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Baldisserotto Francesco, 1861

    Baldisserotto Francesco, 1861
    Baldisserotto Francesco, 1861

    Sua Maestà
    Vittorio Emanuele II[1]
    Per grazia di Dio e per volontà della nazione
    Re d’Italia

    Ha firmato il seguente Decreto

    Sulla proposizione del Nostro Ministro Segretario
    di Stato per gli affari della Marina abbiamo decretato e de=
    cretiamo quanto segue.
    Baldisserotto Francesco[2] Luogotenente di Vascello di 1a Classe
    nello Stato Maggiore Generale della R a Marina è promosso
    Capitano di fregata di 2 a Classe nello Stato Maggiore medesimo
    coll’annua paga di Lire Quattromila Cinquecento fissata dal=
    la tabella 4 a annessa al R. o Decreto 1 o Aprile 1861, ecc.
    Il predetto Nostro Ministro ecc.

    Dato a Torino addì 12 Settembre 1861
    Firmato Vittorio Emanuele
    Controsegnato L. F. Menabrea[3]

    Copia conforme


    Note

    [1] Vittorio Emanuele II di Savoia. Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia nacque a Torino il 14 marzo 1820 da Carlo Alberto di Savoia Carignano e Maria Teresa d’Asburgo Toscana.
    Trascorse i primi anni a Firenze, dove il re Carlo Felice aveva confinato Carlo Alberto, colpevole di atteggiamenti troppo liberali durante i moti del 1821. Crebbe forte e vivace, subito diverso dai genitori per fisico e temperamento. A ciò devono la propria fortuna le durature voci circa uno scambio di bimbi in culla, a seguito di un incendio, nel 1822.
    Mentre Carlo Alberto combatteva per la restaurazione monarchica in Spagna (ciò gli permise, in assenza di eredi diretti di Carlo Felice, di essere reintegrato a corte nel 1824), i principi Vittorio Emanuele e Ferdinando cominciarono un percorso di studi segnato da rigida disciplina ed educazione morale e impartito da insegnanti più fedeli alla dinastia che dotati di spiccate capacità didattiche. Vittorio, propenso più all’azione che al pensiero, faticava sul vastissimo piano di studi.

    Nell’aprile del 1831, morto Carlo Felice, Carlo Alberto salì al trono del quale Vittorio Emanuele diventava a tutti gli effetti primo erede. L’etichetta di corte si fece ancora più rigida. Ad alleggerire la pressione giovò il buon legame con Ferdinando e l’inizio degli studi militari, per cui Vittorio Emanuele era portato e che consentirono al principe di rompere l’isolamento relazionale.
    Incominciata (e rapidamente compiuta) la carriera militare, ebbe una propria casa militare e una propria corte. In tale contesto cementò le prime vere amicizie, la passione per la montagna, le battute di caccia, il gioco e i cavalli; sperimentò i primi amori. Per quanto avesse concezione molto alta (quasi arrogante) delle prerogative monarchiche, non era solito far pesare la propria posizione a chi gli stava attorno nei momenti di svago.
    Fu a proprio modo coerente in campo amoroso: sempre in cerca di nuove conquiste, si dimostrò maggiormente attratto dalle giovani di bassa estrazione (con le quali poteva essere se stesso e che, con poco, poteva affascinare) rispetto alle donne d’alta società.

    La monarchia aveva però le proprie necessità e anche Vittorio Emanuele dovette preoccuparsi di garantire ai Savoia la discendenza. Nell’estate del 1840, con il placet di Vienna, si pianificò il matrimonio con la giovane, delicata e pia Maria Adelaide (figlia dell’arciduca Ranieri d’Asburgo, viceré di Milano, e di Maria Elisabetta di Savoia, sorella di Carlo Alberto) che fu celebrato a Stupinigi il 12 aprile 1842.
    L’unione si sarebbe rivelata un successo per la continuità della dinastia. La principessa partorì sette volte in dodici anni: Maria Clotilde (1843), Umberto (1844), Amedeo (1845), Oddone (1846), Maria Pia (1847), Carlo Alberto (1851), Vittorio Emanuele (1855). Ma per quanto il re non mancasse di affetto verso la regina, tra i due non ci fu mai vero amore. Il primo non ne era propriamente capace e la seconda, consumata dalle gravidanze in serie, non seppe mai uscire dalla propria remissiva mitezza per conquistare davvero lo sposo.
    Le avventure romantiche di Vittorio Emanuele continuarono anche dopo le nozze. Nel 1844 e nel 1847, infatti, conobbe le due amanti che, tra alti e bassi, maggiormente ne segnarono vita: Laura Bon e Rosa Vercellana.

    La lunga e discontinua relazione con Bon cominciò quando il principe la vide recitare a teatro, a Casale Monferrato: ne fu affascinato ed ella si innamorò. Ebbero un figlio (morto dopo parto prematuro) e una figlia (Emanuela, nata il 6 settembre 1853), ma i sentimenti sinceri e intensi di lei, compresa la gelosia, finirono per costituire un problema. Bon fu con il tempo dimenticata e morì in povertà nel 1904.
    Molto differente fu la relazione con Vercellana, che – seppur in presenza di numerosi tradimenti – divenne la principale compagna di vita di Vittorio Emanuele e, dal 1869, sua moglie morganatica. La ‘bella Rosina’ aveva tutto per sedurre il principe, sia nelle forme, sia nell’approccio – schietto e bramoso – alla vita. Egli la conobbe quando ella era ancora molto giovane ed ebbe con lei una figlia (Vittoria) nel 1848 e un figlio (Emanuele Alberto) nel 1851. Rosina sopravanzò tutte le altre amanti resistendo anche ai tentativi della corte (orchestrati per lo più dalla madre Maria Teresa e da Camillo Benso conte di Cavour) di allontanarla. Infine, quando Maria Adelaide morì (1855), ottenne che Vittorio Emanuele rifiutasse un nuovo matrimonio ‘regale’, convincendolo a insediarsi con lei e i figli nella tenuta de La Mandria, nel decaduto complesso della Venaria reale. Il principe, sfidando nuovamente Cavour, nel 1858 la insignì del titolo di contessa di Mirafiori e Fontanafredda.

