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Giacomo Acerbo, 1931

    Giacomo Acerbo, 1931

    IL MINISTRO
    PER L’AGRICOLTURA E PER LE FORESTE

    Roma. Addì 21 settembre 1931.IX.

    Egregio Ingegnere,

    Sono stato vivamente interessato a favore del-
    l’avv. Eugenio Barigazzi, residente a Monaco di
    Baviera ed attualmente in Bologna, via Indipenden-
    za ,40, il quale aspira , ad ottenere la direzione
    di un Ufficio di propaganda ed informazioni ad
    Amburgo per l’ente “Magazzini Generali Italiani
    di Bologna.
    Trattasi di un ottimo elemento , particolar-
    mente raccomandabile.
    Molto grato di quanto vorrà fare a favore
    dell’avv. Barigazzi, La saluto cordialmente.

    Acerbo[1]

    Gr. Uff. Ing. ENRICO MASETTI
    Direttore Cassa di Risparmio
    BOLOGNA

    8 ott. 1931 IX

    Scritti


    Note

    [1] Giacomo Acerbo. Nacque a Loreto Aprutino (al tempo in prov. di Teramo) il 25 luglio 1888 da Olinto, proprietario terriero appartenente ad un’antica famiglia della borghesia agraria e delle professioni, e da Mariannina De Pasquale, proveniente da una famiglia di Caprara di Spoltore, anch’essa di proprietari terrieri, ma insignita di titolo baronale. Compì gli studi classici a Chieti e a Fermo e quelli universitari a Portici e a Pisa, dove si laureò in scienze agrarie nel 1912. Seguendo una tradizione familiare, si dedicò inizialmente all’attività amministrativa locale, venendo eletto consigliere comunale ed assessore nel 1910 e nel 1914. Interventista, allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruolò volontario.

    Fu sottotenente del genio zappatori e poi, in seguito a concorso, ufficiale di Stato Maggiore. Combatté in prima linea (Val d’Astico, Carso, Faiti, Flondar, Tonale, Montello, Piave), fu ferito due volte, promosso per meriti di guerra ed insignito di due croci al merito e di tre medaglie d’argento al valore militare. In guerra, nel 1918, perse la vita suo fratello Tito (nato nel 1880), capitano della brigata Sassari, decorato due volte con medaglia d’argento e con medaglia d’oro alla memoria.

    Posto in congedo con il grado di capitano, l’A. si avviò alla carriera universitaria, diventando assistente di economia politica e scienza delle finanze presso l’università di Roma dal 1921 al 1925. Contemporaneamente sviluppò la sua attività politica in Abruzzo, divenendo prosindaco di Loreto Aprutino, ma soprattutto promuovendo l’Associazione dei combattenti nelle province di Teramo e di Chieti. Favorevole all’impegno politico dell’organizzazione, partecipò alle elezioni politiche del 1919 nella lista teramana dei combattenti, ma non fu eletto, preceduto nelle preferenze da Rosolino Colella. Ciò lo spinse ad intensificare l’iniziativa per imprimere all’Associazione un indirizzo più vicino alle sue posizioni, con il duplice obiettivo di arginare la crescita del movimento socialista, soprattutto fra i contadini, e di sostituire il vecchio ceto dirigente liberale abruzzese, legato ad una gestione oligarchico-clientelare del potere locale.

    Forte del seguito ottenuto nella sua regione, cercò di far valere anche all’interno dell’Associazione nazionale tale indirizzo, che, per la sua caratterizzazione nazionalistica, contrastava sia con il prevalente orientamento “apolitico”, sia con le linee di rinnovamento sociale e politico del combattentismo democratico.

    Dopo il congresso nazionale di Napoli dell’agosto 1920, sotto la sua guida, la federazione provinciale dei combattenti di Teramo si staccò progressivamente dall’Associazione nazionale e favorì, nel febbraio 1921, la nascita nella sua sede del Fascio provinciale di combattimento, esempio presto seguito dalle sezioni comunali. Nell’aprile successivo si verificò l’entrata dei combattenti, con i fascisti, nel “blocco nazionale”, nelle cui liste l’A. ottenne un lusinghiero successo, terzo degli eletti d’Abruzzo nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921. Nel 1921-1922, inoltre, fece parte dell’amministrazione provinciale di Teramo, e fu vicepresidente del Consiglio provinciale.

