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Vittorio Emanuele III, 1892

    Vittorio Emanuele III, 1892
    Vittorio Emanuele III, 1892 a
    « di 4 »

    Carissimo Professore[1]
    Questa mattina ho rice=
    vuto la Sua buona lettera
    ed il libro. Ho passato
    un paio d’ore a scorrere
    le pagine della sua anto=
    logia[2], e mi sono molto
    sovente ricordato di Lei
    e della grande pazienza
    che aveva con me, quando
    leggevamo assieme parecchie
    delle prose e delle poesie

    che ho riveduto oggi con
    grande piacere. Non
    Le dico quanto Le sono
    riconoscente dell’aver
    ancora una volta pensato
    a me.
    In questi giorni ho
    letto il nuovo libro[3] di Zola[4],
    e sarei molto curioso di
    sapere cosa ne pensa Lei.
    L’ho trovato molto ben scritto,
    ma scritto da persona che
    odia la milizia, e quindi
    mi è poco piaciuto. Ho

    pure letto “L’Innocente”[5]
    di D’annunzio[6]; lasciando
    in disparte il soggetto del
    romanzo, che a molti ( come
    a me ) non piace, trovo
    che la prosa di D’Annunzio
    è veramente molto bella,
    e tale da essere letta molto
    attentamente e con
    molto piacere.
    Ed alla lettura di questi
    due libri si limitano tutte
    le mie occupazioni più o
    meno letterarie degli ultimi

    mesi. Spero che mi perdo=
    nerà se è poco, ma la verità
    è che ho molto da fare, e
    quindi di sera, invece di
    leggere, vado presto a letto
    dovendo alzarmi molto
    la mattina per non
    prendere troppo caldo quan=
    do esco coi Soldati.
    Mi auguro vederLa
    presto o a Roma, o meglio
    a Napoli, e ringraziandoLa
    nuovamente La prego
    di volermi credere suo aff.mo
    V.E di Savoia[7]
    Napoli 20 Luglio 92

    Vittorio Emanuele III, 1892 busta
    Vittorio Emanuele III, 1892 busta
    « di 2 »

    Al Signor Professore
    Cav re Luigi Morandi

    Via Goito n° 30
    Roma


    Note

    [1] Luigi Morandi. Nacque il 18 dicembre 1844 a Todi, in provincia di Perugia, da Giovanni e da Elisabetta Loddi.
    Studente esemplare alla scuola Normale maschile di Perugia, dove ebbe maestri Giuseppe Cocchi e Luigi Bonazzi, intraprese neppure ventenne la carriera d’insegnante. Dal 1863 al 1873 fu docente nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado a Spoleto, dirigendo anche le locali scuole serali. In quegli anni partecipò attivamente alla vita politico-sociale della sua regione, contribuendo a fondare a Spoleto una Banca popolare e creando egli stesso una biblioteca circolante, inaugurata nell’aprile 1867.
    Rivelando la grande versatilità poi destinata a distinguerlo, creò e diresse, tra il 1868 e il 1870, la rivista L’Umbria e le Marche, che mescolava erudizione locale e produzione letteraria e si avvaleva anche di collaborazioni nazionali. Gli scritti del periodo confermano la varietà degli interessi, mai disgiunti dall’attenzione per l’educazione e la formazione civile dei cittadini e da quella per il territorio, come dimostrò il lavoro Stornelli ed altre poesie (Sanseverino Marche 1867) e il Saggio di proverbi umbri (ibid. 1868), che riprendeva precedenti ricerche sulla cultura popolare.

