REPUBBLICA ROMANA
COMMISSIONE DELLE BARRICATE[1]
Al Citt° Leprai Cap° di Stato Maggiore
Vi raccomando Zannoni
Costui requisì molto presto la Ditta
Renetta, e requisirà molte altre
stoffe per lo più arazzi del ministero
di guerra
12 Maggio
Cernuschi[2]
timbro COMMISSIONE DELLE BARRICATE
Si dia gli ordini atti direzione
Militare di Pubblica Sicurezza
che io fatto F°:, da questa dipendo=
l’Ufficiale.
Zannoni Francesco[3]
in alto a sinistra 42
Note
[1] Il Cernuschi poi, che capitanava la commissione delle barricate, dirigeva al popolo il primo di que’ proclami faceti e scherzevoli che tanto esilaravano Roma per la loro originalità. Esso così diceva:
«Ieri cominciò l’ingresso dei Francesi in Roma. Entrarono per Porta San Pancrazio in qualità di prigionieri. A noi, popolo di Roma, questo non fa gran meraviglia. Deve fare però un senso curioso a Parigi. Anche questo è buono.»
Da: da Giuseppe Spada – Storia della rivoluzione di Roma (vol. III) (1869). Capitolo XIV(fonte)
[2] Enrico Cernuschi. Nato a Milano il 19 febbr. 1821 da Claudio, un piccolo imprenditore originario di Monza, e da Giuseppina Della Volta, fece i primi studi presso i padri barnabiti di Monza e poi nelle scuole di Milano. Rimasto orfano del padre a tredici anni e della madre a diciotto, poté iscriversi, grazie all’aiuto dei parenti materni, all’università di Pavia, dove si laureò in utroque iure il 23 dic. 1842. Dopo un periodo di pratica professionale nella città natale, durante il quale compì anche viaggi di lavoro e di studio in Italia settentrionale e all’estero (Parigi, Londra, Marsiglia, Germania, Olanda), il 26 apr. 1846 ottenne l’abilitazione a esercitare l’avvocatura presso l’I. R. Tribunale di appello generale di Milano, senza peraltro poi avvalersene.
Il C., che condivideva gli orientamenti liberali e nazionali comuni a buona parte della gioventù colta milanese, ma che era rimasto sostanzialmente estraneo all’attività cospiratoria intessuta nella capitale lombarda nel 1847 e nelle prime settimane del 1848, assurse improvvisamente al ruolo di protagonista politico nelle Cinque giornate. Infatti il 18 marzo, nel corso della manifestazione antiaustriaca svoltasi davanti al palazzo del Governo in Borgo Monforte che diede il via all’insurrezione, fu il C. che, rotti gli indugi, obbligò il vicegovernatore O’ Donnell a scrivere sotto dettatura e a firmare davanti alla folla dei dimostranti tre decreti che stabilivano l’istituzione della guardia civica, la destituzione della direzione di polizia e la consegna delle armi della stessa polizia al municipio; e fu sempre il C. che costrinse il vicegovernatore a seguirlo in stato di arresto verso la sede del municipio e poi, quando il corteo popolare fu disperso a fucilate da reparti austriaci, in casa Vidiserti. Trasferitosi nella notte fra il 18 e il 19 nella più sicura casa del conte Carlo Taverna, in via Bigli, il C. organizzò in quella sede il primo, embrionale centro direttivo dell’insurrezione, stimolando la costruzione delle barricate e cercando di stabilire collegamenti tra i vari nuclei che avevano cominciato a battersi. E quando la mattina del 20 il Cattaneo, ormai deciso a spingere a fondo la lotta armata contro gli Austriaci, propose la creazione di un Consiglio di guerra, il C. entrò (con lo stesso Cattaneo, G. Clerici e G. Terzaghi) in quell’organismo, che da allora diresse energicamente lo slancio insurrezionale della popolazione milanese sino alla vittoria, contrastando con successo le tendenze al patteggiamento con l’avversario del gruppo moderato raccolto intorno al podestà G. Casati, che il 21 aveva dato vita al governo provvisorio di Milano.
