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Carmine Senise, 1942

    Carmine Senise, 1942
    Carmine Senise, 1942 a
    « di 2 »

    MINISTERO DELL’INTERNO
    IL CAPO DELLA POLIZIA

    Roma, lì 21 agosto 1942 XX[1]

    Gent.mo Commendatore,
    in relazione alle premure che mi avete rivolto
    a favore dell’agente di P.S. di mare FRANCAVILLA Li-
    bero che, trasferito da Lipari a Catania, desiderereb-
    be ottenere la revoca del provvedimento o quanto
    meno la destinazione a Pescara od a Ponza, debbo co-
    minicarVi che il trasferimento del Francavilla è
    stato determinato da ragioni di opportunità e da
    prevalenti esigenze dello speciale servizio di ma-
    re cui egli è addetto.

    Ciò stante, e poiché nelle altre sedi richie-
    ste l’organico degli agenti di mare è attualmente
    al completo, sono davvero spiacente di non poterVi
    . /.

    dare una favorevole risposta in ordine alla
    Vostra segnalazione nell’interesse del Fran-
    cavilla.
    Augurandomi più propizia occasione per
    farVi cosa gradita, Vi porgo cordiali saluti

    C Senise[2]

    destinatario in prima pagina:

    Gent.mo
    Prof. Avv. Renato CERCIELLO[3]
    Direttore dell’Ufficio dell’Alta
    Corte di Giustizia e degli Studi Legislativi
    Senato del Regno

    ROMA

    n alto n. 4744


    Note

    [1] La battaglia di mezzo agosto fu un’importante battaglia aeronavale della seconda guerra mondiale combattuta nel Mediterraneo centrale dall’11 al 13 agosto 1942 in conseguenza del tentativo di rifornire l’isola di Malta (operazione Pedestal) da parte degli Alleati, conclusasi con la netta affermazione a livello tattico delle forze dell’Asse, ma con una sostanziale vittoria operativa alleata, che ha consentito di rifornire Malta e garantire la sopravvivenza dell’avamposto britannico nel Mediterraneo.
    L’estate del 1942 segnò una svolta decisiva per le sorti della seconda guerra mondiale. Gli Alleati, infatti, durante la prima conferenza di Washington (12 dicembre 1941-14 gennaio 1942) avevano stabilito di attaccare le forze dell’Asse partendo dall’Europa Occidentale a cominciare dall’Italia (operazione Sledgehammer).
    Difficoltà logistiche nei mesi successivi indussero il cambiamento delle priorità stabilite mettendo in cima alla lista il Nord Africa (operazione Gymnast e Torch).
    Determinante in questa azione era Malta, l’isola fortificata da cui decollavano gli aerei per proteggere i convogli Alleati che viaggiavano tra Gibilterra e Suez e soprattutto attaccare quelli dell’Asse in navigazione tra Italia e Libia, fornendo anche una base sicura per i sommergibili.
    Proprio le sorti dell’isola furono oggetto dell’incontro al vertice tra Hitler e Mussolini svoltosi a Klesseheim il 29 e 30 aprile 1942 dove si stabilì, tra l’altro, che la programmata offensiva in Nord Africa dell’ACIT (Armata corazzata italo-tedesca) del successivo 26 maggio avrebbe dovuto concludersi con la conquista di Tobruk ed attestarsi sulla linea Sollum-Halfaya per consentire il trasferimento delle forze aeree in Sicilia a supporto di un aviosbarco su Malta. L’invasione dell’isola fu battezzato in codice operazione C3 dagli italiani e operazione Herkules dai tedeschi. Per lo svolgimento di questo compito erano state costituite speciali forze di attacco che si addestravano già da mesi.

    L’azione italo-tedesca in Nord Africa, pur potendo contare su forze inferiori in uomini e mezzi a quelle Alleate, per il 20 giugno aveva raggiunto tutti i risultati prefissati a Klesseheim. A questo punto, però, Erwin Rommel chiese ad Hitler l’autorizzazione a proseguire l’azione fino alla conquista di Alessandria d’Egitto e del Cairo. Nonostante la ferma opposizione di Mussolini, del generale Bastico (comandante in Libia) e dello stesso feldmaresciallo Kesselring (responsabile del Comando Forze Sud), il cambiamento di strategia fu ratificato al vertice di Derna del 25 giugno, dopo che Rommel accettò di condurre la sua azione senza ulteriori rinforzi ma senza nemmeno privarsi dei reparti aerei già a sua disposizione.