    Nel 1874 ebbe la cattedra di italiano all’Istituto tecnico di Forlì, poi per tre anni fu a Parma, dove tentò invano di ottenere all’università la libera docenza di Letteratura italiana, e, dal 1879, all’Istituto tecnico di Roma. Nel frattempo si era arruolato come volontario tra i garibaldini, partecipando alla spedizione verso Roma nel settembre 1867 e prendendo parte alle battaglie di Mentana e Monterotondo, dopo la quale fu nominato da Garibaldi ufficiale addetto allo Stato maggiore; nel 1871 ricevette inoltre la medaglia ai benemeriti della liberazione di Roma (memorie di tale militanza in Da Corese a Tivoli. Appunti, ibid. 1868).

    Trasferitosi a Roma, nel 1880 ottenne l’idoneità all’insegnamento di letteratura italiana all’Università (dopo l’intervento del Consiglio superiore, che impose l’accettazione della domanda rigettata dalla Commissione esaminatrice). A quella data risultava sposato, ma senza figli, con Imogene Biagini anch’essa di Todi.
    In quegli anni spaziò nel campo della ricerca storica e in quello della produzione letteraria, pubblicando un volume di Poesie (Torino 1875) e testi per diversi musicisti (La preghiera di un fanciullo, Milano 1877; A lei, ibid. 1877; Primo bacio, ibid. 1877); nonché, come critico letterario, il saggio Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua. Lettera inedita di Alessandro Manzoni con un Discorso di Luigi Morandi (ibid. 1874).

    Nel saggio Morandi entrava nel vivo della disputa linguistica che da decenni appassionava e divideva la cultura italiana; sulla scia di Ruggiero Bonghi fu tra i più convinti assertori della teoria manzoniana della lingua, considerata una bussola sicura per orientare l’insegnamento linguistico della nuova Italia, come si evince dalla prefazione alla terza edizione del volume sui Promessi Sposi (Parma 1879, pp. X s.). In questa linea di ricerca pubblicò nel 1884 il saggio Origine della lingua italiana, presso l’editore Lapi, con cui Morandi aveva da tempo stretto un rapporto di collaborazione protrattosi poi negli anni.
    Dal 1881 al 1886, mentre collaborava anche alla rivista La cultura, fu docente di materie letterarie del Principe di Napoli, su proposta di Bonghi, per il quale scrisse la prefazione al libro Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (Napoli 1884).

    L’attività di precettore fu ricordata in Come fu educato Vittorio Emanuele III (Torino 1901), uscito poco dopo l’ascesa al trono del principe e nel quale furono riassunti i contenuti delle lezioni impartite nei cinque anni, accompagnati da ricordi e osservazioni personali. Anche in questo, Morandi rivelava la sua predilezione per gli autori moderni: «[…] per tutto il primo anno, avrei continuato a insegnargli grammatica e lingua italiana e precetti letterari, specialmente con gli esercizi del comporre e con copiose letture. Il primo luogo tra queste, lo avrebbero sul principio tenuto, contro l’uso allora prevalente nelle scuole pubbliche, prosatori e poeti moderni, attinenti soprattutto il nostro risorgimento politico» (pp. 19 s.). Il libro ebbe ristampe e integrazioni fino a superare nel 1914, a detta dell’editore, le 40.000 copie vendute.

    Dopo l’esperienza a Casa reale, Morandi non proseguì la carriera universitaria, forse anche per contrasti con docenti romani, ma scelse la vita politica militando nei banchi della destra; dal 1895 fu eletto deputato per tre legislature (XIX, XX, XXI) nel collegio di Todi, e nel 1905 (XXII) senatore del Regno, carica ricoperta fino alla morte. Nella sua vita parlamentare si occupò soprattutto di temi legati all’istruzione pubblica, senza però abbandonare studi e ricerche.