Nella pressoché contemporanea formazione del Consiglio di guerra (al quale il C. diede l’apporto di un grande coraggio personale, manifestatosi tra l’altro nei vittoriosi scontri del 22 per la conquista di porta Tosa, e di una fantasiosa capacità nell’organizzazione della guerriglia cittadina) e del governo provvisorio, iniziò a prendere corpo quel contrasto tra forze moderate e forze democratiche che avrebbe caratterizzato la vita politica milanese nei mesi di fugace libertà seguiti alla liberazione della città. La mattina del 22 marzo infatti, in seguito alle pressioni dei moderati, si ebbe l’incorporazione del Consiglio di guerra in un più largo Comitato di guerra nel quale gli elementi democratici erano in minoranza; e su questo Comitato il governo provvisorio esercitò un controllo così stretto che il 31 marzo il C. e i suoi colleghi del primitivo Consiglio di guerra, ormai isolati, preferirono rassegnare le dimissioni. Da allora il C. fu, insieme con il Cattaneo, l’ispiratore dell’opposizione condotta dal piccolo ma combattivo gruppo repubblicano-autonomista contro il governo provvisorio, duramente criticato perché considerato espressione dell’ala conservatrice dell’aristocrazia lombarda intenzionata ad affrettare l’annessione di Milano e della Lombardia al Piemonte sabaudo anche prima della conclusione della guerra, così da impedire ogni sbocco democratico della situazione. Nel quadro di questa attività il 30 aprile il C. partecipò, insieme con il Cattaneo e con G. Ferrari, all’incontro con G. Mazzini nel corso del quale i democratico-federalisti gli proposero di mobilitare insieme l’opinione pubblica per cercar di rovesciare il governo provvisorio e sostituirlo con un governo di orientamento democratico: proposta che trovò però contrario il Mazzini e che per il momento non poté quindi avere esecuzione. E così pure egli ebbe un ruolo di rilievo nella preparazione e nello svolgimento della dimostrazione che mirava ad abbattere il governo provvisorio svoltasi il 29 maggio davanti a palazzo Marino, proprio il giorno in cui avevano avuto inizio le operazioni del plebiscito per la “fusione” della Lombardia con gli Stati sardi, tenacemente avversate dai repubblicani.
Arrestato l’indomani sotto l’accusa di “perturbazione della tranquillità dello Stato” e rimesso in libertà il 3giugno per “difetto d’indizi”, il C. continuò la sua battaglia contro i moderati sulla stampa democratica di Milano. A lui sono infatti da attribuire gli articoli apparsi nello Spirito folletto con la firma “Un carlista nordico” e “Un carlista”, tra i quali va ricordato quello intitolato Fasti diplomatici del Governo provvisorio (14 e 29giugno), di acerba censura alla politica estera del governo presieduto dal Casati giudicata inconcludente e prona ai voleri di Carlo Alberto. Più continua e incisiva fu però la collaborazione all’Operajo, iniziata con l’articolo L’oro austriaco (17 giugno), di difesa del suo operato nella giornata del 29maggio. Negli scritti consegnati al quotidiano di P. Perego ed E. Lavelli il C. accentuò la sua linea antinobiliare e antimoderata, continuando a fare oggetto dei suoi attacchi – sulla base di una linea concordata col Cattaneo – il governo provvisorio, che veniva presentato come l’incarnazione del “mal seme aristocratico” e al quale si faceva carico di avere consapevolmente frenato la spinta patriottica delle popolazioni lombarde, di avere anteposto con la “fusione” i propri ristretti interessi di casta a quelli generali e nazionali, e di aver impostato una politica finanziaria che faceva ricadere il peso economico della guerra principalmente sui ceti medi e sugli strati più poveri della popolazione risparmiando invece la grande proprietà nobiliare (articoli Politica e morale, 14 luglio; Sciagure, 16 luglio; Guerra e finanza, 18 luglio). “La