    Vittorio Emanuele divenne re di Sardegna nel 1849, quando Carlo Alberto abdicò a seguito della sconfitta nella prima guerra d’indipendenza: si era ben disimpegnato sul campo, venendo anche leggermente ferito, ma era stato tenuto, come già prima, completamente al di fuori da ogni processo decisionale.
    Il nuovo re esordì nel colloquio con Josef Radetzky per negoziare le condizioni di pace.
    Vittorio Emanuele fu abile e il feldmaresciallo fu moderato, nel convincimento che una pace troppo dura avrebbe pungolato le velleità della fazione democratica piemontese: ne sorse una versione molto celebrativa dell’incontro fra i due, secondo la quale il giovane re non avrebbe ceduto alle lusinghe dell’autorevole avversario per tener fede alle promesse costituzionali del padre.

    Dopo la repentina caduta del gabinetto conservatore guidato dal generale Claudio de Launay, Vittorio Emanuele chiamò al governo Massimo d’Azeglio, fidato monarchico ma uomo moderno e di posizioni moderate. D’Azeglio fu il primo vero mentore politico del sovrano (per il quale coniò anche la qualifica di ‘re galantuomo’) e si disimpegnò efficacemente nelle negoziazioni di pace con l’Austria, ottenendo una notevole diminuzione delle indennità di guerra. La Camera, a maggioranza democratica, era però restia ad approvare. Vittorio Emanuele, per quanto sensibile alla possibilità di governare indipendentemente dagli orientamenti parlamentari, fu ben consigliato dal ministero: emanò quindi, dopo un doppio scioglimento delle Camere, il Proclama di Moncalieri in cui – pur con toni perentori e minacciando ambigue ritorsioni, forse autoritarie – chiedeva agli elettori una maggioranza favorevole alla firma dell’armistizio. Le elezioni del 10 dicembre 1849 assecondarono infine le aspettative regie: lo Statuto era salvo, ma la concezione di liberalismo costituzionale del nuovo re si era mostrata quantomeno peculiare.

    Il 1850 fu caratterizzato da un duro scontro tra Stato e Chiesa, fatto deflagrare da una legislazione che aboliva i privilegi ecclesiastici. L’azione regia presso Pio IX non attenuò le tensioni, né al sovrano (per la prima volta fortemente sollecitato dalle devotissime moglie e suocera su una questione politica) riuscì di mitigare le leggi. Nell’occasione Cavour entrò nel governo come ministro dell’Agricoltura e cominciò un’ascesa rapidissima che, il 4 novembre 1852, culminò nell’incarico regio a formare un nuovo esecutivo.

    Cavour, però, mal sopportava le ingerenze politiche della Corona (e si opponeva tra l’altro alla crescente importanza della contessa di Mirafiori): ne venne un rapporto spesso conflittuale con il re, non facilitato dal fatto che, in anticipo su Sua Maestà, intuì come passare attraverso la questione italiana per fare grande il Piemonte. L’occasione giunse nel 1854: Francia e Gran Bretagna avevano mosso guerra alla Russia. Il conflitto, triennale, visse le proprie fasi cruciali in Crimea. Con uno slancio personale, Vittorio Emanuele s’impegnò a intervenire a supporto dei due alleati, senza praticamente contropartita concreta. Cavour, che pure vedeva di buon occhio l’interruzione dell’isolamento piemontese, fu messo in difficoltà e per ottenere il sostegno politico all’impegno militare dovette scendere a patti con la Sinistra, garantendo in cambio il proprio sostegno alla legge per l’abolizione degli ordini religiosi.Il re provò a contrastare la legge. Si mosse anche Giovanni Bosco, che ammonì in vario modo il sovrano, fino a metterlo a parte di sogni che preconizzavano lutti a corte. Ed effettivamente il 1855 fu un anno di decessi pesanti per la Casa reale: prima la madre Maria Teresa, poi la moglie Maria Adelaide – mai ripresasi da una ennesima e difficilissima gravidanza –, in seguito il fratello del re, Ferdinando, e infine il neonato principino Vittorio Emanuele.

    Questo succedersi di drammi familiari non bastò a smuovere Vittorio Emanuele. Di fronte alle minacciate dimissioni di Cavour, le leggi passarono: la guerra era la priorità. Non fu però particolarmente gloriosa: i soldati piemontesi si disimpegnarono bene, ma furono falcidiati dal colera. Non si ottennero ricompense concrete, ma a livello diplomatico il Piemonte guadagnò molti punti.
    Aspirazione tanto del re, quanto di Cavour, era infatti provocare una guerra contro l’Austria, per vendicare la sconfitta del 1849 e creare un unico Regno nell’Italia settentrionale. La Francia assicurò appoggio grazie sia alla tessitura di Cavour (con l’incontro di Plombierès del 1858) sia alla fermezza del re di fronte alle rimostranze francesi seguite all’attentato dell’italiano Felice Orsini contro l’imperatore Napoleone III. Il matrimonio dinastico fra la quindicenne principessa Clotilde e il ben più maturo Napoleone Girolamo (nipote di Napoleone I) suggellò l’alleanza.

    Il 10 gennaio 1859, il discorso della Corona pronunciato davanti alle Camere riunite fu l’apice del percorso con il quale Vittorio Emanuele si pose alla testa delle rivendicazioni patriottiche italiane e aprì la strada al conflitto: «non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi» (I discorsi della Corona con i proclami alla nazione dal 1848 al 1936, a cura di A. Monti, Milano 1938, p. 58).
    L’opposizione austriaca alla presenza piemontese a una conferenza sulla questione italiana e la pretesa di un rapido disarmo costituirono il casus belli. L’ultimatum, respinto, si trasformò in guerra e l’Austria in aggressore: la Francia si schierò con il Piemonte. Vittorio Emanuele non riuscì a dare gran prova della propria competenza strategica poiché il comando fu sempre nelle mani di Napoleone III, il quale però, proprio quando il conflitto volgeva al meglio (con gli austriaci costretti a ritirarsi al di là del fiume Adige dopo le battaglie di Solferino e San Martino), chiese una tregua all’imperatore austriaco Francesco Giuseppe (6 luglio 1859).

