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Achille Starace, 1928

    Achille Starace, 1928

    PARTITO NAZIONALE FASCISTA[1]
    DIRETTORIO NAZIONALE
    VIA DEL SUDARIO 14 – ROMA – CORSO VITT. EMAN, 116

    Segreteria Politica
    T.

    Roma (17) 9.2.1928=VI
    TELEF. 3-27 – 9-80 – 43-19

    SIGNOR GR.UFF. DOMENICO DELLI SANTI[2]

    Segretario Generale del Governatorato

    ROMA

    Caro Delli Santi,

    gradirei conoscere l’esito della do=
    manda inoltrata dalla signorina ELENA DEL SORDO, fendente ad
    ottenere un posto di insegnante presso il Dopo=Scuola di co=
    desto On. Governatorato.
    Cordiali saluti

    ACHILLE STARACE[3]

    11.2.28 VI

    – rispondere assicurando che si
    scrive subito al Patronato

    – scrivere al Patronato
    D degli Santi

    Nota a lato: non risultano presenti


    Note

    [1] PARTITO NAZIONALE FASCISTA (PNF) Partito politico italiano fondato l’8 novembre 1921 al teatro Augusteo di Roma durante il 3° Congresso nazionale dei Fasci italiani di combattimento fondati da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919. Inizialmente a carattere rivoluzionario e con vocazione antipartitica, il movimento fascista aveva da tempo cominciato a mutare pelle con l’immissione di elementi che guardavano a esso come a uno strumento utilizzabile in chiave antisocialista e antipopolare. Da fenomeno prevalentemente «urbano» il fascismo era diventato un fenomeno «rurale» e si era rapidamente espanso sull’intero territorio nazionale, caratterizzandosi, attraverso lo «squadrismo», come una forza che raccoglieva ormai anche settori della piccola e media borghesia intellettuale e impiegatizia e che era divenuta funzionale agli interessi sia degli agrari e degli industriali zuccherieri preoccupati di ristabilire l’ordine nelle campagne sia dei nuovi proprietari, già affittuari e mezzadri, che avevano acquistato terre svendute per paura. La trasformazione in un vero e proprio partito, il PNF, comportò la creazione di una struttura organizzativa definita nello Statuto-Regolamento generale approvato dal congresso. Il documento disegnava un modello di partito, per un verso simile a quelli operanti in Parlamento (organi dirigenti ne erano il Consiglio nazionale, il Comitato centrale, la Direzione, la Segreteria generale) e per altro verso con una impronta militare evidente negli articoli che definivano le modalità di costituzione dei fasci (le sezioni locali del PNF) dotati di un proprio «gagliardetto di combattimento» e di «squadre di combattimento» e raggruppati in Federazioni provinciali. In seguito lo statuto del PNF sarebbe stato rivisto più volte, nel 1926, nel 1929, nel 1932, nel 1938. Primo segretario generale del PNF fu eletto M. Bianchi , che rimase in carica per un anno fino al momento in cui entrò a far parte del governo Mussolini costituito dopo la marcia su Roma. Gli successero prima N. Sansanelli (nov. 1922-ott. 1923) e F. Giunta (ott. 1923-apr. 1924) poi un quadrumvirato composto da R. Forges Davanzati, C. Rossi, A. Melchiori, G. Marinelli (apr. 1924-febbr. 1925). Dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria annunciata con il discorso del 3 genn. 1925, Mussolini decise di mettere ordine nel partito, dove si erano manifestate forze centrifughe e dissidenze, e chiamò a reggerne la segreteria R. Farinacci (febbr. 1925-marzo 1926). Questi, convinto che al partito dovesse spettare un ruolo prioritario nella vita del Paese anche nei confronti delle istituzioni, riportò in esso disciplina e compattezza potenziandone le strutture. L’idea che Farinacci aveva del partito era opposta a quella di Mussolini che riservava allo Stato una funzione di supremazia sul partito. Per questa ragione, una volta riconquistato il controllo del partito grazie al suo potenziamento, Mussolini provvide alla sostituzione di Farinacci con A. Turati (marzo 1926-ott. 1930) e fece approvare un nuovo statuto del partito (ott. 1926) che, tra l’altro, ne limitava l’autonomia e aboliva ogni forma di elezionismo. La segreteria di Turati fu caratterizzata, anche attraverso l’epurazione dei suoi quadri, dalla trasformazione del PNF in un corpo sempre più burocratico e sempre più inquadrato nel regime. Pur cercando di eliminare il dualismo partito-Stato a favore di quest’ultimo, Turati si batté per la valorizzazione del partito concepito come fucina di elementi destinati a costituire il nucleo di una nuova classe dirigente di uno Stato sempre più presente nella vita del Paese. Sotto la sua guida fu ampliata, nel quadro del più generale progetto di fascistizzazione della società italiana, la sfera delle iniziative e delle attribuzioni del partito in molti campi, da quello assistenziale a quello sportivo, da quello scolastico a quello sindacale. A succedere a Turati fu chiamato G. Giuriati (ott. 1930-dic. 1931), il quale proseguì l’opera di epurazione (furono espulsi dal partito circa 120.000 iscritti) e potenziò il ruolo del partito in settori della società (mondo giovanile, universitario, femminile e via dicendo) meno curati dal predecessore. La segreteria successiva, affidata ad A. Starace (dic.1931-ott. 1939), fu la più lunga dell’intera storia del PNF. Starace portò avanti la devitalizzazione politica del partito anche attraverso l’esasperazione di aspetti coreografici e militareschi e attraverso l’accentuazione del culto del duce. Al tempo stesso, nelle sue intenzioni e dello stesso Mussolini col quale egli lavorò all’unisono, il partito, soggetto alla piena subordinazione politica del duce, doveva diventare centro propulsore di larghi settori della vita nazionale: di qui una serie di provvedimenti come la riapertura delle iscrizioni al PNF in occasione del decennale e l’adozione di regolamenti rigidi per le organizzazioni (giovanili, femminili, scolastiche, di lavoratori ecc.) dipendenti dal partito. In questa stessa ottica si inserisce la concessione, nel 1937, del rango di ministro al segretario del PNF. Dopo Starace si susseguirono alla segreteria del partito E. Muti (nov. 1939-ott. 1940), A. Serena (nov. 1940-dic. 1941), A. Vidussoni (dic. 1941-apr. 1943), C. Scorsa (apr. 1943, luglio 1943), senza alcun sostanziale mutamento dalla linea seguita da Starace. Dopo la caduta del fascismo, Badoglio decretò lo scioglimento del PNF il 27 luglio 1943. Il 13 settembre Mussolini costituì un nuovo Partito fascista repubblicano, che cessò la sua esistenza il 28 aprile 1945.(fonte)