morte privilegiò scrupolosamente ne’ cinque giorni le magnanime schiatte”, scriveva il C. il 16 luglio in un brano che dà la misura dei suoi acri umori antipatrizi e che richiama alla mente il polemico articolo cattaneano Registro mortuario delle barricate. “Con vite tutte plebee il popolo allora invilì il nemico, e poté chiamarlo barbaro, cioè feroce e vile. Poscia il tardo, elefantino patriziato confiscò la rivoluzione, scomunicò l’insurrezione popolare, rinvigorì il Croato … L’Italia, aristocratica, sarà eternamente tedesca. Tutto il popolo lo vedrà, e farà da sé, e vincerà, e trionferà, e conierà, senza scherno, senza risparmio, sul campo dell’ultima battaglia, come a Marengo, medaglie e monete, ove si leggerà: Republica italiana“. E nella difesa delle idealità repubblicane e degli uomini di quel partito, dei quali rivendicava la funzione decisiva svolta nella preparazione del ‘48, il C. faceva ancora largo posto ai meriti del Mazzini e della Giovine Italia riconoscendo la “parte gloriosa” che l’uno e l’altra avevano avuto (23 luglio), velando di fronte alle necessità dell’ora le differenziazioni che già distinguevano la sua concezione federalistica della repubblica dall’unitarismo mazziniano e mettendo da parte il dissenso emerso nell’incontro del 30 aprile. Infine, quando le sorti della guerra precipitarono e si delineò la minaccia del ritorno degli Austriaci a Milano il C., che già nell’Operajo del 29 luglio aveva esposto un piano di emergenza (dimissioni del governo Casati e sua sostituzione con un dittatore, guerra difensiva sulla linea dell’Adda e del Serio e guerra offensiva, affidata a Garibaldi, “lungo il vertice rettilineo dei monti che dividono la Valcamonica dal Tirolo” con obiettivo Trento), tenne l’incarico di segretario del Cattaneo nella missione che questi intraprese per conto del Comitato di pubblica difesa di Milano nell’alta Lombardia (2-5 agosto), nel tentativo di animare un’ultima resistenza in quelle zone.
Dopo la capitolazione di Milano riparò dapprima a Lugano, dove ebbe contatti col Mazzini (firmò tra l’altro l’indirizzo mazziniano del 4 settembre all’Assemblea nazionale francese), e poi, nei primi giorni di settembre, a Genova, dove collaborò all’organizzazione del movimento democratico locale e partecipò assiduamente alle sedute del Circolo italiano. Lasciata Genova all’inizio di novembre si recò a Firenze, attratto dalle prospettive favorevoli alla democrazia che lì sembravano aprirsi in seguito alla crisi del moderatismo toscano e alla formazione del ministero Montanelli-Guerrazzi del 27 ottobre; e anche nella capitale del granducato il C., che si andava sempre più allontanando dal Mazzini (criticato anche per iniziative insurrezionali giudicate mal preparate e condannate in anticipo all’insuccesso, come il tentativo della Valle d’Intelvi) e che aveva accolto con grande favore la parola d’ordine della Costituente popolare italiana lanciata da G. Montanelli, si inserì attivamente nella vita dei gruppi democratici locali più avanzati che facevano capo al Circolo del popolo. Il precipitare della situazione nello Stato pontificio (assassinio di P. Rossi, formazione del ministero Mamiani-Sterbini e successiva fuga di Pio IX a Gaeta) lo indusse ai primi di dicembre a recarsi a Roma; e qui assunse presto una funzione direttiva nel gruppo dei democratici avanzati che si opponevano alle tendenze, prevalenti in seno al governo, favorevoli alla ricerca di una conciliazione con il papa, adoperandosi per l’immediata proclamazione della repubblica a Roma, premessa per la convocazione di una Costituente italiana (obiettivo che, scriveva al Cattaneo il 15 dicembre, gli pareva il più intelligibile dalle masse, perché “comprende l’idea di molta libertà, e nel tempo stesso presenta gli estremi d’una perfetta moralità”).