    Si parlò di tradimento dell’imperatore, ma in realtà le grandi perdite sul campo, le eccessive possibilità di rafforzamento del Piemonte e, soprattutto, l’agitazione della Prussia, resero la tregua quasi inevitabile. Lo stesso Vittorio Emanuele, pur dichiarandosi colto alla sprovvista e nonostante la durissima opposizione di Cavour, era propenso alla pace ed era presumibilmente stato avvisato per tempo dell’orientamento francese: al Piemonte andò la Lombardia, ma il Veneto rimaneva austriaco. Per quanto in centro Italia si prospettassero ampie annessioni, Cavour si dimise, sostituito per sei mesi dal generale Alfonso La Marmora.
    Il re provò a gestire direttamente la politica piemontese a Parlamento chiuso, ma – nel gennaio del 1860, pressato dagli alleati come dagli oppositori – fu costretto a richiamare Cavour.
    La gestione delle politiche di annessione, portate avanti dal presidente del Consiglio, fu terreno di frizioni con il re: sulla cessione della Savoia alla Francia, per esempio, e, ancor più, nel rapporto con Giuseppe Garibaldi.

    L’‘eroe dei due mondi’ non piaceva al re – erano fin troppo simili –, ma strumentalmente (e non senza tradimenti e ripensamenti) lo sostenne: in lui vedeva una ‘scorciatoia’ per i propri piani. Cavour, decisamente più ostile alla matrice ‘rivoluzionaria’ della spedizione dei Mille, fu abilissimo nel convincere il consesso europeo – e in particolare Napoleone III – che solo un intervento piemontese avrebbe impedito il dilagare della sovversione garibaldina, in procinto di minacciare anche i domini pontifici. L’intervento militare piemontese nelle Marche e in Umbria ne risultò giustificato. Ai primi di ottobre, così, Vittorio Emanuele si avviò incontro al vittorioso Garibaldi: in realtà realizzava l’obiettivo cavouriano di fermarlo e sventare la minaccia su Roma. Il 25 ottobre 1860, nei pressi di Teano, il re e il generale ebbero un breve incontro e avvenne il passaggio di consegne: da lì in poi, l’iniziativa sarebbe stata completamente nelle mani dell’esercito regio.

    Il 18 febbraio 1861 fu inaugurato il Parlamento italiano che, il 17 marzo, adottò la formula «Vittorio Emanuele II, re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione». Si preferì evitare la dicitura «re degli Italiani» per non dare eccessivo peso alla matrice popolare dell’Unità d’Italia. Quanto alla numerazione invariata – nonostante le polemiche sollevate da chi vi vedeva un forte elemento di piemontesizzazione –, fu scelta in linea con la tradizione delle grandi monarchie europee e con la volontà di esaltare la continuità dinastica.
    L’ultimo atto politico di Cavour fu un estremo – e infruttuoso – tentativo di risolvere la questione romana in accordo con la Chiesa. Il 29 maggio cadde improvvisamente malato e morì il 6 giugno 1861. Vittorio Emanuele fece una visita al capezzale del ministro, ma non partecipò alle esequie e impedì anche ai principi di farlo.

    Il re trovò nuovamente spazio per operare in prima persona, soprattutto in politica estera. Una rete di ‘ambasciatori privati’ gli consentiva di tessere una propria tela, fatta per lo più di diplomazia segreta e finanziamenti ai movimenti rivoluzionari interni all’Impero asburgico. Scopo finale era una nuova guerra tesa a completare l’Unità (gli interessava Venezia, più di Roma) e a una grande vittoria, che lo avrebbe reso immortale.
    Garibaldi, armato segretamente dal re perché portasse scompiglio nei possedimenti dalmati dell’Austria e, successivamente, in Grecia, (Mack Smith, 1972, p. 127) sbarcò un’altra volta in Sicilia, deciso a marciare su Roma. Per evitare un intervento francese, le truppe italiane lo bloccarono sull’Aspromonte. Nello scontro del 29 agosto 1862 lo stesso generale fu seriamente ferito: larga parte dell’opinione pubblica ne fu scioccata.

    Lo smacco colpì il re che, a quarantatré anni, dava segni di stanchezza e invecchiamento: appesantito e meno baldanzoso, aveva preso a tingersi capelli e baffi. Dopo una serie di esecutivi deboli e manipolabili, nel marzo del 1863 affidò l’incarico a Marco Minghetti. Abile e preparato, il politico bolognese riprese a cercare di risolvere con la Francia la questione romana. La convenzione del settembre del 1864 determinò il ritiro del contingente transalpino a Roma. La tutela del papa passava in mani italiane: per dimostrare l’assenza di mire sulla città eterna, si sarebbe dovuta spostare la capitale da Torino. Vittorio Emanuele seppe di questa clausola solo a pochi giorni dalla firma della trattativa e si trovò con le spalle al muro, come ai tempi di Cavour. Non ebbe la forza di rifiutare l’approvazione e, pur con ampie rimostranze, si accontentò della garanzia che la capitale fosse Firenze e non la ‘borbonica’ Napoli.
    La svolta sulla questione veneta arrivò invece all’inizio del 1866, quando la Prussia, ambiziosa di supremazia nel mondo tedesco, si mise in cerca di alleati in funzione antiasburgica. A fatica, Vittorio Emanuele fu distolto dai progetti ‘privati’ di nuovi accordi con la Francia o di appoggio a rivolte nei Balcani o in Ungheria: in aprile l’Italia firmò un’alleanza antiaustriaca e offensiva con Otto von Bismarck.
    La guerra fu per gli italiani un disastro (con le sconfitte di Custoza e di Lissa): il trionfo prussiano di Sadowa (3 luglio) consentì però a von Bismarck di dominare le trattative per la pace, firmata il 12 agosto. L’Italia, nonostante la pessima figura militare, ottenne il Veneto.