    Sempre in ambito critico, nel 1882 diede alle stampe a Roma, Voltaire contro Shakespeare, Baretti contro Voltaire (poi Città di Castello 1888). L’anno dopo uscì la raccolta Due commedie e un discorso sullunità della lingua rispetto alla commedia (Roma 1883), con due opere teatrali (La maestrina La figlia senza babbo) già rappresentate tra il 1875 e il 1877: la passione per il teatro era nata grazie al suo vecchio docente Bonazzi, per il quale scrisse nel 1884 la prefazione del libro Gustavo Modena e larte sua. In questi anni Morandi proseguì anche lo studio delle tradizioni popolari, pubblicando I sinonimi del verbo morire (Roma 1882), rivisto e ampliato pochi mesi dopo nell’edizione In quanti modi si possa morire in Italia, o i sinonimi del verbo morire (Torino 1882).

    Alla sua notorietà concorse in misura speciale la fervida attività di autore di sussidi per le scuole, a cominciare dalla fortunatissima Antologia della nostra critica letteraria moderna (Città di Castello 1884), primo esempio del genere in Italia, e non a caso largamente diffusa in ambito scolastico.
    Morandi fu capace di recepire sia le principali intuizioni della vecchia scuola puristica napoletana, sia le novità metodologiche desanctisiane, senza disdegnare gli scavi storicofilologici della Scuola storica, alla quale guardava da sempre con interesse. Inoltre fu originale l’intento didattico, basato sulla scelta di non nascondere né edulcorare i contrasti esistenti in seno alla letteratura e alla critica italiana, al fine di stimolare la riflessione di docenti e studenti, chiamati in qualche modo a prendere posizione di fronte alle diverse opzioni. L’Antologia andò presto esaurita, tanto da richiedere a fine anno una «seconda impressione », e una terza nel 1887. Nel 1890 si ebbe un’ulteriore edizione «assai migliorata e accresciuta di ventidue scritti», con un’importante Avvertenza dell’autore.

    Successivamente Morandi pubblicò alcuni libri indirizzati espressamente alle scuole, tra cui un’altrettanto fortunata silloge Prose e poesie italiane (Città di Castello 1892) «per uso delle scuole ginnasiali tecniche e normali», a cui tre anni dopo aggiungeva l’Appendice di poesie alle Prose e poesie italiane (ibid. 1895). Ancora maggior successo conobbe la Grammatica italiana. Regole ed esercizi per uso delle scuole ginnasiali, tecniche e normali (Torino 1894) realizzata in collaborazione con Giulio Cappuccini, che introdusse numerosi elementi di novità nello studio della lingua, recependo numerosi tratti tipici dell’impostazione manzoniana. Più tardi apparvero una Grammatichetta italiana (ibid. 1898), curata dagli stessi autori e destinata alle scuole elementari, e un volume di Letture educative facili e piacevoli proposte alle scuole (Città di Castello 1913). Notevoli inoltre i due volumi, dei Poeti stranieri lirici, epici, drammatici, scelti nella versione italiana da Morandi e Domenico Ciampoli (stampati da Lapi nel 1894 ma apparsi come Leipzig, Raimund Gerhard). L’apporto più significativo alla critica letteraria lo diede alla produzione dialettale, in particolare romanesca nella quale si impegnò in un’interessante edizione dei Centoventi sonetti in dialetto romanesco curata da Luigi Ferretti (Firenze 1879) e nella prima edizione commentata dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, I sonetti romaneschi pubblicati dal nipote Giacomo (Città di Castello 1886-89), una raccolta quasi completa in sei volumi realizzata con la collaborazione di Filippo Chiappini.
    L’edizione dei sonetti di Belli – frutto di un lavoro quasi ventennale sull’opera del poeta, iniziato con alcuni articoli sulla Rivista contemporanea nel 1869 e proseguito con la pubblicazione parziale di alcuni sonetti tra 1869 e 1870 – costituì un importante sostegno per le concezioni politiche di Morandi. Negli anni successivi l’autore approfondì altri temi dell’opera di Belli, evidenziandone più volte la correlazione con quella di Manzoni.
    Il 20 dicembre 1919 fu eletto socio dell’Accademia della Crusca.
    Morì a Roma il 6 gennaio 1922.(fonte)
    “Il modo con cui venne educato Vittorio Emanuele III fu tanto raro, e tanto felici ne furono gli effetti, che io vagheggiai sempre l’idea di farne la storia, per presentarla, specialmente ai giovani, come mirabile esempio”.
    È sulla base di questo proposito che Luigi Morandi scrisse Come fu educato Vittorio Emanuele III, resoconto dell’attività di insegnante d’italiano del principe, che da pochi giorni aveva compiuto i dodici anni. (fonte)