    [2] Domenico Delli Santi (Barletta, 3 gennaio 1879 – Roma, 2 novembre 1951), avvocato amministrativista, è stato Commissario delegato alla Presidenza dell’INU, indicato dal Consiglio Direttivo provvisorio, dal 1944 al 1948, in una fase assai travagliata per la vita dell’Istituto.

    Immesso in carriera ministeriale per pubblico concorso il 15 luglio 1905, ha prestato servizio presso le sedi di Lecce, Pavia, Ministero, Modena, Ministero per le Terre Liberate, Ministero, Chiavari, La Spezia, Trieste, Ministero dell’Economia Nazionale (a disposizione del Sottosegretario), Ministero. Viceprefetto a disposizione del Prefetto di Torino per incarico presso quella Amministrazione Comunale.
    Nominato prefetto di 2ª classe il 16 dicembre 1926, è stato Regio Commissario del Comune di Palermo da aprile ad agosto del 1925 ed Ispettore Generale nell’Alto Adige. Ed infine Segretario Generale del Governatorato di Roma (dicembre 1926 – ottobre 1928). Collocato a riposo per ragioni di servizio nel novembre 1928, si dedico all’attività forense e a quella culturale.

    Durante la prima guerra mondiale fu nominato Commissario Civile in zona di operazioni e Capo di Gabinetto del Segretario Generale Civile del Comando Supremo.
    Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia. Ufficiale dell’Ordine Mauriziano.

    È stato direttore responsabile della rivista Capitolium, rassegna di attività municipale del Comune di Roma dal 1925 al 1936; e condirettore, con Pietro Baldassarre, della rivista mensile Concessioni e Costruzioni, (rivista attiva tra il 1939 e il 1943).
    Il 23 febbraio 1947 entrò a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca di Roma.

