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Epimede Boccaccia, 1931

    Epimede Boccaccia, 1931
    Epimede Boccaccia, 1931
    « di 4 »

    Parma, 11 dic. ’31 – X
    -Via Solari, 4-

    Illustre Professore ,

    al “piccolo problema” ch’Ella mi propone, per il mio
    parere, si può rispondere con poche parole e si può rispondere
    con un libro. Io risponderò , s’intende, con poche parole, chè il
    libro, dato che avessi la possa e la volontà di scriverlo, non
    troverebbe editore, nè lettori. D’altronde, si può scrivere un li=
    bro sulla nostra guerra dicendo tutt’intera quella che si crede
    la verità ? Al Maresciallo d’Italia Giardino[1] può essere ciò con=
    cesso. Tuttavia, lui pure ha creduto di doversi circondare di pre=
    cauzioni; per esempio, dichiarare :”questo libro, poi, è un testa=
    mento. Certamente, la forma letteraria più lontana e più aliena
    dalla polemica con gli uomini”.  (V. Vol. II° pag. 21) ,
    Ed eccomi al “piccolo problema” (che, però, ai fini storici e
    pedagogici, è tutt’altro che piccolo).
    M’occorre dir subito – e avrei detto tutto – che nello
    stesso foglio (“Critica di un Generale di Divisione all’operato
    del Comando Supremo per la battaglia del 15 giugno 1918″[2]) da Lei
    trasmessomi, la questione è posta (2° capoverso) e sciolta (3°
    capoverso).
    Io convengo pienamente nel giudizio sintetizzato nel 3° ca=
    poverso : eccoLe , in sostanza , il mio parere.
    Ma imagino ch’Ella non s’appaghi d’una risposta tanto sem=
    plice. E allora eccole qualche breve considerazione aggiuntiva a
    chiarimento del sintetico parere.
    a) Si accenna, nel “piccolo problema”, a “l’attacco in largo
    stile già preparato”.
     Ora -a mio avviso- che fra i parecchi studi del nostro Coman=
    do Supremo ci fosse anche uno studio (o supposto generale) per

    un simile “attacco in largo stile”, lo si può ammettere senza dif=
    ficoltà; ma quanto l’ essere “già preparato”, è un altro conto.
    Mente per compilare dei piani d’operazione sulla carta, si, fin che
    si vuole (c’erano tanti progettisti -dovremo dire strateghi ?-al
    Comando Supremo !); ma volontà e forza di volontà per sceglierne
    uno, indi per attuarlo, no. Dico forza di volontà, e voglio intende=
    re la somma di energia utile per mettere in moto le proprie ope=
    razioni e mentali e morali e istrumentali – e poscia reggerle con
    adeguatezza e coerenza sino al raggiungimento del fine al quale
    tali operazioni sono dirette.
    C’è una volontà e una forza di volontà, dove c’è un uomo adegua=
    to alla situazione; nel caso nostro in discussione, vuolsi di=
    re un Comandante pari alla guerra che si combatte. Ma, a giudizio
    generale – e sarà, a suo tempo, il giudizio storico- ciò che
    mancava. Perchè ? – Ecco un altro problema, la cui soluzione molto
    importerebbe. Chi vorrà impostarlo, dibatterlo e risolverlo ?
    A proposito di un simile problema, importerà vedere come, dopo la
    grande guerra, a preparazione di una futura grande guerra, s’è ope=
    rato in Libia per l’occupazione di Cufra”[3]. Piccola cosa, ma che
    offre molta materia per fare delle previsioni relative alla prepa=
    razione dell’Alto Comando a una grande guerra.
    b) In ogni modo, non è preparato che per metà alla difensiva,
    chi non è preparato al 2° atto della medesima, cioè a passare
    tempestivamente alla controffensiva, e preparato all’eventualità
    di spingerla a fondo.
    Basta la Relazione del Comando Supremo su “La battaglia del
    Piave (15-23 giugno 1918)” (Roma, 1920) e le pubblicazioni dei tu=
    riferari, per darsi ragione dei fatti. Il piano era di resistere ,
    di non farsi vincere, non, anche, di arrivare, ove fosse occorsa, alla
    vittoria. Cioè, i1 piano d’operazione stesso escludeva, più o meno
    esplicitamente, la 2A parte, ossia la controffensiva strategica, co=
    me dire, la vittoria. L’ebbrezza pel successo della IA parte -la re=