    L’isola fortificata di Malta, che aveva retto con eroica tenacia a tutti i tentativi attuati dall’Asse per impadronirsene o paralizzarla, era però ormai giunta al limite delle sue possibilità di resistenza. Della sua importanza erano ben consci gli inglesi che consideravano la sicurezza dell’isola un elemento fondamentale nel teatro Mediterraneo.

    Dopo le gravi perdite subite durante la battaglia di mezzo giugno, in seguito al tentativo di rifornire l’isola con due convogli che erano partiti simultaneamente da Alessandria d’Egitto (operazione Vigorous) e da Gibilterra (operazione Harpoon), gli inglesi si limitarono a rifornire Malta solo attraverso trasporti aerei o usando la leggendaria posamine veloce HMS Welshman.(fonte)

    [2] Carmine Senise. Nacque a Napoli il 28 novembre 1883, figlio di Tommaso e di Marianna Giorgi Marrano. Il padre, garibaldino, fu professore all’Università di Napoli, deputato e senatore, mentre uno zio, di cui portava il nome, fu prefetto e senatore del Regno.

    Laureato in giurisprudenza, nel 1908 entrò per concorso nell’amministrazione del ministero dell’Interno. Nel 1911 venne nominato segretario e poi, con i governi Nitti e Bonomi, capo dell’ufficio stampa del ministero dell’Interno. Dopo la marcia su Roma, venne trasferito alla direzione generale delle Carceri e, con il successivo passaggio di questa direzione generale al ministero di Giustizia, venne trasferito alla direzione generale della Sanità, per intervento diretto del capo della polizia, Arturo Bocchini, di cui era molto amico ed era stato collega all’ufficio stampa del ministero dell’Interno durante la prima guerra mondiale. Nell’agosto del 1930 venne chiamato a dirigere la divisione Affari generali e riservati della direzione generale di Pubblica Sicurezza. Nel 1932, promosso prefetto, fu nominato vicecapo della polizia. Con la morte di Bocchini, il 23 novembre 1940 venne chiamato a ricoprire la carica di capo della polizia. Sembra che a caldeggiarne la nomina fosse il sottosegretario all’Interno, Guido Buffarini Guidi, che riteneva di poter avere in lui un docile strumento e quindi di poter finalmente controllare la polizia politica, ciò che gli era stato impossibile ottenere con l’autorevole Bocchini. Ma anche Senise si mostrò geloso delle proprie prerogative e continuò, come il suo predecessore, a riferire direttamente a Benito Mussolini.

