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Al Cittadino Ministro della Guerra. Rapporto. 1849

    Al Cittadino Ministro della Guerra. Rapporto, 4 Maggio 1849
    Al Cittadino Ministro della Guerra. Rapporto, 4 Maggio 1849
    « di 2 »

    Al Cittadino Ministro della Guerra[1]
    Rapporto
    di 4 Maggio . Ore 2 . pomeridiane

    A Porta S. Sebastiano i lavori prima
    di sera spero che saranno ultimati,
    come quelli bellissimi di Porta S. Giovan=
    ni, ma a Porta Maggiore tutto quello
    che io avevo ordinato al Ten.te Bellardi=
    ni[2], a senso del mio rapporto di ieri sera,
    non si è fatto nulla, talché se in giorn=
    nata per disgrazia fossimo stati assaliti,
    la porta si sarebbe facilmente sfondata.
    Ho pertanto rinnovato gli ordini al
    Ten.te Montanari[3], il quale dopo qualche
    opposizione a voluto l’ordine in
    iscritto. Vò sperare che il medesimo
    obbedirà, ma se il lavoro non è ultima=
    to prima di sera, io mi cavo fuori da ogni
    responsabilità.

    1. Calandrelli  U. Colonnello[4]

    retro

    riservata
    Al Cittadino
    Ministro della Guerra


    Note

    [1] Giuseppe Avezzana. Nacque il 19 febbr. 1797 a Chieri (Torino), da Lorenzo e Caterina Molino, e nel 1812 si trasferì con la famiglia a Torino, dove il padre aveva avviato un’attività commerciale. Sebbene per educazione e tradizioni familiari fosse devoto a casa Savoia, preso d’entusiasmo per le imprese napoleoniche, poco più che quindicenne, si arruolò fra gli Ussari ed entrò il 15 giugno 1812come volontario nel IV reggimento della Guardia d’onore imperiale dell’esercito francese con destinazione Strasburgo. Nel dicembre dell’anno successivo la precipitosa ritirata delle forze imperiali portò l’A. in Lorena, dove riportò la frattura di una gamba, trovandosi costretto a riparare prima a Nancy e successivamente a Milano.

    Nel 1815 l’A. ritornava a Torino dove il padre gli procurò un posto nell’esercito piemontese col grado di luogotenente. Ma l’indole irrequieta dell’A. e la sua insofferenza alla reazione sabauda lo portarono ad aderire al mondo cospiratorio.

    Allo scoppio dei moti, l’11 marzo 1821, l’A., che si trovava in congedo a Torino, raggiunse gli insorti e, divenutone uno dei principali agitatori, riuscì a raccogliere tra studenti ed amici un valido gruppo che, sotto la sua guida, contribuì a tenere in scacco le milizie regie nei pressi di S. Salvario. Costretto alfine a ripiegare, egli si diresse dapprima a Chieri e quindi ad Alessandria, mentre Carlo Alberto assumeva la reggenza del regno. Raccolti volontari veneti e lombardi dell’università di Pavia, l’A. tornava a Torino, dava il nome di “Veliti italiani” al suo manipolo e veniva nominato capitano dal Santarosa (4 aprile). Ma la reazione annientò il movimento e l’A. fu costretto a imbarcarsi a Genova su una nave diretta in Spagna, poco prima che venisse pronunciata la sua condanna a morte dal tribunale di Torino.

    Sbarcato a Barcellona, prese parte anche qui con i suoi uomini alla lotta tra le forze costituzionali del col. Riego e quelle conservatrici. Dopo l’invasione della Spagna da parte dell’esercito francese condotto dal duca d’Angoulême, fu costretto alla resa presso Cartagena: posto nell’alternativa di restare prigioniero o abbandonare la Spagna, preferì ancora una volta prendere il mare, diretto verso il nuovo mondo. Sulla fine del ’23 si stabilì infatti a New Orleans, dove intraprese una proficua attività commerciale. Ma se gli affari prosperavano procurandogli in breve una apprezzabile agiatezza, il suo spirito intemperante non resse alla prova. Tre anni dopo perciò si trasferì nel Messico, a Pueblo Viejo.

    Qui, saputo di un progetto governativo mirante a creare una città e un porto sulla sinistra del Pánuco, l’A. si diede con entusiasmo all’insolita avventura, contribuendo efficacemente a costruire il nuovo centro (Tampico), che nel giro di alcuni anni contava quattromila abitanti. Nel ’29 l’A. ne organizzò la difesa contro l’esercito spagnolo, che, agli ordini del gen. G. Barradas, tentava la riconquista del Messico e riuscì a tenere in scacco gli avversari sino all’arrivo delle truppe regolari, riedificando quindi la città che era stata gravemente danneggiata nella lotta.