    Scritti:
    «L’opera del Governo Fascista per Roma (1927-28)», in Capitolium, 1927-28, III, pp. 637-656.(fonte)

    [3] Achille Starace. Nacque a Sannicola (allora frazione di Gallipoli), in provincia di Lecce, il 18 agosto 1889, da Luigi, affermato commerciante di oli e di vini, e dalla nobildonna Francesca Vetromile dei baroni di Palmireto, una facoltosa famiglia del Salento. Achille aveva due fratelli più grandi, e quattro sorelle di lui più giovani.

    Trasferitosi a Venezia nel 1905, s’iscrisse a una scuola tecnica, conseguendo il diploma di ragioniere. Nel 1909 si sposò con la triestina Ines Massari, da cui avrebbe avuto due figli, Francesca, detta Fanny, e Luigi (un terzo figlio, Vincenzo, morì alla nascita). Nello stesso 1909 fu richiamato alle armi come ufficiale nel corpo dei bersaglieri, e, terminato il periodo di leva, firmò per trattenersi in servizio.

    Nell’agosto del 1914 si fece notare a Milano, in Galleria, per l’aggressione ai danni di un gruppo di manifestanti pacifisti. Partecipò alla prima guerra mondiale comportandosi valorosamente e guadagnandosi una medaglia d’argento, quattro di bronzo, due croci di guerra e la promozione a capitano.

    Nel dopoguerra aderì tra i primi al movimento dei fasci, e nel 1920 fu inviato da Benito Mussolini a fare il segretario del fascio a Trento, dove si distinse per la ferocia con cui condusse alcune azioni squadristiche. Nel congresso di fondazione del Partito nazionale fascista (PNF) del novembre 1921, fu nominato vicesegretario (insieme a Giuseppe Bastianini e Attilio Teruzzi).

    Nell’ottobre del 1922 partecipò alla marcia su Roma al comando delle squadre della Venezia Tridentina, di Verona, Vicenza e Padova. In quanto vicesegretario, entrò a far parte di diritto del Gran consiglio del fascismo, il massimo organo direttivo del partito. Nel 1923 venne incaricato di seguire la pubblicazione del nuovo settimanale dei giovani fascisti, Il giornale dei Balilla. Lasciò la carica di vicesegretario nell’ottobre 1923, quando venne inviato a Trieste a ricoprire il ruolo di comandante della sede locale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Venne eletto deputato nelle elezioni politiche dell’aprile 1924. Dal 1926 fu di nuovo vicesegretario del partito.

    Nel 1931 venne scelto per succedere a Giovanni Battista Giuriati nella carica di segretario del partito, che avrebbe ricoperto ininterrottamente fino all’ottobre del 1939, quando sarebbe stato sostituito da Ettore Muti.

    Dopo la ‘cura dimagrante’ nel numero degli iscritti portata a termine dai due precedenti segretari, Augusto Turati e Giuriati, e nella prospettiva delle imminenti celebrazioni del decennale del regime (1932), Starace riaprì le iscrizioni, e l’afflusso dei giovani – quelli che, come disse Mussolini, non avevano fatto né la guerra del 1915-18 né la ‘rivoluzione’ fascista – fu imponente: il partito passò in un anno da 1 milione circa di iscritti a 1 milione e 415.000.