    sistenza – fece dimenticare la 2A parte. Questa venne con “Vitto=
    rio Veneto”[4], ma….. tra le due parti s’interposero quattro mesi.
    La storia giudicherà (gl’Italiani, a fine pedagogico, dovrebbero
    già avere coraggiosamente giudicato. Ma sembra che gli Italiani
    abbiano paura della verità aspre – Paura o pudore, non so).
    c) Chi afferma[5] che “a nord noi avessimo truppe disponibili per
    eseguire il piano” ? (S’ intende, mi pare, il piano de “l’attacco
    in largo stile già preparato”)
    Il Maresciallo d’Italia Giardino, a pag. 350 del II° Vol. della
    sua opera “Rievocazioni e riflessioni di guerra”, scrive /:
    “E’ storico, come affermò allora qualche corrispondente di guer=
    “ra, che ad un certo punto, nella giornata del 16. il comando del=
    “l’Armata del Grappa ebbe l’impressione che una nostra subitanea
    “avanzata generale non avrebbe più trovato seria resistenza e che,
    il fronte nemico del Grappa potrebbe essere agevolmente rovescia=
    “to nel solco feltrino. I Comandi in linea avevano la medesima im=
    “pressione e chiedevano qualche unità fresca per poter agire. L’Uf=
    “ficio informazioni ne prospettava la convenienza per le condizio=
    “ni del nemico…………
    “Con tutto ciò, due cose egualmente occorrevano : neutralizzare
    “l’artiglieria nemica, dalle nostre posizioni difensive, e con un
    “pronto rifornimento del munizionamento nel quale, come altrove si
    “precisò, si era fatta una larga breccia; disporre di qualche divi=
    “sione fresca, anche soltanto di due.
    “Invece, tutto cominciava ad affluire al Montello ed al Piave…”
    Dopo questo che dice il Maresciallo d’Italia Giardino (e che io
    credo conforme a verità storica), devesi ritenere che quelle truppe
    dianzi accennate per l’esecuzione di quel piano controffensivo
    strategico, non ci fossero.
    Cert’è che le riserve di uno di quei corpi d’armata della 4A
    Armata, ammesso che ci fossero davvero (ma non c”erano), potevano

    bastare, al più, a qualche controffensiva locale. Lo stesso è a
    dirsi per la 6″ Armata.
    Poteva il Comando Supremo dare almeno le due Divisioni -e
    magari quattro – per la controffensiva a nord che gli prospettava
    il Comandante della 4A Armata nella giornata del 16 ? – Certamente
    sì. Ma …….. è inutile dire, perchè si ricadrebbe nel già detto.
    d) Dice la Critica della quale si parla (V.3° capoverso) : “per
    tentare cose grandi bisogna saper giocare la propria carta buona,
    e il nostro Comando ,era irresoluto.”
    Qui direi il contrario, cioè che esso Comando era più che riso=
    luto a ……  non andare al di là delle controffensive locali (V. “i
    punti fondamentali” del piano di difesa a pag. 28 della Relazione
    Ufficiale su “La battaglia del Piave”) Scrive il Col. Dupont[6] nel suo libro:
    “La battaglia del Piave”:….giorno 21…… da quel
    giorno il Comando Supremo giudicò di poter attendere serenamente
    senza chiedere altri sacrifici a quei prodigiosi fanti che da otto
    giorni si battevano con un ardore ed una fede quali solo una pas=
    sione quasi religiosa poteva spiegare”, questo è un modo singolare
    di fare storia militare; ma serve tuttavia a mostrare la risolutez=
    za del Comando Supremo. La forza di volontà può essere applicata
    al fare, come al non fare !
    e) E’ cenno a veri capitani. E’ vero capitano colui che, pur
    essendo arrivato, è spinto dal suo carattere d’artista a dare com=
    piutezza all’opera d’arte, senza preoccuparsi di ciò ch’egli potrà
    trarne o non trarne. Il vero capitano coltiva nell’anima un’ambi=
    zione che trascende le costellazioni. Una luce lo guida, e va.
    f) Altre cose si potrebbero aggiungere. Ma sono ovvie, e non ci
    sarà chi non le pensi.