    Dopo la eliminazione del presidente messicano V. Guerrero, ordita con l’inganno dal vice presidente A. Bustamante, l’A. riprese ancora le armi sconfiggendo l’esercito dell’usurpatore a Ciudad Victoria (7 ag. 1832) e poi a San Luis de Potosí, imprese, queste, che gli valsero il comando generale dei Quattro Stati d’Oriente della Repubblica messicana.

    Nel maggio del ’34 si chiudeva la lunga parentesi messicana e se ne apriva un’altra più densa di attività e rapporti. L’A., recatosi a New York, avuta la notizia di nuovi rivolgimenti nel Messico, si stabilì in quella città, dove aprì una casa di commissioni. A New York l’A. fu accolto nei salotti aperti all’intellettualità romantica e avventuriera della giovane colonia, soprattutto in quello dei ricchi irlandesi Morrogh. Innamoratosi dell’avvenente Maria Morrogh, la sposò ed ebbe da lei sei figli. Morta nel 1850 Maria in un incidente, due anni dopo l’A. sposò la sorella di lei, Fanny, dalla quale ebbe altre due figlie; dopo la nascita della seconda rimase nuovamente vedovo.

    Ai primi sintomi di rivolta del ’48 non esitò ad imbarcarsi per l’Italia, ove giunse solo il 29 agosto, dopo l’armistizio Salasco. Da questo momento l’A. cercò di farsi accettare nell’esercito piemontese, e il 24 febbr. 1849 fu infatti nominato comandante generale della guardia nazionale di Genova, dopo esserne stato dal 19 gennaio il capo di Stato maggiore.

    Nella città ligure l’A. fu uno dei maggiori protagonisti del moto insurrezionale avvenuto tra la fine di marzo e i primi d’aprile in seguito alla voce che, perduta la guerra, in vigore delle clausole armistiziali i forti intorno alla città sarebbero stati affidati all’occupazione austriaca. L’A., adoperatosi dapprima, il 27 marzo, a calmare la folla eccitata raccoltasi al palazzo comunale, si faceva poi interprete della volontà popolare che, alla notizia che il comandante del presidio gen. De Asarta aveva sollecitato l’arrivo della divisione del gen. Alfonso La Marmora, invocava l’armamento della guardia nazionale e la sua partecipazione alla occupazione dei forti. Mentre il 28 la calma sembrava tornata con la consegna di due forti minori alla guardia nazionale, il giorno seguente riprendeva l’eccitazione in seguito alla formazione del ministero De Launay-Pinelli e al ritorno dei deputati dalle sedute agitate del parlamento. Tradizioni municipali, fermenti antimoderati e antipiemontesi, aspirazioni repubblicane confluivano ad accendere la speranza di fare di Genova il punto di raccoglimento delle forze democratiche e delle opposizioni all’armistizio. Il consiglio comunale si costituiva il 29 in comitato di pubblica sicurezza, sia pure con intenti di moderazione: l’A. e il sindaco A. Profumo invitavano la guardia nazionale alla calma, ma la sera stessa si decideva la distribuzione di armi agli scaricatori del porto, mentre il giorno seguente il gen. De Asarta concentrava il presidio nell’arsenale. L’A., insospettito da questo atto e insoddisfatto della moderazione del consiglio comunale, chiedeva che si procrastinasse l’arrivo della divisione La Marmora. Il 31 la cattura del comandante di un battaglione di presidio al palazzo ducale da parte di un gruppo di dimostranti faceva precipitare la situazione: un triumvirato, designato dal popolo e composto dell’A., del deputato C. Reta e dell’avv. D. Morchio, si poneva alla testa del movimento. In realtà, il Reta e l’A. sembravano desiderosi di contenere la massa, ma il 1º aprile si dovevano concedere ai rivoltosi le armi dell’arsenale marittimo e nel pomeriggio lo stesso A. si poneva alla testa dei dimostranti avviatisi verso la sede del presidio. Quivi la massa non poté essere trattenuta, i soldati reagirono a fuoco: 23 le vittime tra la folla e 5 tra i militari (e fra essi il col. Morozzo della Rocca, fratello del ministro della Guerra). Il mattino seguente il gen. De Asarta, ritenendo difficile opporsi alla folla anche per le defezioni tra i soldati, si accordava con i capi del movimento per l’uscita delle truppe dalla città, impegnandosi ad interporre buoni uffici per evitare l’afflusso di altre truppe su Genova.