    [2] Prose e poesie italiane (Città di Castello 1892) «per uso delle scuole ginnasiali tecniche e normali»(fonte)

    [3] La disfatta.  (La Débâcle) è il penultimo romanzo dello scrittore francese Émile Zola appartenente al ciclo dei Rougon-Macquart pubblicato nel 1892. La storia è ambientata sullo sfondo di una serie di eventi politici e militari che ha posto fine al regno di Napoleone III e al Secondo Impero nel 1870, in particolare la guerra franco-prussiana, la battaglia di Sedan e la Comune di Parigi. Il romanzo inizia nell’estate del 1870 quando, dopo gravi tensioni diplomatiche, la Francia dichiara guerra alla Prussia (il nucleo della Germania, che stava allora emergendo come una nazione formata da una serie di città diverse, regioni e principati). I francesi speravano di ottenere una rapida vittoria militare da parte dei loro eserciti in marcia verso est diretti a Berlino. Invece l’esercito prussiano, attraversato il Reno prima dei francesi, li sconfigge riuscendo così a penetrare ulteriormente in Francia.
    Il romanzo è il più lungo della serie dei Rougon-Macquart. Il suo protagonista è Jean Macquart, un agricoltore che dopo aver perso la moglie e la terra (i cui eventi sono descritti nel romanzo La terra), si è unito all’esercito per la campagna del 1870. Il tema principale è la brutalità della guerra per il soldato comune e per la popolazione civile in quanto viene colpita dalle perdite di familiari e amici e dalle difficoltà economiche.(fonte)

    [4] Émile Zola. Scrittore francese (Parigi 1840 – ivi 1902). Affermatosi dapprima come critico d’arte, difese l’impressionismo. Teorico del naturalismo, ne offrì un modello esemplare nella sua opera narrativa: da Teresa Raquin (1868) al ciclo Les Rougon-Macquart, histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire (1871-93), che comprende L’assommoir (1877) e Germinal (1885), i romanzi di Z. costituiscono un immenso affresco della società del tempo, osservata con rigore scientifico e con una scrupolosa ricognizione storica, sociologica, linguistica. Di convinzioni repubblicane, nell’affaire Dreyfus Z. prese posizione a favore dell’innocente: celebre è la lettera aperta nota con il titolo J’accuse (1898).
    VITA E OPERE
    Figlio di un ingegnere veneziano e di una francese, visse dal 1843 a Aix-en-Provence, dove, perduto il padre nel 1847, compì i primi studi, assistito dalla madre; fu coetaneo e amico di P. Cézanne. A diciotto anni, tornò a Parigi con la madre; non poté accedere all’università e, stretto dal bisogno, s’impiegò assai modestamente presso la casa editrice Hachette. Si affermò dapprima come critico d’arte, assumendo la difesa dell’impressionismo (Mon Salon, 1866; Mes haines, 1866; Édouard Manet, 1867). Il suo primo romanzo degno di nota è il già citatoThérèse Raquin, dove già si osserva una preoccupazione “scientifica”, sotto l’influsso delle teorie di C. Bernard; quindi Z. vagheggiò un grande ciclo di romanzi (Les Rougon-Macquart, histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire), fondato su “documenti umani”, secondo i canoni del nascente naturalismo alla cui affermazione Z. contribuì anche attraverso le famose “serate” di Médan. Z. attese all’esecuzione del ciclo, che comprende venti romanzi per oltre un ventennio (1871-93), accentuando sempre più la minuziosa osservazione della vita del suo tempo, senza rifuggire da immagini anche brutali e da particolari audaci, scegliendo per ciascun romanzo un ben preciso ambiente che egli puntualizzava con una documentazione capillare e diretta. Successivamente (1894-98) pubblicò LourdesRomeParis, che costituirono il breve ciclo delle Trois villes. Nelle polemiche provocate dall'”affaire Dreyfus” prese coraggiosamente ed energicamente posizione a favore dell’innocente attraverso una serie di articoli culminati nella già citata lettera aperta al presidente della Repubblica pubblicata sull’Aurore del 13 genn. 1898 (nota con il titolo di J’accuse), che procurò a Z. un processo e una condanna che lo costrinsero a rifugiarsi in Inghilterra; iniziò i Quatre Évangiles, di cui apparvero Fécondité (1899), Travail (1901) e, postumo (1903), Vérité; dell’ultimo, Justice, non rimane che l’abbozzo. Z. accompagnò la sua opera di romanziere con tutta una serie di scritti critici e polemici: La République et la littérature (1879); Le roman expérimental (1880); Les romanciers naturalistes (1881); Documents littéraires (1881); Une campagne (1882).