    I progetti del re, però, rimanevano bellicosi: una campagna militare su Roma, oltre a completare l’Unità, avrebbe cancellato l’onta delle recenti sconfitte. Nel 1867 Vittorio Emanuele si adoperò così per favorire un’insurrezione nei possedimenti papalini e per finanziare una spedizione di volontari guidati da Garibaldi. La Francia, tuttavia, intervenne a protezione del papa: il 3 novembre, a Mentana, il contingente garibaldino fu sbaragliato dai soldati di Napoleone III e Vittorio Emanuele sconfessò pubblicamente la spedizione dell’‘eroe dei due mondi’.

    Delusione e risentimento serpeggiavano nel Paese, anche perché la spesa pubblica continuava a crescere: Vittorio Emanuele, oltre a sostenere un costante aumento degli investimenti militari, godeva di un appannaggio personale enorme. Non aveva un elevato tenore di vita, ma tantissime spese: gli erano state accollate le tenute delle dinastie spodestate con l’unificazione, sprecava fiumi di denaro per ‘collaboratori diplomatici’ e compagni di scorribande; aveva poi dovuto organizzare i matrimoni dei numerosi figli.
    Il più importante fu quello di Umberto, erede al trono: dopo lunga ricerca della sposa adatta, si optò per la nipote Margherita, figlia del defunto Ferdinando di Savoia Genova, che, fascinosa ed elegante, lo colpì molto positivamente soprattutto per la propria dedizione alla causa dinastica. La cerimonia di nozze, celebrata il 22 aprile 1868, fu estremamente sontuosa.
    Nel novembre del 1869 il re cadde gravemente malato e si rese conto che di dover provvedere alla ‘bella Rosina’: il 7 novembre si unì a lei in nozze morganatiche. Nei giorni seguenti, però, le condizioni del re migliorarono: già il 12 era in piedi. Il giorno prima, a Napoli, era nato il primogenito di Umberto: presente e futuro della dinastia sembravano garantiti.

    La diplomazia personale del re era proseguita massicciamente per tutto il 1868 e il 1869, e aveva portato a un accordo offensivo-difensivo con Francia e Austria, in ottica antiprussiana. Viste le resistenze di Napoleone III su Roma, però, l’alleanza non era stata formalizzata in un trattato, ma solo delineata attraverso dichiarazioni di impegno epistolari tra i sovrani e legata all’evolversi di molte circostanze.
    Quando Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia (19 luglio 1870), Vittorio Emanuele fu colto di sorpresa: era a caccia in Val d’Aosta, dove protrasse la permanenza, incerto su come comunicare al nuovo esecutivo i propri accordi segreti con la Francia. Tentò anche un rimpasto governativo, ma senza riuscirvi. Il governo Lanza rimaneva convinto della necessità di evitare la guerra anche perché aveva varato importanti misure per il contenimento della spesa militare. Il 17 luglio il re arrivò a Firenze e cercò di precisare la propria posizione al gabinetto. Non fu impresa facile perché «la corrispondenza che Vittorio Emanuele aveva avuto con Napoleone sul trattato era privata, ed egli si accorse all’improvviso di non averne conservata copia, così non era in grado di dire a Lanza quali fossero di preciso le promesse che aveva fatto» (Mack Smith, 1972, p. 243). In definitiva il trattato non fu ratificato e tanto l’Italia quanto l’Austria rimasero neutrali. In poche settimane, peraltro, si palesò una clamorosa superiorità prussiana: il 2 settembre, già dopo la débâcle di Sedan, Napoleone firmò la capitolazione.

    Con l’aggravarsi della situazione bellica, le truppe francesi di stanza a Roma furono richiamate: era l’occasione che l’Italia aspettava da anni. Il 20 settembre i soldati del generale Raffaele Cadorna penetrarono nella città santa attraverso la breccia di Porta Pia. Un successivo plebiscito confermò l’acquisizione della capitale. Vittorio Emanuele, all’apertura della nuova legislatura, il 5 dicembre, dichiarò: «con Roma capitale d’Italia ho sciolto la mia promessa e coronata l’impresa che, ventitré anni or sono, veniva iniziata dal mio magnanimo genitore» (Pinto, 1995, p. 471).
    Il sovrano, però, non amò mai Roma, sia per il clima troppo afoso sia per la malcelata ostilità dell’aristocrazia clericale: vi soggiornò il meno possibile, lasciando a Umberto e, soprattutto, a Margherita, il compito di crearvi una corte sabauda.
    Completata l’Unità, il ‘padre della Patria’ cercò di tessere nuove alleanze europee, iniziando l’avvicinamento dell’Italia alla Germania e all’Austria. Gli ultimi successi di Vittorio Emanuele furono le visite diplomatiche a Vienna e a Berlino del 1875, ricambiate sia dall’imperatore sia dal Kaiser.