    Evacuato il presidio, il triumvirato si costituiva in governo provvisorio, chiedeva l’aiuto della divisione lombarda reduce dalla guerra, apriva (con scarso esito) arruolamenti di volontari e invitava il La Marmora, nominato frattanto dal governo commissario straordinario per la città di Genova, a sospendere la sua marcia. Questi però il 4 aprile, ormai alle porte della città, intimava la resa, ricevendo un rifiuto da parte dell’A., mentre all’interno del movimento cominciavano i primi contrasti. Il 5 le truppe regolari, rinforzate da altri arrivi, occupavano alcuni forti e iniziavano a penetrare in città: il Reta e l’A. restavano fermi nella difesa ad oltranza mentre il municipio cercava la via dell’accordo attraverso il corpo consolare. Dopo il bombardamento del 5 sera e della notte, il municipio tramite il commodoro inglese lord Hardwick trattava la capitolazione ed otteneva una tregua, esonerando l’A. dalle sue funzioni. Questi però incitava ancora la popolazione alla resistenza, cercava di sistemare la difesa e sperava nell’aiuto della divisione lombarda. Il 9 aprile veniva pubblicata dal sindaco la notizia dell’amnistia che il re concedeva ai compromessi, salvo dodici capi fra i quali l’A.: Genova non avrebbe avuto armi straniere alle sue porte, lo Statuto e la guardia nazionale erano garantiti. L’A. rimasto solo all’opposizione protestava col sindaco, rifiutava di firmare la convenzione col La Marmora, si dimetteva da generale e chiedeva che fossero lasciati partire i soldati disertori e i volontari. Il 10 stesso, con altri 450 circa, l’A. si imbarcava su una nave americana, mentre le truppe regolari occupavano la città.

    Sbarcato a Livorno, su un’altra nave americana giungeva a Civitavecchia, e il 18 aprile a Roma con N. Bixio e G. Mameli. Nella stessa notte, ebbe la nomina a ministro della Guerra della Repubblica. Iniziò subito una vasta azione di raccordo per preparare le forze repubblicane in previsione degli scontri futuri, dimostrando doti di organizzatore e coordinatore tempestivo. Tra le sue ultime disposizioni fu quella di nominare Garibaldi generale (23 aprile) e di destinare ai suoi volontari 500 fucili a percussione di recente fabbricazione. La preparazione logistica della difesa di Roma, da lui particolarmente curata, fu elemento determinante per il successo del 30 aprile contro l’attacco dell’Oudinot. Una sua missione ad Ancona nel giugno non giunse ad evitare la caduta della piazza prima del suo arrivo.

    Dopo la fine della Repubblica romana, l’A. ritornò a New York, dove fu accolto calorosamente dalla colonia italiana. Le prime notizie degli avvenimenti del ’60 lo strapparono ancora una volta all’affetto familiare: arrivò infatti a Napoli quando Garibaldi era già a Caserta, ma in tempo per partecipare alla battaglia del Volturno. Qui fu promosso da Garibaldi al grado di tenente generale ed ebbe ancora modo di dare prova di ardimento e capacità direttive.

    Con tale grado nel ’61 entrò nell’esercito regolare prima di andare a riposo. Ma gli avvenimenti del ’66 lo riportarono, a fianco di Garibaldi, al comando della divisione di Salò e della flottiglia del lago di Garda.

    Con il ’61 l’A. entrò nel vivo della lotta politica, facendo parte della Sinistra del parlamento italiano, eletto dal collegio di Montesarchio; nel ’65 rappresentò il I collegio di Napoli, nel ’70 e ’74 quello di Capaccio, nel ’76 Isernia. Intervenne per la prima volta alla Camera sulla questione romana, prendendo poi la parola a favore del progetto di legge relativo al trasferimento della capitale da Firenze a Roma per ammonire che bisognava prevenire il movimento di solidarietà in favore del papa da parte del mondo cattolico. Intervenne pure sul grave problema dell’emigrazione, che portava migliaia di compatrioti nelle terre allora malariche del Brasile e del Venezuela, indicando come causa del fenomeno l’aggravarsi delle tasse sui meno abbienti, il persistere del latifondo incolto, l’apatia dei governi precedenti il ’60.

    Alla fine del ’77 si costituì, con lo scopo di liberare Trento e Trieste, l’Associazione pro Italia Irredenta, e l’A. ne fu il primo presidente.

    Negli ultimi anni di vita, cessata ogni sua attività commerciale nel Nord-America, fu costretto a vivere modestamente con la pensione di ufficiale Si spense a Roma il 25 dic. 1879.(fonte)

    [2] Luigi Bellardini.  Medaglia di Bronzo – Decreto 11 giugno 1859
    «Perché si mostrò degno della riconoscenza di tutti i feriti, sì nostri che nemici (campagna 1859)»
    (Al Corpo Sanitario dei «Cacciatori delle Alpi»).(fonte)

    [3] Francesco Montanari.  Nacque a San Giacomo Roncole, frazione di Mirandola (all’epoca territorio del Ducato di Modena), il 22 genn. 1822 da Luigi e da Maria Ruosi.