    Come Bocchini, anch’egli fu contrario all’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania, perché convinto dell’impreparazione del Paese ad affrontare una tale drammatica prova. Perciò, quando si cominciarono a delineare le prime difficoltà nell’andamento del conflitto, in particolare dopo le sconfitte in Nord Africa, iniziò ad avvicinarsi progressivamente a casa Savoia e prese a organizzare la polizia, come egli stesso scrisse, in modo tale che potesse rappresentare un ostacolo per il regime fascista, «quando il sovrano avesse ritenuto giunta l’ora di liberare il Paese dal regime che lo stava conducendo alla rovina» (C. Senise, Quando ero capo della polizia, 1946, p. 54). La sua evidente consonanza con il re e la contemporanea freddezza nei confronti del regime nazista contribuirono a mantenere sempre vivo il sospetto delle gerarchie hitleriane nei suoi confronti. Guido Leto ricorda che a Klessheim, durante l’incontro di Adolf Hitler con Mussolini, a cui aveva partecipato per organizzare il servizio di sicurezza, venne avvicinato da Ernst Kaltenbrunner, il successore di Heinrich Himmler, che lo sottopose a una serie incalzante di domande su Senise, prudenti e garbate nella forma, ma chiarissime negli intenti. Leto comprese che le domande, sebbene fossero poste «con cautela ed in forma vaga», ruotavano attorno al punto relativo «ai sentimenti politici del capo della polizia italiana ed alla sua fedeltà al regime e, più ancora, al notorio e dichiarato attaccamento che professava verso casa Savoia». Insomma, i vertici nazisti mostravano di non fidarsi di Senise e certamente non avevano apprezzato «che la successione di Bocchini fosse finita nelle mani di Senise» (Leto, 1951, pp. 16 s.). Al rientro dall’incontro di Klessheim, Mussolini dimissionava Senise da capo della polizia sostituendolo con il fedelissimo Renzo Chierici. Senise riferì che nell’ultimo colloquio con Mussolini, questi aveva elencato, tra i motivi che lo avrebbero indotto a dimissionarlo, la mancata repressione del ‘mercato nero’ e l’incapacità mostrata nel fronteggiare con la dovuta energia gli scioperi di Torino e di Milano. È difficile credere che l’incontro di Klessheim e il contemporaneo allontanamento di Senise fossero una semplice coincidenza, mentre appare molto verosimile che al suo allontanamento dai vertici della polizia non fossero estranee le forti pressioni di Hitler e dei suoi collaboratori. A spingere al dimissionamento di Senise contribuirono di certo anche i settori oltranzisti del fascismo che, di fronte ai rovesci militari, pensavano di risolvere la crisi avviando quella che definivano una ‘terza ondata’: via i moderati e infidi come Senise e largo ai puri e fedelissimi come Chierici, comandante della milizia forestale. Giuseppe Bottai (1989) scriveva al riguardo che Senise se n’era «andato per essersi rifiutato, dicono, di scatenare una guerra all’interno mentre c’è una guerra all’esterno» (p. 375). In effetti Senise era venuto assumendo ormai da tempo una posizione sempre più critica nei confronti della guerra e dell’alleanza con la Germania. Non faceva più mistero delle sue convinzioni che la soluzione della crisi italiana andasse cercata nel distacco dall’ingombrante alleato e in una successiva pace separata con gli Alleati. Poiché era il progetto a cui avevano preso a ispirarsi con molta cautela anche alcuni autorevoli ambienti politici e militari vicini a casa Savoia, la defenestrazione di Senise del 14 aprile 1943, collocato ‘a disposizione’, e la successiva nomina, di lì a qualche giorno, dell’intransigente Carlo Scorza alla testa del Partito nazionale fascista (PNF), furono due segnali importanti e inequivocabili di Mussolini a tali ambienti circa la sua intenzione di andare esattamente nella direzione opposta. E forse fu proprio in quei giorni che iniziò a prendere forma il complotto che avrebbe portato all’arresto del capo del fascismo dopo la notte del Gran Consiglio.

    Si incontra tuttavia di nuovo Senise presente attivamente nel complotto, che andava prendendo forma definitiva negli ambienti più vicini al re, i primi giorni di luglio del 1943, quando Pietro Acquarone gli chiese d’incontrarlo e lo mise al corrente della volontà del re di liberarsi di Mussolini per poter trattare una pace separata con gli Alleati. In un secondo incontro, che avvenne pochi giorni dopo, venne proposto a Senise di rioccupare la carica di capo della polizia e di preparare un piano che prevedesse l’arresto di Mussolini e delle più alte gerarchie del regime. Nel pomeriggio del 25 luglio, ancora prima della notizia dell’incarico ufficiale affidato a Pietro Badoglio, Senise era nell’ufficio di Chierici, il capo della polizia, e operava già come il nuovo responsabile. Sua fu la vasta operazione che condusse agli arresti dei vari gerarchi e all’afflusso a Roma di consistenti forze di polizia per presidiare la città contro eventuali colpi di mano del PNF. Dopo il suo arresto, Mussolini venne trasferito in varie località allo scopo di non consentire ai tedeschi di localizzarne la prigione; giunse infine a Campo Imperatore e Senise affidò la sua sorveglianza all’ispettore di pubblica sicurezza, Giuseppe Gueli, con l’ordine di far fuoco su di lui in caso di fuga o di tentativo di liberazione. Quest’ordine, in quei giorni drammatici, fu soggetto a diverse variazioni. Infatti, dopo la fuga del re da Roma, Senise, come racconta nel suo memoriale fatto pervenire all’alto commissario per i reati fascisti, preoccupato «del grave pericolo al quale la soppressione di Mussolini avrebbe esposto il Paese», e d’accordo con le poche autorità rimaste a Roma, telefonò a Gueli «affinché nella ipotesi di un colpo dei tedeschi si regolasse con la massima prudenza». Il giorno dopo, 10 settembre, di fronte alla resistenza che a Roma le nostre truppe sembravano opporre ai tedeschi e sperando «che gli attesi rinforzi avrebbero impedito l’occupazione della città», telefonò di nuovo a Gueli ordinandogli di non tener conto della telefonata del giorno precedente ma di regolarsi «secondo la prima consegna ricevuta nell’agosto» (Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello – Sezione istruttoria, f. 73). Ma il 12 settembre, dopo l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi, inviò a Gueli un radiogramma che era un contrordine: lo invitava di nuovo alla prudenza, facendogli chiaramente intendere di astenersi in tutti i casi dalla decisione estrema della soppressione di Mussolini e di evitare lo scontro armato qualora i tedeschi avessero tentato di liberarlo.