Eletto deputato alla Costituente romana nelle elezioni suppletive del 21 febbr. 1849, quando la Repubblica romana era già stata proclamata, il C. fu uno dei deputati più attivi nell’Assemblea, nella quale emerse presto per la vivacità e la concretezza degli interventi. Nel periodo precedente l’arrivo del corpo di spedizione francese a Civitavecchia (24 aprile) egli, oltre a prendere la parola su problemi specifici di carattere finanziario (1, 6 e 31 marzo) o giudiziario (31 marzo e 5 aprile), delineò anche chiaramente i suoi orientamenti sulle questioni politiche centrali del momento. Manifestò così la sua opposizione a una affrettata fusione tra la Repubblica romana e la Toscana, distinguendosi con ciò nettamente dal Mazzini (3 marzo; ma già prima, il 12 febbraio, aveva scritto al Cattaneo che quella fusione era pericolosa, perché “due paesi non si fondono con una parola, e invece di fusione si avrebbe confusione”, e che sarebbe stato necessario cacciare i re e lo straniero prima di poter “ordinare la geografia politica come crederemo”); e affermò inoltre la necessità di non accelerare i tempi della ripresa del conflitto con l’Austria per evitare il rischio di avere di nuovo una guerra “realista”, albertista, non nazionale, e intrapresa per di più in condizioni sfavorevoli (1º marzo). Dopo lo sbarco dei Francesi, pur nutrendo la speranza che l’intervento potesse essere stato concepito in prevalente funzione antiaustriaca o che questo carattere potesse assumere nel caso di una ripresa dei democratici francesi, il C. invitò risolutamente dalla tribuna a prepararsi a una difesa a oltranza qualora le truppe dell’Oudinot avessero assunto un atteggiamento offensivo (25 e 26 aprile). E a questa linea – che all’esigenza della più decisa resistenza all’aggressione univa la consapevolezza dell’opportunità di tentare tutte le vie per evitare una rottura irreparabile con la Francia – rimase fedele anche dopo il vittorioso scontro del 30 aprile sotto le mura di Roma; così, mentre da una parte fu uno dei protagonisti della difesa repubblicana alla testa della Commissione delle barricate (che era stato chiamato a dirigere il 29 aprile), fu anche membro della commissione per le trattative con la Francia nominati il 17 maggio e compì infine, nella notte tra l’11 e il 12 giugno, un infruttuoso sondaggio nel campo francese.
Nella Costituente il C., che il 3 marzo era stato chiamato a far parte della commissione incaricata di elaborare la costituzione, intervenne anche nel dibattito istituzionale, affermando l’opportunità di una legge fondamentale e snella, che concedesse lo spazio più largo all’espressione diretta della sovrana volontà popolare e facesse a meno di organi che avrebbero complicato il funzionamento della macchina statale come il tribunato e il consolato (che fu invece accolto con il compito di nominare i ministri nella costituzione proclamata il 3 luglio; sedute del 26 maggio e 18 giugno).
Divenuta ormai impossibile una resistenza valida in seguito ai progressi fatti dai Francesi dopo l’attacco del 22 giugno, il 30 giugno il C. propose e fece approvare dalla Costituente una mozione nella quale l’Assemblea dichiarava che poneva termine a una difesa fattasi disperata e rimaneva al suo posto, in contrasto col Mazzini il quale invece avrebbe voluto che l’Assemblea, il Triumvirato e le truppe romane lasciassero insieme la città per tentare una ripresa della lotta contro gli Austriaci in Romagna.
Dopo la fine della resistenza e la dissoluzione della Costituente ad opera di reparti francesi il C. restò per alcuni giorni a Roma (e qui il pomeriggio del 3 luglio capeggiò una manifestazione di ostilità contro le truppe dell’Oudinot che sfilavano per il Corso) e si recò poi il 6 luglio a Civitavecchia, con l’intenzione di lasciare lo Stato romano; a Civitavecchia fu però fatto arrestare dalle autorità di occupazione e trasferito dopo alcuni mesi (21 dicembre) nelle prigioni di Castel Sant’Angelo in Roma. Accusato di danneggiamento della sede dell’Accademia francese in Roma e di palazzo Farnese, e di oltraggio all’esercito francese, e giudicato il 23-24 genn. 1850 dal Consiglio di guerra, delle forze occupanti, di fronte al quale pronunciò un’abile autodifesa, il C. fa prosciolto dalle accuse dai giudici di primo grado, con una sentenza che il 3 luglio venne confermata nel processo di secondo grado. Riacquistata così la libertà (e all’esito fortunato della vicenda non furono estranee le pressioni di Hortense Cornu Lacroix, sorella di latte di Luigi Napoleone, alla quale il C. restò poi a lungo legato sentimentalmente), il 1º agosto partì da Civitavecchia per la Francia, dove fu dapprima internato a Bourges, che poté però lasciare intorno al 20 settembre per fissare la propria residenza a Parigi.