    La ringrazio del motivo di conversazione
    offertomi. Mi conceda venia del ricordo nella
    risposta.
    Suo Dev. Boccaccia
    [7]

    da Epimede Boccaccia a Barone Alberto Lumbroso, 11 dicembre 1931
    da Epimede Boccaccia a Barone Alberto Lumbroso, 11 dicembre 1931
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    Illustre Signor
    Barone Alberto Lumbroso
    Via Marcello Durazzo, 12°
    Genova

    affrancatura

    Cent 30 Effigie di Vittorio Emanuele III tipo imperiale
    Cent 20 Serie “Imperiale” – Effigie di Giulio Cesare
    Annullo
    Gli uffici postali
    ACCETTANO PER L’INCASSO
    MEZZO DEI CONTI CORRENTI
    DIRETTI, ASSEGNI FATTURA


    Note

    Una premessa sul memoriale:

    Quello che nello scritto viene indicato come “c) Chi afferma che… ” è il Generale Edoardo Monti. I memoriali dei vari Generali redatti su sollecitazione del Barone Lumbroso in merito alla questione sollevata dal Generale Monti, relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad, non rivelano mai il nome del Generale al quale rispondono. Il nome appare nel biglietto privato che il Generale Vannutelli acclude al suo memoriale.

    [1] Gaetano Giardino. Nacque a Montemagno (Asti) il 25 genn. 1864 da Carlo e da Olimpia Garrone.
    Entrato nell’esercito appena diciassettenne, fu nominato sottotenente nell’8° bersaglieri il 4 sett. 1882 e poi promosso tenente l’11 ott. 1885. A venticinque anni, come molti degli ufficiali più intraprendenti ed economicamente meno dotati, si recò nei nuovi possedimenti d’Africa che, nel 1890, avrebbero assunto il nome di Colonia Eritrea. Vi rimase insolitamente a lungo, sino all’estate del 1894.
    Colà si mise in evidenza per le sue doti organizzative e di preparazione professionale militare (nel 1893 compilò un regolamento d’istruzione tattica per le fanterie indigene). Il fatto d’armi più importante cui partecipò fu la presa di Cassala (17 luglio 1894): ne riportò una medaglia d’argento e, di fatto, la promozione a capitano (19 sett. 1894). Né la medaglia né l’esperienza sul campo accelerarono, però, più di tanto la sua carriera.
    Tornato in patria, dopo qualche tempo intraprese anche gli studi presso la scuola di guerra, dove riportò buone votazioni, passando dalla fanteria al corpo di stato maggiore. Ma la carriera continuava a scorrere, per il G. come per gran parte degli ufficiali del tempo, ugualmente lenta: la promozione a maggiore arrivò il 29 sett. 1904 e quella a tenente colonnello il 1° luglio 1910. A quella data svolgeva le funzioni di capo di stato maggiore della divisione di Napoli. La sede, probabilmente, insieme con la preparazione coloniale maturata in Eritrea, contribuì però alla sua fortuna. L’anno successivo, allestendosi la spedizione in Libia che proprio da Napoli doveva salpare, il G. vi partecipò come sottocapo di stato maggiore del corpo di spedizione.
    L’incarico non era di immediata visibilità, ma l’esperienza fu importante e non solo organizzativa. Il 4 genn. 1912, in un momento di stallo delle operazioni militari e in una fase di insoddisfazione da parte del presidente del Consiglio G. Giolitti e delle autorità politiche per la lentezza con cui procedevano le operazioni militari, il G. fu inviato a Roma dal comandante della spedizione, C.F. Caneva, per svolgere un’importante missione diplomatica, presentando le ragioni e le giustificazioni relative alla condotta del corpo di spedizione, e conferendo direttamente con le più alte cariche politiche. Al termine della riunione, anche se certo non solo per merito delle doti retoriche del G., un comunicato della Agenzia di stampa Stefani annunziava come, almeno per il momento, il governo fosse “pienamente d’accordo con il comandante in capo, nel quale ripone completa fiducia”.
    La doppia esperienza, coloniale e di stato maggiore, aveva irrobustito il carattere militare del G. e lo aveva spinto – come non pochi ufficiali del tempo – su posizioni politiche antigiolittiane. Negli anni successivi all’impresa di Libia arrivò la promozione a colonnello (4 genn. 1914) e l’incarico a capo di stato maggiore del IV corpo d’armata. Lo scoppio della Grande Guerra e la partecipazione a essa dell’Italia, ora guidata da A. Salandra e S. Sonnino, fornirono al G., cui si era aperta la via per la nomina a generale, l’occasione di un’ascesa sino a quel momento imprevedibile: da allora egli doveva diventare una delle figure più rilevanti, se non più influenti, dell’intera gerarchia militare e giocò, in qualche occasione, un ruolo politico di primo piano a livello nazionale.