    Il nuovo statuto del PNF, fatto approvare da Starace, formalizzava la più stretta dipendenza del partito da Mussolini e lo svuotamento dell’autorità del Gran consiglio. Limitando i propri compiti essenzialmente agli aspetti organizzativi e propagandistici, Starace annesse al partito alcune organizzazioni che fino ad allora erano riuscite a garantirsi un minimo di autonomia, tra cui l’Opera nazionale dopolavoro (OND). Dette inoltre un forte impulso all’Opera nazionale Balilla (ONB) e a tutto il movimento giovanile fascista, un impulso che raggiunse il suo culmine nella costituzione, nel 1937, di un’unica organizzazione, la Gioventù italiana del Littorio (GIL), che raccoglieva l’eredità sia dell’ONB sia dei Fasci giovanili e delle Giovani fasciste, inquadrando di fatto nelle proprie file tutti i giovani di ambo i sessi dai sei ai ventun anni. Anche i giovani universitari furono oggetto del ‘furore organizzativo’ di Starace, che avviò, con la costituzione dei Littoriali dello sport, la valorizzazione delle attività sportive e agonistiche, alle quali attribuiva importanza fondamentale per legare i giovani universitari al regime. Anche le iniziative culturali dei Gruppi universitari fascisti (GUF) ebbero un notevole impulso. Si cercò nel contempo di rafforzarne i processi di penetrazione a carattere politico-ideologico attraverso una presenza ossessiva del partito sulla stampa universitaria, nel teatro sperimentale, nei Cine-GUF e nei Littoriali della cultura, e con l’affidamento ai giovani universitari di corsi di preparazione politica da condurre presso le federazioni.

    Ma dove Starace lavorò con più costanza fu nell’introduzione nella vita del regime di usi e rituali, imposti tramite i cosiddetti Fogli di disposizioni, che avrebbero dovuto forgiare lo ‘stile fascista’, preludio alla formazione dell’uomo nuovo del regime. A questa stagione appartennero l’introduzione del saluto romano, l’uso del voi al posto del lei e di Duce al posto di Capo, il ricorso massiccio all’esibizione pubblica di divise e medaglie, l’iscrizione sui muri delle città delle frasi celebri di Mussolini, il divieto tassativo di termini e nomi di origine straniera, i giochi ginnici, i raduni oceanici, l’istituzione del ‘sabato fascista’, con le prestazioni di ciascuno dei partecipanti annotate su un «libretto personale di valutazione dello stato fisico e della preparazione del cittadino» (Nolte 1963; trad. it. 1971, p. 380). Starace dette vita, insomma, a quella che un altro dirigente del partito, Giuseppe Bottai (1982, 1989), chiamò una «dittatura formalistica e cancelleresca» (p. 489).

    Nei grandi eventi Starace cercò sempre di garantire a Mussolini il concorso delle folle, che egli radunava attivando in modo capillare le strutture periferiche e territoriali del partito.

    Starace si mostrò un fedele esecutore delle direttive di Mussolini anche quando si trattava di liberare il capo del fascismo da dirigenti locali del PNF divenuti politicamente ‘ingombranti’.

    Nella veste di vicesegretario, già tra la fine del 1928 e i primi mesi del 1929, incaricato da Mussolini di risolvere la spinosa questione della liquidazione politica di Mario Giampaoli, segretario della federazione di Milano, si era distinto per determinazione e assenza di scrupoli nel liberarsi di quest’ultimo – ormai inviso a Mussolini perché fautore di un fascismo ‘di sinistra’ – e nell’avviare un’ampia epurazione tra le file dei suoi seguaci.

    Nella veste di segretario si trovò subito, tra la fine del 1931 e gli inizi del 1932, ad affrontare il caso di Carlo Scorza, segretario della federazione di Lucca, che, su richiesta di Mussolini, fu allontanato dal Direttorio nazionale del PNF, inseguito da accuse infamanti, fatte circolare ad arte da Starace, che riguardavano anche voci su uno sfrenato affarismo di Scorza e di alcuni membri della sua famiglia. In realtà Scorza dava fastidio a Mussolini poiché si era esposto troppo nella polemica con il Vaticano sulla questione dell’Azione cattolica, sviluppatasi nel corso della primavera-estate del 1931. Una volta raggiunto l’accordo con la S. Sede (2 settembre 1931), Mussolini aveva deciso di sacrificare sull’altare della ritrovata sintonia l’uomo più inviso alle gerarchie d’oltretevere. Starace fu in quell’occasione l’esecutore della sentenza.

    Stesso ruolo giocò qualche anno dopo nella liquidazione di Leandro Arpinati, segretario della federazione di Bologna, che non solo venne cacciato dal partito ma addirittura subì il confino. Arpinati aveva sempre manifestato insofferenza per l’ala intransigente del fascismo e verso i tentativi di Starace di militarizzare il partito e il Paese. Nella primavera del 1933 espresse, per di più, critiche verso la politica economica del regime, incentrata sul progetto corporativo. Il vago liberismo di Arpinati in materia economica, espresso anche in pubblico, dette fastidio a Mussolini, che trovò di nuovo in Starace il fido esecutore delle sue direttive. Arpinati, defenestrato, venne in seguito, come detto, spedito al confino, e, come aveva fatto con Giampaoli e i suoi seguaci, Starace iniziò una vasta epurazione nel partito bolognese, con la cacciata di tutti i fedeli di Arpinati.