    Proveniente da una famiglia non facoltosa e rimasto orfano del padre in tenera età, il M. frequentò a Mirandola dapprima il ginnasio e, successivamente, un corso biennale di filosofia presso i gesuiti. Alla fine degli anni Trenta entrò nella Scuola ducale dei Pionieri militari di Modena (scuola d’artiglieria e genio, risalente al periodo napoleonico, corrispondente all’odierna Accademia militare) dalla quale uscì con la qualifica di ingegnere e il grado di sottotenente del genio. Fra il 1845 e il 1846 il M. prese parte ai lavori di costruzione del ponte Alto sul fiume Secchia (ancor oggi esistente), non lontano dall’abitato di Sassuolo.

    Nell’aprile 1848 il M. entrò con il grado di tenente del genio nel corpo franco modenese (chiamato anche colonna mobile), formazione con cui il governo provvisorio di Modena, costituitosi dopo la partenza del duca Francesco V il 21 marzo 1848, prese parte alla guerra contro l’Austria al fianco dell’esercito del Regno di Sardegna.

    Posto al comando di una compagnia, il M. non partecipò nel periodo seguente a episodi bellici di particolare rilievo, svolgendo solamente limitate operazioni nella zona del basso Mantovano. Per contro, fu tra i protagonisti nel giugno 1848 di una infuocata dimostrazione, avvenuta nelle strade di Modena, contro l’annessione dei territori del Ducato al Piemonte, al punto da meritarsi una severissima rampogna da parte di G. Parenti, presidente del Municipio di Modena, che, in data 19 giugno 1848, gli intimò di condurre senza ulteriore indugio i propri uomini a San Benedetto Po, agli ordini del comandante G. Castelli. Le missive indirizzate dal M. alla madre, nelle quali venivano denunciate tra l’altro le miserevoli condizioni di vita dei volontari, costituiscono testimonianza pregnante di quel concitato frangente. Dopo la battaglia di Custoza (27 luglio 1848), il M. accettò l’inquadramento con il grado di capitano nell’esercito piemontese, lavorando alle opere di fortificazione della piazzaforte di Alessandria (agosto-settembre 1848). Non resistendo a lungo in questa sistemazione, si recò nella Sicilia in lotta contro i Borbone: da Palermo, il 18 nov. 1848, scriveva allo zio don Pietro Montanari di aver lasciato «la divisa di Carlo Alberto perché son d’avviso che mal si convenga ad un animo libero ad un vero Italiano e quindi mi son portato in Sicilia ove la divisa non è quella di uno scellerato tiranno ma bensì di un governo libero di un regno indipendente» (Sabattini, p. 30).

    Non durò molto neanche in questo incarico: il 7 genn. 1849 era già a Firenze dove, rifiutato un posto nel genio «perché non voglio servire Principi la di cui fama è in faccia a tutta l’Italia obbrobriosa», decideva di portarsi «a Roma un giorno capitale del Mondo ed ora capitale sarà di tutta Italia libera, indipendente, democratica e Repubblicana» (ibid., pp. 30 s.). A Roma visse l’intera campagna militare contro il corpo di spedizione francese guidato dal generale N.C.V. Oudinot (aprile-luglio 1849). In particolare, si mise in bella evidenza nel vittorioso scontro di Porta S. Pancrazio (30 apr. 1849), guadagnandosi la nomina a capitano e, soprattutto, la stima e la considerazione di G. Garibaldi. Caduta la Repubblica, seguì Garibaldi nella ritirata attraverso le Marche e la Romagna: sfumata la possibilità di raggiungere Venezia, accerchiata dagli Austriaci, il drappello si sciolse alle Mandriole. Messosi in mare su una piccola barca da pesca con l’intento di raggiungere l’Ungheria, il M. fu catturato da una nave da guerra austriaca e, dopo sei mesi di detenzione (scontati a Venezia e a Capodistria), tornò a Mirandola, dove riprese gli studi di ingegneria militare sotto la guida dell’ingegnere modenese C. Costa.

    Nel 1851 il M., noto a parecchi patrioti mantovani che avevano combattuto con lui a Roma, ricevette dal Comitato mazziniano di Mantova, animato da don E. Tazzoli, l’incarico di compiere una ricognizione delle fortezze di Mantova e Verona, in vista di un possibile scoppio rivoluzionario: giunto a Mantova nel giugno 1851, ospite di G. Borella, il M. conobbe L. Castellazzo e G. Acerbi ai quali diede una disponibilità di massima ad assumere il comando delle operazioni militari in caso di sommossa. L’esplorazione della fortezza di Mantova fu però del tutto insufficiente, non comprendendo neppure la ricognizione dei forti di Pietole e Cittadella. Recatosi poi a Verona, poté svolgere (coadiuvato da G. Nuvolari e G. Faccioli) solamente un esame esterno dell’omonima fortezza. Successivamente s’intrattenne a Revere con Tazzoli, al quale espresse forti perplessità sulla riuscita di un eventuale colpo di mano, ancorché parziale, sulle fortezze del Quadrilatero.