    Tra il 1914 e il 1916 fu capo di stato maggiore della 2ª armata (con P.P. Frugoni), poi della 5ª, fra l’altro preparando il balzo oltre l’alto Isonzo e lo Iudrio. A riconoscimento dell’attività svolta, che incontrò il pieno favore del comandante supremo L. Cadorna – cui il G. fu da subito molto vicino -, arrivò la promozione a maggior generale (18 ag. 1915). Con quel grado, comandante della 48ª divisione, il G. si distinse nella presa di Gorizia, verso S. Marco e sul Vertoiba. Comandante del I corpo d’armata nel 1917, passò presto al XXIV.
    Il 5 apr. 1917 Cadorna lo nominava tenente generale. Apprezzamenti e critiche aumentarono, nell’ambiente militare, quando, in occasione della crisi parlamentare del giugno 1917, Cadorna lo propose come sostituto del ministro della Guerra P. Morrone, dimissionario.
    L’incarico ministeriale, dal 16 giugno (con la connessa nomina a senatore), aveva portato alla ribalta una figura di militare tecnico, estraneo ai giochi della politica, che a Cadorna doveva per intero la sua ascesa e che era, inoltre, intimamente convinto della bontà della tattica e della globale condotta della guerra da parte del comandante supremo. Nell’espletamento dell’incarico, a partire da quella delicata estate del 1917, il G. confermò questa immagine, cui si aggiunse qualcosa di più, a giudicare dalle vociferazioni di vaghi progetti, più che veri e propri piani, di un complotto finalizzato ad arrestare V.E. Orlando per mettere il G. a capo di un governo “militare” ispirato da Cadorna. Fatto sta che, forse non a caso, lo stesso B. Mussolini su Il Popolo d’Italia aveva esplicitamente espresso simpatia per l’operato del G. come ministro.
    In questo clima politico, pochi giorni prima del fatale 24 ottobre, il G. affermò dal suo scranno ministeriale che il fronte era sicuro e che non si prevedevano attacchi nemici di rilievo forse sino alla primavera successiva. All’indomani della rotta di Caporetto il governo Boselli si dimise (il G. ricevette fra l’altro il saluto e il ringraziamento del Popolo d’Italia).
    Come ebbe a dichiarare qualche mese più tardi alla commissione d’inchiesta su Caporetto, per il G. – come del resto per Cadorna -, le motivazioni dell’episodio andavano ricercate nel cedimento morale delle truppe, dovuto al disfattismo provocato dal fronte interno. A chi, come F. Martini, lo avvicinò nei mesi immediatamente successivi alla rotta il G. parve preoccupato per il “profondo disprezzo in cui il nemico che tante volte vincemmo oggi ci tiene” (4 nov. 1917) e per il fatto che all’interno dell’esercito “i sobillamenti continuano” (30 nov. 1917), e pronto a criticare, o quanto meno a lasciare criticare, il nuovo comandante supremo A. Diaz (18 genn. 1918). Tanta verbosità critica, però, non ingannava un fine conoscitore come il giornalista L. Barzini il quale, scrivendo a G. Albertini, così liquidava il G.: “mi pare debole” (12 nov. 1917).
    Ma Caporetto (nella cui “preparazione” il G., in effetti, non aveva responsabilità dirette se non quelle politiche generali in quanto ministro) non lo fermò: dopo l’allontanamento di Cadorna il G. divenne vicecapo di stato maggiore (con P. Badoglio secondo vicecapo), rappresentando la continuità con il passato cadorniano (ed esiste una documentazione secondo cui il Consiglio dei ministri valutò anche l’ipotesi di sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, nominando vicecapi di stato maggiore Diaz e il Giardino).
    Da subito gli spazi di manovra non furono ampi per il G. che, peraltro, dovette trovarsi a disagio nel nuovo comando supremo che tanto voleva differenziarsi dal precedente, a lui così caro. Inoltre Badoglio, pur più giovane, assunse su di sé l’intero compito di riorganizzazione dell’esercito.