Nell’anno trascorso nella prigionia il C., riflettendo sulle esperienze del ’48-49, leggendo gli scritti politici che gli pervenivano in carcere e discutendo per lettera con i suoi amici e maestri Cattaneo e Ferrari, rafforzò le sue convinzioni federalistiche e fece in larga misura proprie le vedute del Ferrari. Anche il C. individuava infatti nel Papato uno degli ostacoli più grandi sul cammino della rivoluzione e indicava nella sua distruzione il compito principale dei rivoluzionari. Anzi, cercando di cogliere nel male presente una preparazione del bene avvenire, egli pensava che proprio il fallimento del ’48 e l’intervento controrivoluzionario dei Francesi a Roma, dissipando gli equivoci e chiarendo le posizioni di principio, avessero inferto un colpo decisivo al Papato; e da questo punto di vista, differenziandosi così dal Ferrari, non rimpiangeva il mancato intervento della Francia repubblicana negli avvenimenti italiani del ’48 (lettera al Ferrari del 25 ag. 1850). Assai pungenti erano poi le critiche che indirizzava al Mazzini. “Dal Papa al Concilio, ha detto Mazzini – scriveva nella stessa lettera attaccando le tendenze mistico-religiose di questo – ed ha detto una grande sciocchezza. Il Concilio sarebbe la restaurazione del cattolicismo”. E sempre in tema di istanze critiche antimazziniane il C., che annunciava da Bourges al Ferrari il suo proposito di dedicarsi in Parigi allo studio dei problemi del quarto stato e delle questioni sociali (16 sett. 1850), che in Parigi non sarebbe rimasto insensibile alle teorie mutualiste e antiautoritarie del Proudhon, e che di lì a un anno avrebbe fatto una esplicita dichiarazione di fede democratico-socialista (lettera al Ferrari del 20 ag. 1851), era preparato ad accogliere l’articolata critica al “formalismo” mazziniano e l’affermazione dell’opportunità di una stretta saldatura tra rivoluzione italiana e rivoluzione socialista francese che il Ferrari gli avrebbe partecipato a Parigi, prima di consegnarle alla pubblica discussione nello scritto La federazione republicana.
Dato il corso preso dalle sue idee, il C. fece cadere nel vuoto gli inviti alla collaborazione rivoltigli dal Mazzini; si era ormai fermamente convinto – e il manifesto mazziniano dell’8 sett. 1850 rafforzò la sua convinzione – che l’ala federalista della democrazia italiana dovesse rompere apertamente col Mazzini e contrapporre al mazzinianesimo il programma di un sia pur embrionale schieramento democratico-socialista e federale: “Non si parla di papa – si legge in una lettera al Cattaneo del 23 ott. 1850 nella quale veniva appunto attaccato il documento mazziniano dell’8 settembre – non di cattolicismo, non di francesi, non di socialismo. La parola Repubblica vi è studiosamente, religiosamente evitata”. E in questo quadro si collocano la sua adesione e collaborazione al Comitato democratico francese-spagnolo-italiano, fondato per iniziativa del Lamennais e del Montanelli e il cui manifesto programmatico (17 ag. 1851), nell’avanzare una professione di fede repubblicano-socialista, sosteneva l’esigenza che la rivoluzione democratica risolvesse contemporaneamente la questione politica e quella sociale. Nella sezione del documento dedicata all’Italia, alla quale apportò ritocchi finali lo stesso C., in scoperta polemica col Mazzini e il suo Comitato nazionale, era anzitutto esplicitamente avanzata la pregiudiziale repubblicana, mentre subito dopo si negava a chiunque, “partito o frazione di partito”, il diritto di atteggiarsi a mandatario della nazione italiana e di parlare in suo nome prima della formazione di una sua legittima rappresentanza; e sempre con riferimento antagonistico alla tesi mazziniana dell’iniziativa italiana si ribadiva la necessità di collegare la rivoluzione italiana alla rivoluzione francese, nella quale si scorgeva “il principio generatore e motore della rivoluzione europea, politica e sociale ad un tempo”.
