentimento nazionale è diretto contro la persona di Starace» (p. 351). Il 4 ottobre Mussolini confidò a Ciano la sua volontà di liberarsi di Starace, «odiato e spregiato dagli italiani» (p. 356). E il 29 di quel mese, infine, Starace venne informato da Mussolini del proprio siluramento.

    Essendo ormai Starace screditato alla corte sabauda nonché coperto di ridicolo e oggetto di barzellette e lazzi in ogni ambiente (da quelli più popolari sino a quelli alti del potere politico), Mussolini se ne liberò perché temeva che il diffuso discredito di cui ormai godeva il suo servitore potesse estendersi fino a lui. Bottai (1982, 1989) testimonia che a gioire in modo particolare della liquidazione di Starace fu Ciano, il quale si abbandonò davanti a lui a «una gioia smodata, senza neppure l’ombra d’una responsabilità, che si rinnova e s’accentua» (p. 167).

    Starace venne nominato capo di Stato maggiore della Milizia. Ricoprì questo incarico per circa un anno e mezzo; nel maggio del 1941, richiamato in patria dopo un soggiorno di alcuni mesi sul fronte albanese, fu bruscamente licenziato e sostituito da Enzo Emilio Galbiati.

    Nella ‘notte del Gran consiglio’ (quella del 25 luglio 1943, che portò a un voto di sfiducia nei confronti di Mussolini), Dino Grandi, allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, condusse un attacco feroce al partito così com’era stato forgiato da Starace, e accusando di fatto Mussolini di essere stato l’ispiratore dello ‘staracismo’, si rivolse a lui con enfasi, scandendo che «il nostro Capo non è quello di Achille Starace» (Bottai, 1982, 1989, p. 414).

    Il 28 luglio (tre giorni dopo la caduta di Mussolini) Starace fu arrestato e tradotto al carcere di Regina Coeli. Ma venne rilasciato, arrestato di nuovo e di nuovo rilasciato nel giro di pochi giorni. Trasferitosi al Nord dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifugiò a Vimercate presso alcuni amici. In novembre venne arrestato, su ordine di Mussolini, dalle autorità della Repubblica sociale italiana, che lo accusavano di contatti epistolari con il governo Badoglio. Venne recluso nel carcere di Verona fino all’aprile 1944; liberato, fu di nuovo fermato due mesi dopo e internato nel campo di Lumezzane, da dove uscì in settembre. Durante i giorni dell’insurrezione (aprile 1945) fu riconosciuto a Milano da alcuni partigiani: arrestato il 27, fu processato sommariamente e condannato a morte; venne fucilato il 29 in piazzale Loreto di fronte al cadavere di Mussolini.(fonte)

    [4] Arnaldo Fuzzi (Forlì, 1893 – Forlì, 1974) è stato un ingegnere italiano. Arnaldo Fuzzi frequenta l’Università di Bologna: dopo essersi iscritto alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, ottiene il diploma in ingegneria il 4 dicembre 1920. Dopo di che si iscrive anche al corso di architettura.
    Amico di famiglia dei Mussolini, aderisce al fascismo e diventa anche federale di Forlì dal 1929 al 1931. Come tale, interviene duramente nelle dispute interne al fascismo sammarinese, in favore di Ezio Balducci.
    Nel 1937, parte per l’Africa Orientale Italiana, dove è Presidente dell’ente di colonizzazione “Romagna di Etiopia”.
    Fuzzi è progettista eclettico, che alterna mattoni a vista al travertino (vero o finto che sia), o al cemento, creando forme mosse ed articolate.(fonte)

    [5] Ente colonizzazione Romagna d’Etiopia. Istituito con rdl del 6 dicembre 1937, n.2300 aveva il compito di colonizzare la regione dell’Amara nell’Etiopia centro-settentrionale con la costituzione di una piccola proprietà agricola e l’impiego dei lavoratori romagnoli inquadrati in reparti della milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). L’ente aveva sede a Roma e secondo il provvedimento istitutivo il finanziamento dell’Ente avrebbe dovuto gravare sul Ministero dell’Africa italiana sotto forma di prestito reintegrabile. Alla fine del conflitto mondiale l’ente fu posto in liquidazione con la legge del 9 ottobre 1951, n. 1185 e la sua chiusura fu dicharata con decreto del ministro del Tesoro del 24 luglio 1959. [tratto da Gli archivi dell’Ufficio liquidazione del Tesoro di Anna Pia Bidolli in “Archivi e Imprese” bollettino di informazioni, studi e ricerche, gennaio/dicembre 1995](fonte)