    Il suo interesse per le questioni politiche andò tuttavia scemando: si dedicò maggiormente a Rosina. Solo le resistenze dei politici e di Umberto gli impedirono di sposarla anche civilmente e di riconoscerne i figli.
    Il 29 dicembre 1877 tornò a Roma per gli adempimenti ufficiali di fine anno, ma fu subito colto da febbri. Seguitò – seppur con qualche assenza – ad assolvere ai propri compiti istituzionali fino al 6 gennaio, quando gli fu diagnosticata una febbre malarica che non si riuscì a debellare. Il vicario generale consentì la concessione del viatico. Al capezzale del re sfilarono tutti i suoi collaboratori e i suoi cari, ma un’influenza e il volere di Umberto tennero lontana Rosina.
    Il ‘gran re’ spirò a Roma nel primo pomeriggio del 9 gennaio 1878.(fonte)

    [2] Francesco Baldisserotto. Di nobile famiglia vicentina, nacque a Venezia il 10 luglio 1815 da lacopo Antonio, farmacista, e da Teresa Angela Depieri. Mentre il fratello maggiore Bernardo continuò la professione del padre, il B. compì gli studi nel collegio di marina. Divenuto ufficiale, partecipò valorosamente alla campagna di Siria del 1840, distinguendosi nella presa di S. Giovanni d’Acri. Coetaneo e compagno dei fratelli Bandiera, ne condivise gli ideali e si affiliò alla setta “Esperia” da essi fondata. Nel 1848 fu tra i primi aderenti a Venezia al moto rivoluzionario.

    Quando l’arsenale venne occupato dai rivoltosi, il B., che vi aveva un comando, alla testa dei suoi marinai si oppose valorosamente a che fosse rioccupato da un reggimento di fanteria marina, guidato dall’ungherese Boday, costringendolo a deporre le armi. Con A. Bucchia e col fiumano G. Lettis si offerse invano di recare a Pola l’ordine che richiamava a Venezia la flotta ivi ancorata, composta in gran parte da Italiani: mancato richiamo che doveva poi sinistramente pesare sulle sorti della resistenza. Partecipò attivamente alla difesa della città assediata e si distinse nella sortita di Mestre, scendendo per primo arditamente a Fusina (27 ottobre). Nel maggio successivo, comandando il presidio di Treporti, effettuò una felice sortita, cacciando il nemico da Piave Vecchia e riportando in città un prezioso vettovagliamento. Nel gennaio 1849 era stato eletto, col fratello, all’Assemblea permanente, alle cui sedute prese parte soprattutto nel maggio, quando vi fu oggetto di animate discussioni l’inerzia della marina, che il B., insieme con altri giovani ufficiali, aveva sempre deplorata, attribuendone la responsabilità al triunviro L. Graziani. Allora, con il gen. Gerolamo Ulloa e con il col. Giuseppe Sirtori, fu designato a membro della commissione, eletta “con pieni poteri a tutto che appartenesse alle cose militari” (16 giugno 1849). Ma, pur riconoscendo e condannando errori e mancanze passate, egli non si nascondeva che ben poco era da attendersi dalla marina, quando “non si trattava ormai che di tempo” e già si stavano svolgendo i primi approcci per la resa. Da tale convincimento derivò il consiglio che pare egli desse al Bucchia, comandante delle navi, quando fu decisa un’azione della flotta, di non discostarsi molto dal porto, per non esporre l’equipaggio ad un inutile sacrificio, e forse anche pel timore che la popolazione interpretasse quell’allontanamento come una defezione. Di fatto la flotta prese il mare l’8 agosto rientrando due giorni dopo senza nulla aver tentato.

    Decisa la resa, il B. fu incaricato dal Manin di allestire, d’accordo col console francese, gli otto bastimenti destinati al trasporto dei proscritti e degli esuli. Riparato a Corfù, e di là in Piemonte, per l’applicazione dell’amnistia poté più tardi ritornare a Venezia; ma allo scoppio della guerra del 1859, nel tentativo veneziano di sommossa fu, insieme con il fratello, arrestato per misura precauzionale e deportato a Josephstadt. Liberato dopo la conclusione della pace, ritornò clandestinamente in Piemonte. Nel 1860 da Genova passò in Sicilia con la spedizione Medici ed entrò nella marina siciliana insieme con altri ufficiali veneti reduci delle vicende del 1848-49. Nominato da Garibaldi capitano di fregata (16 sett. 1860), ebbe l’incarico di direttore dei R. Legni della marina siciliana e il comando della piro-corvetta mista “Vittoria”; il suo rapporto all’ammiraglio Persano da Napoli (23 ott. 1860) è la più precisa descrizione della flottiglia siciliana. Passò quindi nella marina italiana, dapprima col grado di tenente di vascello e poi (settembre 1861) di capitano di fregata. Collocato, a riposo nel 1869 come capitano di vascello, si stabilì a Vicenza, ove morì il 6 dic. 1881.(fonte)

    [3] Luigi Federico.Menabrea. (Louis-Frédéric). – Nacque a Chambéry il 6 sett. 1809 dall’avvocato Ottavio Antonio e da Margherita Pillet.

    All’età di otto anni entrò nel locale collegio dei gesuiti dove si formò nel clima intellettuale savoiardo della Restaurazione, in particolare sotto la guida dell’abate L. Rendu, futuro vescovo di Annecy, e del dotto G.-M. Raymond. Dotato di talento per le materie scientifiche, dall’ottobre del 1828 proseguì gli studi all’Università di Torino, iscrivendosi alla facoltà di scienze. Tra gli allievi prediletti di G. Plana e G. Bidone, conseguì dapprima la laurea in ingegneria idraulica, il 30 giugno 1832, poi quella in architettura civile il 17 genn. 1833.

    Segnalatosi agli occhi di re Carlo Alberto, ottenne motu proprio dal sovrano il 26 marzo 1833 il brevetto di luogotenente nello stato maggiore del genio. Superati gli esami presso l’Accademia militare di Torino, come sostituto del dimissionario tenente C. Benso conte di Cavour, venne assegnato per un breve periodo al gruppo di lavoro impegnato nella ricostruzione del forte di Bard. Ottenuta la libera docenza in matematica nel dicembre del 1835, a Torino fu insegnante di meccanica applicata, balistica, geometria e geodesia nella scuola d’applicazione e di geometria descrittiva all’Accademia militare.

    I successi in campo scientifico giunsero all’inizio del 1839, allorché in seguito alla presentazione di una memoria relativa al calcolo della densità della Terra (Calcul de la densité de la Terre: suivi d’un mémoire sur un cas spécial du mouvement d’un pendule, Turin 1839) ottenne la nomina a membro residente della classe di scienze matematiche e fisiche presso l’Accademia delle scienze di Torino, istituzione che subito lo incaricò di esaminare per conto del governo le richieste di brevetti.