    Assunta attraverso questi atti la guida reale delle forze conservatrici locali, mentre nella regione si intensificava l’azione squadristica, egli tendeva ad impersonare con maggiore frequenza il ruolo di “moderato” per garantirsi l’appoggio dei vecchi gruppi di potere locali e il favore degli apparati dello Stato. Nell’ottobre 1921 l’A. presiedette a Rosburgo (oggi Roseto degli Abruzzi) il congresso congiunto di combattenti e fascisti e nel gennaio 1922, a Teramo, il direttorio provinciale che approvò lo statuto e l’assetto del Fascio provinciale.

    Agli esordi nell’attività politico-parlamentare nazionale, l’A. seguì un orientamento analogo a quello tenuto nella sua provincia. Ai primi di giugno votò contro l’ordine del giorno di Mussolini che voleva l’astensione dei deputati fascisti dalla seduta reale della Camera. Nei mesi successivi si impegnò con Giovanni Giuriati nel trattare con i deputati socialisti Tito Zaniboni e Giuseppe Ellero quel “patto di pacificazione”, sottoscritto poi il 3 agosto. Agli inizi del 1922 fu nel gruppo di deputati fascisti che tennero i rapporti con gli esponenti parlamentari della “destra nazionale”. Nel congresso nazionale fascista di Roma nel novembre 1921, l’A. tenne la relazione sull’attività del gruppo parlamentare (di cui era vicesegretario dal giugno 1921) e fu eletto nel comitato centrale in rappresentanza dell’Abruzzo e Molise. Nel congresso di Napoli dell’ottobre 1922 fu relatore sui rapporti tra fascismo e combattenti. Particolare rilievo nazionale assunse il suo discorso (concordato con Mussolini) di Castellammare Adriatico del 12 sett. 1922, nel quale si riconosceva il valore storico e politico della monarchia, con il chiaro intento di bilanciare la fino ad allora dichiarata “tendenzialità repubblicana” del fascismo e di rassicurare gli ambienti militari e i gruppi di potere monarchici meridionali.

    Nei giorni della marcia su Roma, agli ordini di Giuseppe Bottai, assunse con Ettore Giannantonio il comando della legione Teramana dei fascisti abruzzesi e molisani e guidò l’occupazione di Tivoli. Fu quindi a Roma, dove, come segretario dell’ufficio di presidenza e in accordo con la segreteria generale della Camera, agì per impedire l’occupazione di Montecitorio da parte delle squadre, e, soprattutto, tenne i contatti tra il Quirinale e Mussolini, che accompagnò dal re affinché ricevesse l’incarico di presidente del Consiglio e che assisté nella formazione del governo (tra l’altro trattando con Gino Baldesi e Bruno Buozzi per l’ingresso di due esponenti della Confederazione generale del lavoro), di cui entrò a far parte come sottosegretario alla presidenza.

    Tra i primi grossi problemi che l’A. si trovò ad affrontare nel nuovo ruolo vi fu la “questione romana”: assecondò, infatti, l’iniziativa del principe Michele Pignatelli della Cerchiara, esponente dell’aristocrazia terriera abruzzese che, nel quadro di un costante impegno per la risoluzione del problema, si valse della sua amicizia per indurre Mussolini a compiere gesti di apertura nei riguardi della S. Sede. Ciò, nonostante l’appartenenza dell’A. alla massoneria di rito scozzese, nella quale raggiunse il grado di 33.

    Durante la prima fase “legalitaria” del fascismo, oltre a compiti più strettamente politici propri della sua carica, l’A. svolse un’attività di elaborazione e di coordinamento normativi, che in parte utilizzava lavori preparatori promossi dai governi liberali e che era volta a rendere più efficace l’azione governativa decentrando funzioni e articolando interventi dello Stato e degli enti locali.