Il colpo di Stato di Luigi Napoleone, vanificando la prospettiva di una imminente ripresa del movimento democratico italiano collegata a un rinnovato slancio rivoluzionario francese, indusse il C. a rinunciare alla politica militante e a dedicarsi essenzialmente alle attività di lavoro e di studio. Ottenuto nel 1852 un impiego presso il Crédit mobilier, riuscì presto a distinguersi per il pratico realismo e l’intuito finanziario, che gli permisero una rapida e fortunata carriera nell’istituto, del quale divenne dopo qualche anno consigliere d’amministrazione. Lasciato il Crédit all’inizio del 1859, il C. avviò una singolare iniziativa imprenditoriale nel settore del commercio delle carni; influenzato dalle dottrine cooperativistiche aprì infatti, grazie a un cospicuo capitale fornitogli da un finanziatore italiano (probabilmente Filippo Ala Ponzoni), tre macellerie in Parigi, i cui eventuali utili avrebbero dovuto essere ripartiti mensilmente tra l’impresa e gli acquirenti, in proporzione degli acquisti. L’intrapresa, dopo un iniziale successo, finì però con il rivelarsi passiva, e dopo tre anni dovette essere posta in liquidazione, con una perdita di 100.000 franchi. Questa deludente esperienza gli diede l’occasione per una riflessione più generale sulla teoria e sulla pratica della cooperazione, della quale di lì a poco giunse a formulare una valutazione completamente negativa che è chiaro documento dell’ormai avvenuto ripudio delle simpatie filosocialiste degli anni immediatamente successivi al ’48 e dell’adesione alle posizioni del liberismo economico classico. I motivi di fondo di questo atteggiamento critico furono esposti dal C. nelle risposte da lui date nel dicembre 1865 a un’inchiesta governativa francese sulle società cooperative (poi raccolte nel volumetto Illusions dessociétés coopératives, Paris 1866), risposte nelle quali sottolineò quelli che gli apparivano i difetti e i limiti di fondo delle cooperative di consumo, di produzione e di credito: e cioè l’elevato livello delle spese generali, l’alto margine di rischio, la macchinosità e il costo delle operazioni contabili, la frequenza dei contrasti tra i soci.
Proprio mentre era impegnato nella liquidazione della sua impresa commerciale, un aspro giudizio critico sul suo comportamento nel 1859 formulato in Parlamento dal Cavour il 29 maggio 1861 (il C. – questa l’affermazione del Cavour – non aveva creduto opportuno lasciare il suo “impiego molto lucroso” per “offrire la sua spada nell’esercito regolare od irregolare”) provocò un suo momentaneo rientro nel dibattito politico italiano. Nella Risposta alla accusafattami dal sig.r ministroCavour (datata 29 giugno 1861: Milano 1861; altra edizione, Paris 1861; trad. franc., Réponse à une accusation portéepar M. de Cavour, Paris 1861) egli giustificava infatti la sua “inazione” durante la guerra d’indipendenza con il radicale dissenso nei confronti della politica egemonica e di “fusione” sviluppata dalla monarchia piemontese a partire dal 1848, che aveva portato alla realizzazione di una unità artificiosa, fondata sulla forza e sulla conquista e resa possibile soltanto dalla piena subordinazione a Napoleone III. All’unitarismo sabaudo contrapponeva la sua antica fede federalistica e repubblicana, perché a suo avviso l’avvenire dell’Italia poteva poggiare soltanto su un assetto federale, rispettoso delle autonomie, delle consuetudini e dei sentimenti locali, stimolatore di feconde emulazioni e suscitatore di libere, spontanee energie.