    Promosso al grado di capitano il 13 marzo 1839, negli anni Quaranta fu impegnato in una intensa attività di ricerca.

    Convinto sostenitore della macchina calcolatrice di C. Babbage, per cui un suo articolo fu dallo stesso scienziato inglese fatto tradurre da Ada Byron (Sketch of the analytical engine invented by Charles Babbage, London 1843), il M. pubblicò studi sul movimento del pendolo composto, sulle quadrature (Mémoire sur les quadratures, Turin 1844) e poi, in successione, fino al 1847, tre memorie in difesa della serie di J.L. Lagrange (Relazione sopra una memoria del sig. prof. F. Chio intorno alla convergenza e le proprietà della formola di Lagrange, s.l. 1843; Études sur la série de Lagrange, Turin 1844-47 e Observations sur la veritable interprétation de la série de Lagrange, ibid. 1847) criticata dai matematici F. Chiò e A. Genocchi, fautori del metodo analitico di A. Cauchy.

    Nobilitato il 30 dic. 1843 insieme con il fratello Leone, avvocato e storico, il 10 ott. 1846 il M. ottenne la nomina a professore effettivo di scienze delle costruzioni e geometria pratica presso l’Università di Torino, diventando da allora maestro di una schiera di illustri ingegneri come G. Sommeiller, S. Grattoni, S. Grandis, B. Brin, Q. Sella. L’esordio nella vita pubblica avvenne con un’effimera collaborazione a La Concordia di L. Valerio.

    Distanziatosi dal gruppo democratico, allo scoppio della prima guerra d’indipendenza fu incaricato da C. Balbo di una missione diplomatica presso i governi provvisori di Parma e Piacenza e di Modena e Reggio. Dal 25 marzo al 20 luglio 1848 si fece promotore negli ex Ducati del sostegno sardo contro le mire egemoniche austriache e le tendenze centrifughe rispetto alla costituzione di un regno dell’Alta Italia. Nominato commissario regio presso le truppe pontificie del generale G. Durando, riuscì a mobilitare dalle terre emiliane un contingente costituito da 2200 regolari e 1000 volontari. Eletto deputato il 26 giugno 1848 nel collegio di Verrès, la sua elezione fu annullata perché dal 29 luglio fu impegnato nella riorganizzazione dell’esercito sardo in veste di primo ufficiale al ministero della Guerra. Durante tale periodo il M. ottenne un avanzamento di carriera: dopo essere stato insignito «per mano regale al quartier generale di Roverbella» (Bulferetti, p. 209) il 5 luglio della croce di cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per la missione in Emilia, il 26 agosto venne promosso al grado di maggiore. Il 23 settembre passò al ministero degli Esteri sempre come primo ufficiale, conservando l’incarico fino al dicembre, allorché V. Gioberti lo dispensò dalle funzioni mantenendogli grado e prerogative. Intanto il 30 sett. 1848 era stato rieletto deputato per il collegio di Verrès. Membro straordinario del Consiglio del genio dal 5 genn. 1849, alla nomina del gabinetto De Launay riprese le funzioni di primo ufficiale nel ministero degli Esteri, carica che mantenne fino al 14 marzo 1850, oramai sotto il ministero d’Azeglio, quando il M. si dimise coerentemente con il voto contrario da lui dato alla legge sulla soppressione del foro ecclesiastico, episodio che lo fece subito diventare «oggetto di vessazione nei fogli periodici degli avversari politici e persino in Parlamento» (ibid., p. XVIII). Sconfitto pesantemente a Verrès nel gennaio del 1849, nelle suppletive del 20 marzo venne eletto alla Camera per il collegio di Saint-Jean-de-Maurienne, distretto che lo votò ininterrottamente dalla II alla VI legislatura.

    Rifiutata la legazione di Madrid offertagli da M. d’Azeglio, venne promosso colonnello il 10 agosto.

    Esponente della destra savoiarda, il M. fu assiduo ai lavori parlamentari, anche se «schieratosi fra quelli che o per timorata coscienza, o per grettezza municipale, o per paura di catastrofi osteggiavano l’indirizzo politico per il quale il Piemonte si faceva vessillifero di nazionalità, tardi entrò in quel giro d’uomini e di idee con che fu fatta leva ai tristi governi della penisola» (Atti parlamentariSenato, Discussioni, tornata del 28 maggio 1896). Durante le sedute che sancirono la nascita del connubio, prendendo spunto dall’intervento del M. che aveva denunciato il «veleggiare» del ministero verso altri «lidi parlamentari», Cavour lo accusò di «essere a capo di coloro che […] si preoccupano delle idee di conservazione, a tal punto da dimenticare i grandi principii di libertà» (Atti parlamentariCameraDiscussioni, tornata del 5 febbr. 1852). Sebbene il M. fosse avverso alla politica liberale specialmente in materia religiosa – votò contro le leggi sul matrimonio civile (discorso alla Camera del 28 giugno 1852) e la soppressione degli ordini contemplativi – non arrivò mai tuttavia al punto di schierarsi con l’estrema destra dei cosiddetti «arrabbiati».