    Numerosi e circostanziati riferimenti alla missione svolta dal M. nell’estate del 1851 furono fatti nel giugno dell’anno successivo da L. Castellazzo nella piena confessione resa alla Corte marziale austriaca presieduta dal barone A. von Kraus: il 7 luglio 1852 il M. fu quindi consegnato dalle autorità estensi a quelle del Regno Lombardo-Veneto. Interrogato più volte fra il 10 e il 14 sett. 1852, il M. descrisse il ruolo svolto nella cospirazione, cercando per quanto possibile di non coinvolgere altri componenti del Comitato mantovano. Chiuse poi il proprio costituto affermando «essere stata sempre mio desiderio la emancipazione degli stati Italiani dal Governo Austriaco, l’indipendenza e l’unità di tutta Italia, ed esserlo anche presentemente, senza pensare a forma alcuna di governo né alla dedizione al Piemonte da me sempre avversata, spettando alla Nazione unita, emancipata e libera l’erigersi sotto quella forma di Governo che le fosse più opportuna e conveniente» (Luzio, p. 231).

    Detenuto per alcuni mesi nel mantovano castello di S. Giorgio, il M. fu infine riconsegnato il 9 marzo 1853 al governo estense, il quale istruì immediatamente un processo a suo carico in forza di un editto del duca Francesco V secondo cui «chi si fosse reso responsabile di lesa maestà e di offesa dei pubblici funzionari verso uno Stato estero ed amico sarebbe giudicato in un’unica istanza da una Commissione militare» (De Castro, p. 481). Assolto nell’estate del 1853, il M. dovette però comparire dinanzi a una nuova commissione (presieduta dall’ufficiale austriaco F. Kainradh), convocata con apposito rescritto dal duca Francesco V, forte peraltro del parere espresso nell’agosto 1853 dal barone austriaco K. von Culoz (già presidente della commissione militare giudicante i congiurati mantovani) sulla inapplicabilità al M. dell’amnistia nel frattempo concessa dall’imperatore Francesco Giuseppe. Pur ottimamente difeso dal cugino Antonio Montanari, il M., giudicato reo di lesa maestà, fu condannato nell’ottobre 1853 alla pena del carcere a vita (immediatamente commutata in dodici anni di reclusione) in conformità con la convenzione del 1764 fra l’Impero austriaco e il Ducato di Modena, secondo la quale ciascuno si obbligava a punire i propri sudditi per i delitti altrove commessi in pregiudizio dell’altro Stato contraente. Detenuto dal novembre 1853 nel forte di Rubiera, il M. fu trasferito nell’ergastolo di Modena, per espresso volere del duca, allorquando una violenta epidemia di colera (settembre 1855) fece temere un allentamento della sorveglianza. Nel febbraio 1856, grazie all’intercessione della nobildonna modenese Maria Teresa Malmusi, la pena residua del M. fu commutata nell’esilio perpetuo. Peraltro, già nel 1854 Francesco V, ricevuta dalla madre del M. la richiesta di grazia, aveva disposto che, in cambio di un atto di piena sottomissione, gli fosse resa la libertà e assegnata la cattedra di calcolo differenziale e integrale presso l’Università di Modena. Tuttavia la proposta non venne mai neppure riferita al Montanari.

    Trasferitosi a Genova, il M. fu suo malgrado coinvolto da G. Mazzini nel velleitario tentativo di suscitare un moto insurrezionale in Lunigiana. Spronato in maniera accorata (lettera del 26 sett. 1856) ad assumere il comando militare delle operazioni, il M. rispose di non essere disponibile a guidare un moto «il quale, appena nato, sarà morto e non avrà per compenso che il sacrificio dei buoni e il bando da Italia di quasi tutta l’emigrazione, il raffreddamento al principio repubblicano e il ritardo al conseguimento della nazionalità» (Scritti editi e inediti di G. Mazzini, LVII, p. 110). La nettissima presa di distanza non evitò però al M. nell’estate del 1857 l’espulsione dal Regno di Sardegna, che comportò anche l’inevitabile rinuncia al vantaggioso impiego di ingegnere capo nei lavori per il prolungamento del molo di Genova. Riparò a Lugano, dove visse per alcuni mesi (come testimoniato dalle missive indirizzate ai familiari) in condizioni di estrema indigenza, finché l’ospitalità di una famiglia del posto e la possibilità di impartire lezioni di matematica non riuscirono a dargli un certo sollievo.