    Va ricordato, al riguardo, soprattutto il r.d. 30 dic. 1923, n.2839, sulla riforma della legge comunale e provinciale, che, più che innovare, perfezionò il sistema di rapporti contenuto nel precedente testo unico (r.d. 4 febbr. 1915, n. 148): se da un lato, infatti, prevedeva ampliamenti nelle competenze e nelle possibilità di intervento degli enti locali, dall’altro accentuava le funzioni e i poteri dei sottoprefetti e dei prefetti nei loro riguardi. Inoltre redasse il r. d. 26 giugno 1924, n. 1054, con il quale si ristrutturava il Consiglio di Stato, al quale veniva attribuita una giurisdizione esclusiva per alcune materie (tra le quali, in particolare, il rapporto di pubblico impiego).

    Il suo nome è legato soprattutto all’elaborazione della riforma elettorale maggioritaria, che avviò la conclusione della fase “legalitaria”, meglio nota come legge Acerbo (18 nov. 1923, n. 2444). In base ad essa, al partito o alla lista che avesse guadagnato un quarto dei voti sarebbero andati i due terzi dei seggi, mentre il restante terzo sarebbe stato ripartito fra le altre liste sulla base della proporzionale pura. Era ancora l’A. ad elaborare il disegno di legge per il ripristino del sistema maggioritario, presentato da Mussolini alla Camera nel dicembre 1924 e travolto dagli sviluppi del caso Matteotti. Il 10 apr. 1924 il re, motu proprio, lo insigniva del titolo di barone dell’Aterno, con diritto di trasmissione agli eredi.

    In vista delle elezioni del 21 maggio 1924, con Michele Bianchi, Aldo Finzi, Francesco Giunta e Cesare Rossi, l’A. fece parte della commissione delegata dal consiglio nazionale del Partito nazionale fascista a preparare le liste delle candidature che poi Mussolini avrebbe dovuto approvare. La prova elettorale – svoltasi nel clima poi denunciato da Giacomo Matteotti – gli riservò un notevole successo personale.

    Durante il processo Donati-De Bono seguito al delitto Matteotti, Aldo Finzi accusò l’A. di aver ordito una trama contro di lui che, come sottosegretario all’Interno, si era opposto alle interferenze che il gruppo A.-De Bono-Rossi cercava di esercitare sull’andamento del ministero dell’Interno.

    Lasciato l’incarico di sottosegretario alla Presidenza, il 29 genn. 1926, fu eletto vicepresidente della Camera dei deputati, carica che ricoprì anche nella successiva legislatura, fino al 12 sett. 1929.

    Nel dicembre 1926 promosse la formazione della “grande” Pescara, che nel 1927, nel quadro di una più generale riorganizzazione dei poteri locali, venne eretta capoluogo della nuova provincia abruzzese. Il 19 nov. 1928 sposò Giuseppina Marenghi, appartenente ad una famiglia della borghesia industriale milanese.

    Lasciati gli impegni di governo, l’A. poté dedicarsi di nuovo alla vita ed alla carriera accademica: nel 1926 ottenne l’incarico di economia industriale nel corso di perfezionamento della Scuola superiore degli ingegneri di Roma; nel 1927 conseguì la libera docenza in storia dell’agricoltura presso la facoltà di lettere e filosofia dell’università di Roma; nel 1928 vinse il concorso per la cattedra di economia e legislazione agraria nel Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Roma, del quale fu rettore dal 1929 al 1934; dopo tale data, divenuto l’Istituto la facoltà di economia e commercio dell’università di Roma, ne divenne preside fino al 1943.

    Fece parte inoltre del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e del comitato per le scienze agrarie del Consiglio nazionale delle ricerche. Parallelamente svolse anche una rilevante attività nelle organizzazioni tecnico-professionali: dal 1924 fu alla guida della Federazione italiana dei tecnici agrari, da lui fondata, e dal 1935 presidente prima della Corporazione della ortoflorofrutticultura, poi di quella della barbabietola e dello zucchero.

    Il 12 sett. 1929 assunse la guida del ministero dell’Agricoltura e Foreste, ricostituito come dicastero autonomo, e tenne l’incarico fino al 24 genn. 1935, giovandosi della collaborazione – come sottosegretario – di Arrigo Serpieri, teorizzatore e realizzatore della politica di bonifica integrale.