    [5] L’Innocente. È un romanzo scritto da Gabriele D’Annunzio nel 1892. È il secondo dei romanzi della Rosa, di cui fanno parte anche Il piacere e Trionfo della morte.(fonte)

    [6] Gabriele D’Annunzio. Scrittore e politico (Pescara 1863-Gardone Riviera, Brescia, 1938). Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una vasta cultura, mostrò una notevole capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole in un suo stile peculiare. Tra i molti generi letterari da lui praticati, ebbe una predilezione per la poesia lirica (Primo vere, 1879; Canto novo, 1882). Nel 1888 si trasferì a Roma, dove a contatto con l’aristocrazia capitolina trovò ispirazione per il romanzo Il piacere (1889). Durante un soggiorno a Napoli (1891) si interessò alle opere di F. Nietzsche e R. Wagner. L’influenza di Nietzsche traspare nei romanzo Trionfo della morte (1894) e Le vergini delle rocce (1896). L’adesione al modello del superuomo nietzschiano, alimentata dalle affinità psicologiche e culturali, risultò decisiva nella successiva produzione dannunziana. L’incoraggiamento a scrivere per il teatro gli venne dalla grande attrice E. Duse, con cui ebbe una tormentata relazione. In pochi anni D’A. compose le sue opere principali, dal romanzo Il fuoco (1900), alla tragedia pastorale La figlia di Iorio (1904). Nel 1897 fu eletto deputato, passando con clamore dalle file della destra a quelle dell’estrema sinistra; ma nel 1910 tornò a destra, aderendo all’Associazione nazionalistica italiana di E. Corradini. Dopo essere riparato in Francia per sottrarsi ai creditori (1910), tornò in Italia e nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, avviò un’accesa campagna interventista. Si arruolò quindi volontario, distinguendosi in alcune audaci azioni, tra cui la «beffa di Buccari» (1918) o il volo su Vienna, che gli costò la perdita di un occhio. Dopo la fine della guerra, fu tra i principali propagandisti del mito della «vittoria mutilata». Nel 1919 guidò una spedizione di reduci, partendo da Ronchi (poi detta «dei Legionari») e giungendo a Fiume (che era sotto controllo alleato e di cui si chiedeva l’assegnazione all’Italia); occupata la città con un colpo di mano paramilitare, istituì la Reggenza italiana del Carnaro, tenendone il controllo per più di un anno e redigendo con A. De Ambris una Carta del Carnaro a sfondo corporativista. Nel dic. 1920 fu infine sgomberato dall’esercito italiano. Ritiratosi nella villa Cargnacco, in quello che poi avrebbe chiamato il «Vittoriale degli Italiani», sul Lago di Garda, fu colto alla sprovvista dal colpo di mano di Mussolini, che aveva appoggiato l’impresa fiumana e a essa probabilmente si era ispirato. Con il dittatore fascista D’A. intrattenne un rapporto difficile, apparentemente amichevole e di reciproca ammirazione, ma in realtà minato dal sospetto; D’A. si vide quindi confinato nel Vittoriale e dissuaso da qualsiasi interferenza politica, in cambio del massimo riguardo formale e di non poche concessioni (nel 1924 fu creato principe di Montenevoso; poté sovrintendere all’edizione nazionale delle sue opere; nel 1937 divenne presidente dell’Accademia d’Italia).(fonte)