    In occasione della guerra d’Etiopia (ottobre 1934-maggio 1935) volle dare l’esempio dello spirito guerriero che avrebbe dovuto animare l’uomo fascista: partecipò così all’ultima fase del conflitto, nel corso della quale si fece notare per la sua crudeltà verso i prigionieri etiopi. Partito dalla capitale dell’Eritrea, Asmara, a metà di marzo del 1935, alla testa di una colonna celere di bersaglieri, entrò a Gondar il 1° aprile, raggiungendo successivamente il lago Tana. Si trattò di una marcia senza battaglie, con un nemico ormai sconfitto e in fuga. Starace pubblicò sulla sua ‘impresa’ africana un libro di memorie, La marcia su Gondar (1936), infarcito di una retorica fastidiosa per i toni epici con cui egli esaltava l’evento, nel patetico tentativo di celare l’assenza di una sia pur minima scaramuccia con il nemico. Ma le stesse relazioni della polizia segreta (l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo, OVRA) descrivono l’avanzata della sua colonna nell’Etiopia occidentale come «una marcia automobilistica priva di reali incognite» (cit. in Festorazzi, 2002, p. 149).

    La segreteria staraciana del partito è stata oggetto di analisi storiografiche controverse, ma riteniamo che sia stato Renzo De Felice (1974, 1996) a metterne meglio a fuoco i caratteri (pp. 216-220). Dopo avere definito Starace un «uomo di scarsa intelligenza, animato da una mentalità grettamente militaresca e niente affatto politica», lo storico restringeva a tre i riflessi negativi che lo staracismo ebbe sulla vita del partito fascista e più in generale sul regime: la «depoliticizzazione e la burocratizzazione del PNF e la sua trasformazione in una super organizzazione di massa in funzione del consenso»; il progressivo venir meno del partito «come effettivo strumento politico», con la conseguente trasformazione del gruppo dirigente fascista «in tanti notabili senza reale potere proprio»; infine, la mancata formazione di una nuova classe dirigente fascista, che lo storico indicava come l’unico modo «per cercare di scongiurare i pericoli insiti nella nuova realtà del regime e per poter pensare ad una sopravvivenza del fascismo o, meglio, ad una nuova ‘civiltà fascista’ dopo Mussolini». De Felice considerava quindi una prova della poca intelligenza politica di Starace la soddisfazione che questi non nascondeva di fronte agli apparenti successi della sua azione nell’inquadramento delle masse, organizzate «con criteri essenzialmente burocratici», e nella loro partecipazione alla vita del regime «solo su basi emotive e coreografiche (in parte coattive)». Concludeva come la segreteria di Starace avesse finito per incidere alla lunga «su tutto il tessuto morale del regime ed ebbe su di esso una influenza indubbiamente negativa».

    Tuttavia, considerata la totale dipendenza di Starace dalle direttive che Mussolini di volta in volta gli imponeva, e l’assenza, per tutti gli anni della sua lunga segreteria, di un vero contrasto tra i due sul modo di concepire la funzione del partito, si può concludere che la funzione subalterna a cui venne ridotto il PNF dallo staracismo non fu altro che il risultato della volontà di Mussolini. Si chiedeva ironicamente Bottai, dopo la defenestrazione di Starace, se la sua lunga segreteria, con i suoi problemi di ‘stile’, non fosse altro che «il paradigma ideale del metodo educativo di Mussolini» (Bottai, 1982, 1989, p. 357).