L’insuccesso dell’attività commerciale tentata fra il 1859 e il 1861 fu soltanto una breve parentesi nella fortunata carriera del C. nel mondo degli affari. Ormai introdotto nel giro della finanza francese egli condusse infatti in porto, nel clima speculativo che caratterizzò l’ultimo decennio del Secondo Impero, una serie di fruttuose operazioni bancarie e borsistiche (come la fondazione, nel 1869, della Banque de Paris) che nel giro di alcuni anni ne fecero uno dei più affermati e ricchi uomini d’affari della Francia. All’attività finanziaria affiancò poi lo studio teorico dell’economia politica, il cui frutto più significativo fu la pubblicazione della Mécanique de l’échange (Paris 1865; ediz. ital.: Meccanica degli scambi, Milano 1871). L’opera, una limpida ma scolastica analisi della circolazione monetaria condotta sui moduli della scuola classica e fondata sul riconoscimento dell’esistenza di libere leggi del mercato che sarebbe vano contrastare, e sull’affermazione che l’oro e l’argento in quanto merce particolare hanno un valore eguale a quello che possiedono come monete, è interessante anche per le punte polemiche indirizzate contro il comunismo e contro le teorie proudhoniane. Toccando il tema delle “comunità di lavoro”, lo scritto sosteneva infatti che l'”abdicazione della persona” nel loro seno era un sacrificio troppo grande e per di più destinato all’insuccesso; mentre in chiara contrapposizione con la tesi del “credito gratuito” o a buon mercato del Proudhon affermava che sopprimere l’interesse voleva dire “sopprimere la differenza di valore tra ciò che esiste e ciò che sarà”, e decretare quindi che “il raccolto da fare vale fin da ora tanto quanto il raccolto già fatto”.
Nella fase finale del Secondo Impero il C. manifestò un più diretto impegno nella politica attiva francese. Avversario convinto di Napoleone III e del suo regime, appoggiò così l’azione dei repubblicani moderati e antisocialisti, fornendo loro il supporto del quotidiano parigino Le Siècle (di cui era divenuto uno dei principali azionisti e nella cui redazione lavorava uno dei suoi amici più fedeli, Gustave Chaudey), riuscito particolarmente prezioso in occasione delle elezioni generali del maggio 1869, e versando poi il 2 maggio 1870 la somma di 100.000 franchi (presto raddoppiata) al Comitato della sinistra democratica che combatteva il plebiscito indetto dal governo imperiale.
Colpito il 30 apr. 1870 da un provvedimento di espulsione perché, sebbene ancora suddito italiano, si era adoperato per “cambiare la forma del governo” del paese che lo ospitava, si recò a Ginevra, da dove ripartì, appena ricevuta la notizia della caduta di Napoleone III, alla volta di Parigi per assistere il 4 sett. 1870 all’Hótel de Ville alla proclamazione della repubblica. Membro della commissione delle sussistenze durante l’assedio di Parigi, naturalizzato cittadino francese il 31 genn. 1871, nei giorni della Comune, dopo avere inizialmente sostenuto sul Siècle la necessità di una riconciliazione tra Parigi e il governo di Versailles, si tenne successivamente in disparte poiché disapprovava gli orientamenti radicali e socialisti assunti dal governo comunardo.
Subito dopo la caduta della Comune il C., profondamente addolorato per la morte dello Chaudey (fucilato il 13 maggio per ordine del comunardo Raoul Rigault), intraprese un lungo viaggio che lo portò successivamente in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Giappone, in Cina, in Mongolia, a Giava, in India e in Egitto; e nel corso di questa peregrinazione effettuò una serie di importanti acquisti di oggetti artistici cinesi e giapponesi che costituirono il nucleo iniziale del futuro Musée Cernuschi di Parigi.