    [7] Vittorio Emanuele III di Savoia. Figlio (Napoli 1869 – Alessandria d’Egitto 1947) di Umberto I e di Margherita di Savoia. Ricevuta una rigorosa educazione militare, percorse rapidamente la successiva carriera, fino a ottenere (1897) il comando del corpo d’armata di stanza a Napoli; l’anno prima aveva sposato Elena, figlia del principe Nicola di Montenegro. Salito improvvisamente al trono (1900) in seguito all’assassinio del padre, non si oppose alla svolta liberale impressa dai governi di G. Zanardelli e G. Giolitti; in politica estera appoggiò, pur rimanendo nel solco della Triplice Alleanza, il riavvicinamento diplomatico con Inghilterra e Francia. Favorevole all’impresa di Libia (1911-12), sostenne l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, non facendo mancare il suo appoggio al governo di A. Salandra nelle giornate del maggio 1915 e seguendo personalmente, anche sul fronte, l’andamento del conflitto. Nella difficile situazione del dopoguerra, V. E. III dimostrò una sostanziale sfiducia nelle capacità di governo della classe dirigente liberale e preferì l’accettazione del fatto compiuto alla difesa attiva delle istituzioni. Tale atteggiamento fu evidente il 28 ott. 1922, quando, in occasione della marcia su Roma delle camicie nere fasciste, rifiutò di proclamare lo stato d’assedio e affidò l’incarico di formare il nuovo governo a B. Mussolini. Durante il ventennio fascista, nonostante reciproche diffidenze, V. E. III non separò mai le sorti e le responsabilità della dinastia da quelle del regime. Sul piano interno non si oppose alla graduale soppressione delle libertà garantite dallo Statuto e accettò, di fatto, che si venisse a creare una “diarchia” tra il duce e la corona che lasciava a quest’ultima un primato solo nominale. In politica estera, il sovrano non prospettò possibilità alternative all’iniziativa di Mussolini, accettando i titoli di imperatore di Etiopia (1936) e di re d’Albania (1939); anche l’intervento italiano nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania (1940) ebbe luogo nonostante le sue perplessità. Il timore che il disastroso andamento del conflitto segnasse la fine non solo del regime, ma anche della dinastia, convinse V. E. III ad agire, arrestando Mussolini (25 luglio 1943) e nominando capo del nuovo governo il maresciallo P. Badoglio. Il 9 sett., il giorno seguente l’annuncio dell’armistizio, il sovrano e Badoglio abbandonarono Roma e fuggirono prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli Alleati. Di fronte alle pressioni delle forze antifasciste, che chiedevano la sua abdicazione, dopo molte resistenze V. E. III fu costretto ad accettare una soluzione di compromesso, impegnandosi ad affidare la luogotenenza del regno al figlio Umberto quando fosse stata liberata Roma. Verificatosi tale evento (4 giugno 1944), V. E. III si risolse ad abdicare a favore del figlio solo il 9 maggio 1946, a ridosso del referendum istituzionale del 2 giugno, con il chiaro intento di favorire il successo monarchico. Ritiratosi in esilio ad Alessandria d’Egitto, l’anno seguente morì e fu sepolto nella cattedrale di S. Caterina.(fonte)