    Alla notizia che Garibaldi, approssimandosi il conflitto tra Franco-Piemontesi e Austriaci, stava organizzando il corpo dei Cacciatori delle Alpi, il M. si presentò immediatamente al suo vecchio comandante, che lo nominò aiutante di campo, destinandolo all’organizzazione in Valtellina di un battaglione destinato alla difesa del confine. Nei concitati giorni del giugno 1859, Garibaldi, sollecitato dal commissario regio G. Visconti Venosta, dovette però più volte tenere a freno l’impazienza del M., che aveva elaborato temerari piani d’assalto della piazzaforte di Bormio, presidiata da un agguerrito contingente austriaco. Il 21 giugno 1859 il M. ebbe anche modo di sposare, per procura, la giovane luganese Chiara Antognini.

    Dopo l’armistizio di Villafranca, il M. militò con Garibaldi nell’esercito dell’Italia centrale, comandato da M. Fanti, nella speranza, presto rivelatasi vana, di estendere l’azione rivoluzionaria al territorio dello Stato pontificio. In seguito, soggiornò qualche tempo a Mirandola presso la madre (che invano cercò di convincerlo ad accettare il sussidio spettante ai perseguitati politici), per poi ricongiungersi alla moglie a Lugano. Alla metà di aprile del 1860 raggiunse a Quarto Garibaldi, dal quale fu nominato terzo aiutante di campo (dopo S. Türr e L. Tukory) in vista della progettata spedizione in Sicilia. Sebbene profondamente deluso dalle parole d’ordine «Italia e Vittorio Emanuele» lanciate da Garibaldi alla vigilia della partenza, il M. combatté valorosamente contro l’esercito borbonico nella decisiva giornata del 15 maggio 1860: nel primo pomeriggio, durante un assalto alla baionetta in località Pianto dei Romani, presso Calatafimi, riportò una gravissima ferita al ginocchio destro. Trasportato nel piccolo borgo di Vita, il M. ricevette nei giorni seguenti tutte le cure possibili, ma neppure l’amputazione della gamba riuscì a fermare la cancrena sopraggiunta nel frattempo. Il M. morì fra atroci sofferenze all’alba del 6 giugno 1860. Sepolto nel cimitero di Salemi, fu promosso da Garibaldi tenente colonnello alla memoria.(fonte)

    [4] Alessandro Calandrelli.

    Fratello di Ludovico, nacque a Roma l’8 ott. 1905 da Giovanni, incisore di pietre preziose, e da Maria Borelli. Entrato nell’artiglieria pontificia, divenne cadetto effettivo il 4 marzo 1818; contemporaneamente si dedicò agli studi scientifici. Sottotenente onorario nel 1824, tenente in 2a nel 1828, nel 1830 venne preposto a effettuare il cambio delle armi in uso alla guardia civica; destinato poi a Civitavecchia, nel 1839 venne promosso tenente in a e fu nominato membro della Commissione straordinaria per le nuove fortificazioni fino al 1843. Nominato nel 1846 cavaliere di S. Silvestro, il C. venne incaricato della compilazione del Regolamento per le vestimenta ed armamento della Guardia Civica nello Stato Pontificio, che gli valse una medaglia d’oro (1847).

    Nel tempestoso novembre romano del 1848, dopo l’assassinio di P. Rossi e la fuga di Pio IX da Roma, il C., che era stato promosso capitano, aderì senza esitazioni al governo provvisorio instauratosi nella città, per quanto attestato sulle posizioni moderate comuni a molti dei suoi concittadini. Promosso il 6 dic. 1848 al grado di maggiore con funzioni di direttore del materiale, nel gennaio fu eletto deputato all’Assemblea costituente e quindi, dopo la proclamazione della Repubblica divenne, il 16 febbr. 1849, per l’assenza del titolare Pompeo di Campello, sostituto del ministro della Guerra e della Marina. In seguito, costituito l’8 marzo un nuovo ministero, il C. fu nominato ministro interno.