Tornato in Francia nella primavera del 1873, pur rifiutando – come scriveva l’11 maggio a Tullio Martello – di “consacrarsi alla carriera politica” e pur avendo ceduto nel 1879 la sua partecipazione azionaria nel Siècle (cessione dalla quale ricavò un terzo soltanto dei 600.000 franchi a suo tempo versati), continuò a seguire da vicino la politica francese, come testimoniano i finanziamenti volti ad appoggiare nelle elezioni politiche candidati di orientamento repubblicano-parlamentare a lui graditi (100.000 franchi nel 1873 a sostegno di Paul de Rémusat; la stessa somma nel 1877 per la candidatura di Anatole de La Forge; e ancora 100.000 franchi nel 1889 a favore del candidato repubblicano contrapposto al generale Boulanger nel dipartimento della Senna).
Ostile alla Triplice Alleanza e a Crispi, il C. compì un intervento diretto nella politica italiana in occasione delle elezioni del novembre 1890, quando versò 100.000 lire come contributo alle spese della campagna elettorale della democrazia cavallottiana, che si batteva contro la Triplice e auspicava un riavvicinamento dell’Italia alla Francia. Ma l’episodio restò isolato e le sue simpatie per il radicalismo furono di breve durata, perché al suo ostinato repubblicanismo non tornavano graditi gli atteggiamenti possibilisti nei confronti della monarchia di Cavallotti e del suo partito.
Dal 1873 in poi al centro degli interessi del C. si posero comunque i problemi economico-monetari, e soprattutto la questione del bimetallismo. Il deprezzamento dell’argento nei confronti dell’oro verificatosi a partire dal 1870 in seguito allo afflusso della produzione delle miniere di argento del Nevada aveva infatti indotto gli Stati bimetallisti (Belgio, Francia, Grecia, Italia, Spagna, Svizzera) a prendere dapprima la strada del bimetallismo imperfetto (a limitare cioè la coniazione delle monete di metallo bianco), e poi a convertirsi al monometallismo aureo: processo che non fu frenato dalle conferenze monetarie internazionali del 1878, 1881 e 1892 riunite per cercare di arrivare a concordare tra i vari paesi una correlazione fissa e stabile tra oro e argento. Il C., risolutamente contrario alla circolazione fiduciaria (contro la quale aveva preso posizione già nel 1866 con lo scritto Contre le billet de banque. Déposition [davanti al Conseil supérieur de l’agricolture, du commerce et des travaux publics] et notes (Paris) e convinto fautore del bimetallismo, non appena tornato dal viaggio in Oriente si impegnò così in una vana difesa della stabilità del rapporto tra metallo giallo e metallo bianco, che a suo avviso avrebbe dovuto fissarsi nella misura del 15½: difesa che si sviluppò per l’arco di venticinque anni, con toni esasperati e in forma ripetitiva, attraverso una lunga serie di scritti polemici e di interventi nelle discussioni delle conferenze monetarie.
Passò gli ultimi anni della sua vita alternando la residenza tra Parigi e Mentone, dove morì l’11 maggio 1896.(fonte)
[3] Francesco Zannoni. (1821-1901), “Cospiratore faentino, [Francesco Zannoni], fu alla difesa di Roma nel 1849, poi riparò negli Stati Sardi, e giunse alla Spezia nel 1852. Divenne l’anima del movimento mazziniano spezzino, presso il quale convenivano agenti da Genova e da Firenze, e che espletava un’azione clandestina di propaganda […] Il 23 maggio 1869 fu tra i fondatori di una società intesa a collocarsi a sinistra della Società di Mutuo Soccorso- Fratellanza Artigiana, e chiamata “Universale associazione cooperativa fra gli operai per istruzione e soccorso in Spezia”. Essa entrò in contatto diretto con Giuseppe Mazzini, e alla fine di quel medesimo anno progettò un nuovo moto insurrezionale che sarebbe dovuto partire dalla Spezia, e al quale il Mazzini stesso dette il via il 20 maggio 1870. Il moto fallì per malintesi e sospetti reciproci”
Da “Landi Aldo, Enciclopedia storica della città della Spezia. La Spezia: Accademia lunigianese di scienze Giovanni Capellini, 2008, ad vocem.”(fonte)