    Sorpreso dalla fuga del re e di Badoglio al Sud, dopo l’annuncio dell’armistizio, rimase al suo posto fino a quando, il 23 settembre 1943, venne arrestato, insieme al vicecapo della polizia, Salvatore Rosa, nel suo ufficio al Viminale, dalle SS guidate da Erich Priebke. Condotto in aereo a Verona e poi per treno a Monaco, venne quindi recluso nel campo di concentramento di Dachau, che lasciò alla fine di novembre del 1943 per essere condotto a Hirschegg, in Baviera, non più come detenuto, ma come prigioniero. Lì venne a far parte di un piccolo gruppo di prigionieri illustri, tra cui Francesco Saverio Nitti, François Poncet, ex ambasciatore francese a Roma, Luigi Rizzo e le due duchesse di Aosta, Anna d’Orléans, moglie di Amedeo di Savoia, e Irene di Grecia, moglie di Aimone di Savoia. Il 2 maggio 1945 venne liberato da truppe francesi e condotto a Costanza, ma solo l’11 agosto poté rientrare in Italia via Svizzera.

    Venne collocato a riposo con decreto luogotenenziale del 13 settembre a decorrere dalla data del 15 agosto 1945, poi posticipata al 16 ottobre, ma già il 22 agosto era stato ordinato il suo fermo da tramutarsi in arresto, accusato dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo di aver «contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista», e di aver collaborato «col tedesco invasore alla liberazione del capo del fascismo, Benito Mussolini, prigioniero delle autorità italiane nella zona del Gran Sasso». Si era tuttavia reso irreperibile già da alcuni giorni e vane furono le ricerche per eseguire il mandato di cattura. Venne pertanto deferito in contumacia alla corte speciale d’assise di Roma, alla quale fece giungere un lungo memoriale, con data 10 ottobre 1945, nel quale respingeva le accuse, rivendicava il suo operato di capo della polizia mai prono alle volontà del regime fascista e di Mussolini, e precisava con dettagli interessanti il suo ruolo nel complotto per rovesciare Mussolini. Il pubblico ministero, il 28 novembre 1945, ne revocò il mandato di arresto, prosciogliendolo dalla prima accusa «per non aver commesso il fatto» e dalla seconda «perché il fatto non costituisce reato» (Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello – Sezione Istruttoria, f. 73).
    Morì a Roma il 24 gennaio 1958.(fonte)

    [3] UFFICIO DELL ALTA CORTE DI GIUSTIZIA E DEGLI STUDI LEGISLATIVI
    Direttore Cerciello prof. avv. Renato.
    Provvede alla conservazione degli atti dell’Alta Corte di giustizia ed alla redazione degli atti di cancelleria che gli siano affidati dal Segretario generale.
    Redige il resoconto dei lavori legislativi ed i relativi prospetti statistici periodici: appresta i mezzi ed eseguisce tutte le ricerche necessarie per i lavori delle Commissioni legislative; attende agli studi di legislazione, anche comparata, che gli siano richiesti in rapporto ai lavori legislativi, ed alle altre pubblicazioni che ad esso siano affidate dal Segretario generale.
    Tiene la corrispondenza per lo scambio degli atti e dei giornali ufficiali stranieri.

    Da “Annuario generale d’Italia, dell’Impero e dell’Albania”. 1942-1943 pag XXVI (fonte)