    Nel breve periodo in cui ricoprì tale carica, il C. tentò di rendere più efficiente l’armamento dell’esercito, sia sollecitando la consegna di forniture militari già ordinate all’estero (che però non fu possibile ottenere), sia chiedendo alle industrie locali una maggiore produzione di materiale bellico. Ma rispondendo a una serie di interpellanze, presentate tra il 25 e 27 marzo, egli era costretto ad ammettere la gravità della situazione per l’insufficiente preparazione militare: il rimedio che proponeva per aumentare almeno gli effettivi dell’esercito, cioè la coscrizione obbligatoria per gli uomini dai diciotto ai trentasei anni, con possibilità di esenzione previo pagamento di una forte tassa, fu respinto dall’Assemblea. Questa proposta, che mirava – con poche probabilità di successo in un paese non abituato agli arruolamenti forzati – alla creazione di un grosso esercito regolare, proveniva dalla sfiducia che il C. nutriva nei confronti dei corpi volontari in generale e della legione Garibaldi in particolare, di cui lamentava la crescita incontrollata con l’inserimento di elementi indisciplinati, provocatori di disordini e perfino di incidenti diplomatici con gli Stati confinanti.

    Proprio su questo punto sorse un serio dissidio tra il ministro e la Commissione di guerra (composta di cinque membri, tra cui il Pisacane), che su proposta del Mazzini l’Assemblea aveva provveduto ad affiancargli (17 marzo 1849). Poco dopo il C. fu definitivamente messo in disparte e il 2 aprile il decreto del triumvirato che nominava i nuovi ministri affidava temporaneamente alla Commissione di guerra il ministero della Guerra e Marina.

    Partecipò, in seguito, alle operazioni di difesa della città assediata dai Francesi e il 30 aprile meritò una medaglia d’oro al valor militare. Presidente della Commissione per giudicare le requisizioni illegali (8 maggio) e membro di quella per giudicare i prevenuti d’ammutinamento, fu nominato direttore generale delle fortificazioni e promosso al grado di colonnello (17 maggio). Il 22 giugno si distinse per l’abilità con cui diresse il fuoco della artiglieria romana, impedendo al Francesi il rafforzamento delle posizioni conquistate di sorpresa il giorno precedente presso le mura del Gianicolo. Il 1º luglio 1849, precipitate ormai le sorti della Repubblica sopraffatta dalla superiorità militare dei Francesi, dopo le dimissioni del triumvirato Mazzini, Saffi e Armellini. il C. fu chiamato dall’Assemblea, insieme con Livio Mariani e Aurelio Saliceti, a comporne un altro. Già il 3 luglio, però, i Francesi erano in Roma e in pratica l’attività del C. come triumviro si limitò alla distribuzione, tra i deputati che ne avessero fatto richiesta, di una somma di 14.000 scudi stanziati dal ministero dell’Interno a titolo d’indennizzo.

    Con il ristabilimento del governo pontificio, contro il C. piovvero accuse di furto, concussione e ricettazione. Invano egli tentò di espatriare rivolgendosi alle autorità francesi a Roma, che gli concessero un passaporto per la Francia e una somma di denaro; infatti la polizia pontificia, rinvenuto nella sua abitazione materiale di provenienza sospetta, procedeva il 29 settembre al suo fermo che, nel novembre, si tramutava in arresto. Il 24 giugno 1851 il C., benché durante il processo si fosse protestato innocente, venne condannato a tre anni per furto, a quindici anni ancora per furto e a morte per alto tradimento, pene che nell’agosto Pio IX commutava in venti anni da scontarsi nel carcere di Ancona.

    Le accuse di furto contro il C., che in quanto comandante di corpi militari era stato escluso dal godimento dell’amnistia e quindi dimesso dall’esercito, si basavano sul rinvenimento in casa sua di libri provenienti dalla biblioteca dell’Accademia ecclesiastica, la cui presenza il C. non fu in grado di giustificare in modo convincente. C’è da dire inoltre che nell’incartamento relativo al processo (Archivio di Stato di Roma, Tribunale Sagra Consulta, b. 220, f. 153) compare una lettera cifrata proveniente da Berlino, con timbro 2 dic. 1853, e attribuita al C.: lo scrivente invita l’ignoto destinatario a farsi consegnare da un tale Vito Enei parte di quanto era stato rubato nel 1849 ai frati del convento delle Mantellate. Dal che si dovrebbe desumere che l’azione giudiziaria promossa dalla magistratura pontificia non fosse del tutto infondata.

    Ripetuti interventi, tendenti a ottenergli la grazia, furono effettuati presso la corte pontificia nell’aprile e nell’agosto del 1851 (Arch. Segr. Vat., Segreteria di Stato, a. 1851, rubr. 165, fasc. 1) dai diplomatici prussiani a Roma, per ordine di Federico Guglielmo IV che aveva aderito a una supplica del padre del C., dal 1832 emigrato a Berlino, dove era stato nominato maestro dell’istituto d’arti. Un altro passo in suo favore fu effettuato da Parigi dal gen. Vaillant: il 19 giugno 1853 (Arch. Segr. Vat., Segreteria di Stato, a. 1853, rubrica 210, fasc. 7). Ma il 15 giugno 1853 Pio IX aveva già commutato in esilio perpetuo la pena del C., il quale, nello stesso mese, fornito di un passaporto prussiano, lasciò Ancona per raggiungere a Berlino il padre e il fratello Ludovico. Qui egli rimase fino al 1870.