    Le posizioni politiche costituirono però un ostacolo all’avanzamento di carriera: il voto di astensione dato al trattato di alleanza per la guerra in Crimea costò al M. il risentimento del ministro della Guerra A. Ferrero Della Marmora, che non lo chiamò a far parte del contingente in partenza per quella spedizione. Ciò non gli impedì di proseguire con successo l’attività scientifica: nel 1857 arrivò a formulare il suo celebre principio di elasticità, pubblicato come memoria (Nouveau principe sur la distribution des tensions dans les systèmes élastiques) nei Comptes-rendus de l’Académie des sciences di Parigi (poi, in volume a parte, Paris 1858). All’epoca delle tornate elettorali del 1857 il M. era riconosciuto oramai come uno fra gli uomini di punta della destra conservatrice, tanto che, rotto il connubio, si pensò addirittura a una combinazione ministeriale Cavour-Menabrea. Sotto l’impressione dell’attentato di F. Orsini, nell’ultimo discorso tenuto in veste di deputato nell’aprile del 1858, il M., nominato il 25 marzo ispettore e membro del Consiglio superiore del genio, appoggiò la legge per la repressione della cospirazione contro i sovrani e l’apologia dei crimini politici. Collaboratore dell’esecutivo per quanto riguarda il sostegno per il traforo delle Alpi e presidente della commissione per la formazione del nuovo catasto, nel maggio del 1858, a norma delle determinazioni del congresso di Parigi, fu designato dal governo membro della commissione per la messa in opera della libera navigazione sul Danubio, ruolo che svolse con grande competenza. Meritatosi la fiducia di Cavour, per la collaborazione con i liberali si attirò aspre critiche da parte dei colleghi della destra savoiarda.

    Il 22 apr. 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, venne promosso al grado di maggiore generale. Comandante superiore del genio, dal 20 al 30 apr. 1859 progettò e coordinò i lavori di fortificazione lungo la Dora Baltea al fine di impedire l’avanzata delle truppe austriache verso Torino e favorire, nel contempo, il congiungimento dell’esercito francese con quello sardo. Deciso a non perdere l’appoggio del M., fortemente legato alla terra d’origine, Cavour propose il suo nome al laticlavio «per togliere alla deputazione savoiarda il suo campione più temibile» (lettera di Cavour ad Arese, 28 febbr. 1860). Nominato senatore il 29 febbr. 1860, il M. votò per la cessione della Savoia alla Francia optando quindi per la nazionalità italiana. A Torino oramai da 27 anni (fece tra l’altro parte del Consiglio comunale dal 1848 al 1850, e poi di nuovo dal 1860 al 1864), sposato dal 5 luglio 1846 con Carlotta Richetta, dei conti di Valgoria, il M. «ne pouvait envisager son avenir ailleurs que dans le pays avec lequel – sans oublier pour autant la Savoie – il avait tant de liens» (Guichonnet, pp. 79 s.).

    All’attività politica continuò ad affiancare quella militare. Nuovamente membro del Consiglio e del Comitato superiore del genio, ispettore generale nella stessa arma dal settembre del 1859, il M. venne promosso luogotenente generale il 7 sett. 1860 in occasione della campagna nell’Italia centrale e nel Mezzogiorno. Organizzata la difesa di Bologna, con le truppe del genio inquadrate nella 4ª e 5ª divisione condusse gli attacchi ad Ancona e Capua, dirigendo infine l’assedio di Gaeta in concorso con il generale E. Cialdini. Nominato commendatore e poi grande ufficiale dell’Ordine Mauriziano nel giro di pochi mesi (10 ott. 1860; 29 dic. 1860), grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia (3 ott. 1860) e poi gran croce (1° apr. 1861), divenne aiutante di campo onorario di Sua Maestà il 9 giugno 1861. Insignito della medaglia d’oro al valor militare per essersi distinto durante l’assedio e la presa di Capua, il 9 nov. 1861 gli fu concesso motu proprio da Vittorio Emanuele II il titolo trasmissibile di conte.

    All’apice della carriera e degli onori, presidente del Comitato del genio dal 28 febbr. 1861 e membro del consiglio dell’Ordine militare di Savoia, il 12 giugno ebbe l’incarico di ministro della Marina nel primo gabinetto Ricasoli. In tale ruolo si impegnò nei difficili compiti di sciogliere l’armata meridionale di G. Garibaldi, amalgamare la flotta da guerra napoletana con quella sarda, migliorare la condizione dei porti militari, realizzare l’arsenale di La Spezia. Dal 23 genn. 1862 fu membro della Commissione permanente a difesa generale dello Stato. Caduto il governo Ricasoli il 3 marzo, tornò nuovamente al governo l’8 dicembre in veste di ministro dei Lavori pubblici nei governi guidati da L.C. Farini e poi da M. Minghetti (dal 22 al 25 genn. 1863 tenne l’interim della Marina).

    Nel nuovo ruolo, detenuto fino alla fine del 1864, il M., nonostante le disastrose finanze pubbliche, inaugurò un grande progetto infrastrutturale realizzatosi con la creazione di una base navale militare a Brindisi e la messa in opera di 2000 km di ferrovie. Fu inoltre durante il suo dicastero che si realizzò la prima serie di francobolli delle Poste italiane.

    Nel 1864 venne incaricato da Vittorio Emanuele II di una missione presso Napoleone III al fine di ridiscutere i termini della convenzione di settembre, specialmente l’articolo riguardante il trasferimento della capitale d’Italia, ma la missione si risolse in un nulla di fatto. Collaboratore nel 1865 di C. Cadorna nell’elaborazione delle leggi di «unificazione amministrativa» del Regno e nella redazione dei nuovi codici, nel 1866 il M. partecipò alla terza guerra di indipendenza in veste di comandante supremo del genio contribuendo alla fortificazione della linea sul Mincio. Cessate le ostilità, il 3 luglio venne designato come plenipotenziario per la firma della pace e il 4 novembre ottenne il collare dell’Annunziata; consegnò poi al re l’antica corona ferrea lombarda insieme con i risultati del plebiscito delle popolazioni venete. Intimo oramai di Vittorio EmanueleII, il 2 genn. 1867 ebbe la nomina di primo aiutante di campo del re, ruolo che contribuì a renderlo partecipe della politica personale condotta dal sovrano.

    Alla caduta del secondo ministero Ricasoli nel marzo del 1867, il re avrebbe voluto affidargli l’incarico di procedere alla formazione di un nuovo governo, ma l’improvvisa morte del figlio Ottavio, avvenuta il 5 aprile, indusse il M. a declinare il compito, e il governo fu costituito da U. Rattazzi. L’assunzione della carica di primo ministro fu però solo rimandata. Dopo il disastro di Mentana e sotto la minaccia di uno scontro con la Francia, il 26 ott. 1867, Vittorio Emanuele II, dopo il fallimento di E. Cialdini, impose al M. di formare un gabinetto.