    Negli anni 1938-39 Starace fu protagonista di momenti significativi della vita del regime, dalla partecipazione ai lavori preparatori per l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, al deciso sostegno della politica razziale e antisemita, in cui si mostrò fautore della linea ‘dura’ da adottarsi nei confronti della comunità ebraica italiana. Si schierò inoltre per l’alleanza con la Germania e per l’ingresso dell’Italia in guerra, fino a giungere, nel settembre del 1939, quasi alle mani, nell’anticamera dell’ufficio di Mussolini, con il capo della polizia, Arturo Bocchini, che poco prima aveva illustrato al capo del fascismo l’impreparazione militare e psicologica del Paese. Come avrebbe in seguito raccontato nelle sue memorie l’allora capo dell’OVRA Guido Leto (1951), mancò poco che la discussione degenerasse «in una colluttazione», e Bocchini tornò al suo posto di lavoro «rosso come un gambero ed ancora, visibilmente, assai agitato» (p. 205). Si trattava del culmine di un conflitto tra i due che era latente da anni, e il cui motivo era da ricercarsi nella forte resistenza che Bocchini aveva sempre opposto ai continui tentativi da parte di Starace di assoggettare lo strumento poliziesco alle direttive del partito.

    Forse quest’ultimo episodio – insieme all’ostilità che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano da tempo riservava al suo filogermanesimo e filointerventismo – può essere stato all’origine della caduta in disgrazia di Starace, il quale tuttavia si era già ampiamente screditato agli occhi di molti potenti gerarchi per la sua assoluta ottusità politica e per l’irritante e stolido zelo con cui eseguiva le direttive mussoliniane. Il generale Emilio De Bono, uno dei massimi esponenti del regime, giunse – secondo quanto scrisse Ciano nel suo diario (1963, 1980) – a definirlo un «sinistro buffone» (p. 345), e Ciano stesso scrisse il 23 settembre che «tutto il risentimento nazionale è diretto contro la persona di Starace» (p. 351). Il 4 ottobre Mussolini confidò a Ciano la sua volontà di liberarsi di Starace, «odiato e spregiato dagli italiani» (p. 356). E il 29 di quel mese, infine, Starace venne informato da Mussolini del proprio siluramento.

    Essendo ormai Starace screditato alla corte sabauda nonché coperto di ridicolo e oggetto di barzellette e lazzi in ogni ambiente (da quelli più popolari sino a quelli alti del potere politico), Mussolini se ne liberò perché temeva che il diffuso discredito di cui ormai godeva il suo servitore potesse estendersi fino a lui. Bottai (1982, 1989) testimonia che a gioire in modo particolare della liquidazione di Starace fu Ciano, il quale si abbandonò davanti a lui a «una gioia smodata, senza neppure l’ombra d’una responsabilità, che si rinnova e s’accentua» (p. 167).

    Starace venne nominato capo di Stato maggiore della Milizia. Ricoprì questo incarico per circa un anno e mezzo; nel maggio del 1941, richiamato in patria dopo un soggiorno di alcuni mesi sul fronte albanese, fu bruscamente licenziato e sostituito da Enzo Emilio Galbiati.

    Nella ‘notte del Gran consiglio’ (quella del 25 luglio 1943, che portò a un voto di sfiducia nei confronti di Mussolini), Dino Grandi, allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, condusse un attacco feroce al partito così com’era stato forgiato da Starace, e accusando di fatto Mussolini di essere stato l’ispiratore dello ‘staracismo’, si rivolse a lui con enfasi, scandendo che «il nostro Capo non è quello di Achille Starace» (Bottai, 1982, 1989, p. 414).

    Il 28 luglio (tre giorni dopo la caduta di Mussolini) Starace fu arrestato e tradotto al carcere di Regina Coeli. Ma venne rilasciato, arrestato di nuovo e di nuovo rilasciato nel giro di pochi giorni. Trasferitosi al Nord dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifugiò a Vimercate presso alcuni amici. In novembre venne arrestato, su ordine di Mussolini, dalle autorità della Repubblica sociale italiana, che lo accusavano di contatti epistolari con il governo Badoglio. Venne recluso nel carcere di Verona fino all’aprile 1944; liberato, fu di nuovo fermato due mesi dopo e internato nel campo di Lumezzane, da dove uscì in settembre. Durante i giorni dell’insurrezione (aprile 1945) fu riconosciuto a Milano da alcuni partigiani: arrestato il 27, fu processato sommariamente e condannato a morte; venne fucilato il 29 in piazzale Loreto di fronte al cadavere di Mussolini.(fonte)