    Obiettivo principale della loro azione politica fu quello di difendere l’agricoltura (in particolare quella a conduzione capitalistica) dagli effetti della crisi economica internazionale, ben presto avvertiti anche in Italia, che provocavano la caduta dei prezzi e la contemporanea crisi delle esportazioni e delle importazioni. Strumenti congiunturali di tale azione furono una serie di agevolazioni fiscali e creditizie a vantaggio soprattutto della grande impresa, la parziale regolazione, tramite ammassi e consorzi, del mercato di alcuni prodotti come il grano, il riso e la canapa e, soprattutto, una progressiva riduzione dei salari. A modificare alcune condizioni strutturali dell’agricoltura e a riassorbire in parte la forza lavoro costituita da braccianti e piccoli proprietari andati in crisi, avrebbe dovuto provvedere la politica di bonifica integrale, che agli interventi idraulici avrebbe dovuto far seguire quelli di trasformazione fondiaria, con modifiche progressive dei tipi d’impresa e dei rapporti di lavoro. Si trattava di un progetto generale di riforma della società in direzione di un ruralismo inteso come riequilibratore dei rapporti tra classi sociali. In effetti, la crisi finanziaria spinse il governo a limitare le risorse destinate a tale scopo, cedendo alla pressione di settori industriali e, soprattutto, dei proprietari terrieri del Mezzogiorno, che non volevano perdere gli alti vantaggi che erano loro derivati dalla valorizzazione dei terreni mediante opere eseguite in larghissima misura a spese dello Stato. In un primo momento le risorse disponibili furono assorbite dalla bonifica e colonizzazione dell’Agro Pontino, di più sicuro effetto propagandistico e di più facile gestione politica; in un secondo momento, dal 1935, dalle avventure imperialistiche e militari. L’uscita dal governo dell’A. e di Serpieri fu la sanzione esplicita di tale mutamento.

    Nel 1935 venne eletto alla presidenza dell’Istituto internazionale dell’agricoltura, che resse fino al 1943. Continuò inoltre ad influire nella vita politica italiana come membro sia del Gran Consiglio del fascismo, sia della Camera dei deputati, della cui trasformazione in Camera dei Fasci e delle Corporazioni fu relatore nel 1938.

    Partecipò alla seconda guerra mondiale, richiamato alle armi su domanda nel 1940 e destinato, come colonnello di Stato Maggiore, prima sul fronte alpino, poi su quello balcanico.

    Il 6 febbr. 1943 venne nominato ministro delle Finanze. Il 25 luglio 1943 votò l’ordine del giorno Grandi nella storica seduta del Gran Consiglio del fascismo.
    Dopo l’8 sett. 1943, riparato in Abruzzo e condannato a morte in contumacia il 10 genn. 1944 dal Tribunale speciale straordinario di Verona della Repubblica sociale, l’A. trascorse alcuni mesi alla macchia fino alla Liberazione. Catturato dalla polizia e dai partigiani abruzzesi a seguito di una delazione, venne sottoposto a giudizio dell’Alta Corte di giustizia, istituita con il d. l. luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, imputato per la sua attività di organizzatore delle squadre e di promotore della marcia su Roma, per esser stato promotore e responsabile degli atti che avevano sovvertito il regime costituzionale e mantenuto in vita il fascismo, per aver tradito e compromesso le sorti del paese portandolo alla catastrofe: scampò la pena di morte, ma fu condannato a quarantotto anni di reclusione con sentenza del gennaio 1945, estromesso dall’insegnamento e recluso a Procida. Il 27 luglio 1947 la Corte suprema di cassazione, a sezioni unite, annullò la condanna e ciò preluse alla sua riabilitazione: ad opera della Commissione provinciale per le sanzioni contro il fascismo, fu riammesso al voto il 15 apr. 1948; su conforme decisione del Consiglio di Stato, fu riammesso all’insegnamento universitario nel 1951.

    Nel 1953 fu candidato in Abruzzo al Senato per il Partito nazionale monarchico e nel 1958, sempre in Abruzzo, per il Partito monarchico popolare: in entrambe le occasioni senza successo. Morì a Roma il 9 genn. 1969.(Fonte)