    Nato nel giro di poche ore in un momento di estrema crisi, il primo ministero Menabrea segnò una rottura tra la prassi parlamentare di supremazia della Camera, consolidata da Cavour, e la norma costituzionale ripristinata dal monarca (Guichonnet, p. 83). Nel clima pesante provocato dall’arresto di Garibaldi, il M., che aveva mantenuto per sé i dicasteri della Marina e degli Esteri, venne tacciato di essere a capo di un governo di corte dalla natura extraparlamentare, i cui membri professavano un culto quasi fanatico della monarchia. Costituito esclusivamente da senatori, alti funzionari e notabili, il governo, presentatosi alla Camera il 5 dic. 1867, fortemente sbilanciato a destra, fu violentemente attaccato dalle forze democratiche e fu di brevissima durata, cadendo (primo caso in assoluto) per la sfiducia parlamentare sancita il 22 dic. 1867 su un ordine del giorno rigettato per due soli voti.

    Nonostante le dimissioni e l’impopolarità, il re incaricò il M. di formare il nuovo governo.

    Sebbene più moderato della precedente compagine, per l’alleanza della Destra con il cosiddetto «terzo partito» di A. Mordini e A. Bargoni, al governo che prese forma il 5 genn. 1868 mancò l’appoggio dei grandi statisti piemontesi come Q. Sella e G. Lanza, così come degli influenti rappresentanti della «consorteria». Formato quasi esclusivamente da ministri settentrionali, il governo si attirò inoltre le aspre critiche dei latifondisti e dei radicali del Mezzogiorno. Il programma del M. fu incentrato principalmente sulle riforme dell’amministrazione e sul risanamento delle disastrate finanze dello Stato. Fu in quel contesto che venne approvata l’impopolare tassa sul macinato. Fortemente osteggiato dalla «permanente» piemontese, il secondo governo Menabrea non riuscì a controllare il divario crescente tra paese reale e paese legale. All’interno della compagine ministeriale, alla fine dell’anno C. Cadorna fu costretto a dimettersi da ministro dell’Interno per la bocciatura del suo progetto di decentramento amministrativo, così come la riattivazione dell’imposta di ricchezza mobile e l’applicazione della tassa sul macinato provocarono numerose rivolte e sanguinose repressioni nel paese. In fatto di politica estera poi, il M. non riuscì a condurre in porto la triplice alleanza con Francia e Austria, accordo che avrebbe portato alla soluzione «morale» della questione romana come lui auspicava.

    Nonostante la fiducia accordatagli, il M. decise di dimettersi il 3 maggio 1869 con il proposito di formare un esecutivo più solido. La compagine presentatasi il 13 maggio si trovò però ben presto investita dai sospetti di illeciti e speculazioni provocati dall’approvazione della legge sulla Regia cointeressata dei tabacchi. Il M., che optava per uno scioglimento della Camera cui il sovrano si opponeva decisamente, alla riapertura della sessione parlamentare si trovò in una situazione pressoché insostenibile: le defezioni di diversi ministri e soprattutto l’elezione di G. Lanza alla presidenza della Camera sul candidato ministeriale A. Mari segnarono la fine della sua esperienza come presidente del Consiglio; il M. rassegnò le dimissioni al re il 23 novembre. L’allontanamento dal ministero si accompagnò a quello dagli ambienti di corte: in seguito al veto posto dal nuovo presidente G. Lanza sui ministri-cortigiani, il M. fu costretto a lasciare il 15 dicembre il comando della casa militare.

    Dopo questo pesante ostracismo politico egli si dedicò a un’intensa attività diplomatica, che nei primi anni Settanta lo portò a ricoprire importanti incarichi onorifici, come nel 1873 quando fu inviato come rappresentante del governo a Stoccolma per l’incoronazione di Oscar II o nel 1874, quando a Venezia ricevette per conto di Vittorio Emanuele II l’imperatore Francesco Giuseppe in visita ufficiale in Italia.

    Ritornato a svolgere le funzioni di senatore, a seguito dell’occupazione di Roma il M. aveva preso definitivamente le distanze dalla destra clericale votando il 13 maggio 1871 a favore della legge delle guarentigie. Presidente del consiglio d’amministrazione dell’Ordine dell’Annunziata e della Consulta araldica, il 10 dic. 1875, in memoria della sua partecipazione alla seconda guerra d’indipendenza, Vittorio Emanuele II gli conferì il titolo di marchese di Val Dora.

    Personaggio rinomato a livello internazionale, uno degli ultimi atti del secondo governo Minghetti fu quello di nominare il M. ambasciatore a Londra il 4 apr. 1876, scelta confermata il 14 dalla nuova maggioranza presieduta da A. Depretis. Nella capitale inglese il M. svolse la sua missione per più di sei anni, circondato dalla stima come soldato, politico e studioso. L’11 nov. 1882 venne destinato all’ambasciata di Parigi, dove soggiornò per quasi un decennio, fino agli inizi del 1892 allorché ottenne il congedo.

    Socio di numerose accademie scientifiche italiane e straniere, ricevette le lauree honoris causa in civil law dalle Università di Oxford e Cambridge. Nonostante questi prestigiosi riconoscimenti, culmine di una straordinaria carriera, la vecchiaia del M. fu amareggiata dalle accuse di avere patrocinato nel 1891 presso il presidente del Consiglio, F. Crispi, la nomina a cavaliere di gran croce dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro dell’affarista Cornelius Herz, dal quale aveva ricevuto alcuni favori mentre era ambasciatore a Parigi.

    Ritiratosi nella sua proprietà di Saint-Cassin alle porte di Chambéry, il M. vi morì il 25 maggio 1896.(fonte)