    In questi anni, su cui si hanno pochissime notizie, per guadagnarsi di che vivere diede lezioni di italiano, avendo tra gli altri come allievi A. von Humboldt e Ferdinand Lassalle; tornò a occuparsi dello studio della mineralogia; si sposò con Emilia Reineke dalla quale ebbe tre figli. Nell’ottobre 1855, dopo la morte del fratello Ludovico, avrebbe voluto recarsi in Turchia, ma ne fu dissuaso dai suoi amici.

    Appena a conoscenza dell’avvenuta presa di Roma, il C. vi tornò il 2 ott. 1870. Riuscì subito a reinserirsi nella vita politica. Consigliere del Circolo romano, che faceva capo ad uomini come Pianciani, Montecchi, Nino Costa, riuscì vittorioso alle elezioni comunali del 13 novembre, essendo candidato comune dei democratici e dei moderati. Presentatosi anche alle elezioni generali del 20 novembre, con un programma che prevedeva la ristrutturazione dell’esercito, l’obbligatorietà per l’arruolato a prestare servizio di leva, il decentramento amministrativo, la perequazione tributaria, il C. venne sconfitto nel ballottaggio avvenuto il 27 novembre dal candidato moderato R. Marchetti. All’inizio del 1871 cominciò una saltuaria collaborazione al quotidiano Il Tribuno, che nel gennaio ospitava due sue lettere aperte destinate a suscitare un certo scalpore.

    Nella prima, datata 13 gennaio e indirizzata Ai deputati romani al Parlamento, il C. faceva un quadro deprimente della situazione economica romana, deplorava che il trasferimento della capitale non venisse effettuato con la sperata sollecitudine e criticava apertamente l’indifferenza del governo verso i gravi problemi che affliggevano Roma. Di tono ancora più acceso la seconda lettera, pubblicata sul numero del 22 gennaio e diretta All’avvocato Antonio Stefanucci Ala; definito lo Statuto “un letto di Procuste favoritoci dal Piemonte” sul quale “ci siamo sforzati e ci sforziamo di aggiustare ed immiserire l’Italia”, il C. chiedeva, la creazione di una Costituente che “sulle basi di una monarchia Costituzionale” riorganizzasse l’Italia “tenendo conto delle più vitali parti di ogni provincia, ed assimilandole in una vitalità omogenea”. Il paese, a suo dire, abbisognava di codici meno autoritari e di un sistema carcerario più moderno: contro il materialismo imperante rivalutava la funzione della religione e della Chiesa, “gran baluardo di civiltà e della libertà”; chiedeva una riforma del sistema elettorale, dominato dal “monopolio occulto del Governo”; ribadiva la necessità di una tassazione progressiva dei redditi.

    Queste argomentazioni riscossero la piena approvazione della Civiltà cattolica (4 marzo 1871, pp. 578-584), che non esitò a strumentalizzare le accuse del C. per dimostrare che il governo italiano aveva tradito tutte le aspettative dei Romani. Forse perché amareggiato da queste impreviste conseguenze, il C. abbandonava la polemica politica e dedicava i suoi interessi esclusivamente a problemi di natura tecnica, pubblicando nello stesso 1871 una memoria su La Salaria, ossia una ferrovia dal Tirreno all’Adriatico per le valli del Tevere, Velino, Tronto e, sul Tribuno, vari interventi a proposito della sistemazione urbanistica di Roma (era stato nominato frattanto ispettore edilizio del comune di Roma con compiti di supervisione). Il 13 giugno presentò, per motivi personali, le dimissioni da consigliere municipale, e da allora accettò soltanto qualche incarico onorifico o di rappresentanza: dal 1871 era iscritto alla Società dei reduci delle patrie battaglie di cui nel 1875 divenne consigliere, nel 1872 fece parte della Commissione per le onoranze pubbliche a Mazzini e di quella incaricata di individuare i nomi dei Romani caduti durante il Risorgimento, nel 1873 guidò la delegazione degli operai romani alla Esposizione di Vienna. Come urbanista entrò più volte in polemica con quanti si battevano per una troppo disinvolta ristrutturazione edilizia della città, denunciando anche le offese arrecate sotto forma di furti o di vendite illegittime al patrimonio archeologico della capitale. Nel 1884 donò alla Commissione per la Esposizione del Risorgimento tutti i documenti da lui raccolti e si ritirò in Albano Laziale, dove morì il 7 febbr. 1888.(fonte)