    Avvenne, dunque, che il G., già nel febbraio 1918, fosse allontanato dal comando supremo e inviato a Parigi per sostituire Cadorna come rappresentate italiano presso il Consiglio militare interalleato: incarico formalmente di grande prestigio, ma i cui i margini d’azione erano, ancora una volta, assai ristretti (e non a caso presentò le sue dimissioni appena un paio di mesi più tardi). Al ritorno in Italia il G. assunse l’incarico militare cui doveva restare definitivamente legata la sua immagine negli anni a venire: il comando dell’armata del Grappa, con il controllo di uno dei punti più delicati dell’intero fronte italiano. La 4ª armata, a lui affidata, non solo giocò un ruolo di rilievo nel tenere la posizione strategica assegnatale, ma seppe reagire all’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 (che in un primo momento aveva rischiato di metterla in ginocchio); quindi, consolidato il proprio morale nei mesi successivi, partecipò, pagando un alto prezzo, alla finale “battaglia” di Vittorio Veneto.
    Nelle settimane immediatamente precedenti il presidente del Consiglio Orlando, nelle more frapposte da Diaz all’offensiva finale, aveva pensato di sostituire Diaz con il G.; poi, verso il 19 ottobre, aveva sollecitato direttamente quest’ultimo a non tardare a prendere l’offensiva nel suo settore, temendo che la guerra potesse concludersi senza una vittoria italiana sul campo.
    Oltre alla strategia e alla tattica militari vere e proprie, il G. reinterpretò a suo modo, con una forte dose di paternalismo militaresco, il nuovo corso postcadorniano nel trattare la truppa, sviluppando una potente, spregiudicata e durevole retorica populista sui “suoi soldatini” dell’armata del Grappa: una retorica al solito assai apprezzata anche da Mussolini, che ne scriveva compiaciuto sul Popolo d’Italia già il 29 giugno 1918. Inoltre, una parte dell’opinione pubblica liberale e conservatrice guardava a lui come a uno dei migliori fra i generali italiani che avevano condotto la guerra.
    Il dopoguerra consacrò definitivamente la figura del G., ormai assurto ai più alti vertici della gerarchia militare (il 21 dic. 1919 fu nominato fra i cinque generali d’esercito), componente di quell’aeropago militare che era il Consiglio d’Esercito (istituito il 25 luglio 1920), nonché comandante designato d’armata.
    Tale notorietà – in fondo dovuta al comandante del Grappa e a uno dei generali di Vittorio Veneto, e comunque ribadita dal G. con i suoi frequenti, e spesso roboanti, interventi in Senato – non era sempre accompagnata per la verità da programmi chiari, carenza cui il G. sopperiva, nel clima d’incertezza del dopoguerra, con una costante intonazione autoritaria e antiprogressista, quando non proprio filofascista. Ma più ancora dell’adesione a uno schieramento politico, era la sua piena adesione alle più retrive e chiuse tradizioni militari a connotarlo. Nell’ambiente militare, però, questo era un titolo di merito tanto che, nel giugno 1921, si parlò di lui come di un possibile ispettore di fanteria (una carica tecnica inferiore solo a quelle di ministro della Guerra e di capo di stato maggiore).
    Altro segno del suo prestigio e dell’importanza che gli veniva attribuita è il frequente ricorrere del nome del G. in gran parte, se non in tutte, le voci di complotto e di colpo di Stato che, fra 1919 e 1922, andarono diffondendosi in Italia. Di fatto è difficile pensare a un G. – il quale, per quanto assai critico della politica liberale era pur sempre un militare di antica tradizione – che architetta complotti in prima persona. Più probabile che egli venisse coinvolto, e fosse lusingato dal farsi coinvolgere, in progetti altrui: lo stesso Mussolini scriveva a G. D’Annunzio, il 25 sett. 1919, favoleggiando di un colpo “repubblicano” che avrebbe dovuto “dichiarare decaduta la monarchia” sostituendola con un direttorio composto dal vate, dal G., da E. Caviglia e da L. Rizzo. Più in generale, comunque, il nome del G. era un punto di riferimento per i fascisti più oltranzisti, insieme con quelli del duca d’Aosta, di Caviglia e di P. Thaon di Revel.
    All’epoca della marcia su Roma il G. era comandante di armata di Firenze, nel cui territorio era compresa la capitale, ed è quindi probabile che il re lo abbia contattato (sia pur telefonicamente) per saggiare le reazioni dell’esercito. L’ascesa al governo di Mussolini gli fruttò subito un primo incarico pubblico, a riprova dei contatti precedenti: un’inchiesta sullo stato della guardia regia, che il capo del fascismo voleva abolire. Il che avvenne proprio sulla base dei risultati dell’inchiesta dal G. condotta in poche settimane. Fra tutti quelli assegnatigli dal nuovo governo il ruolo di maggior prestigio fu, comunque, quello di governatore della città di Fiume, ricoperto in un momento delicato, prima della definitiva annessione della città all’Italia (dal 17 sett. 1923 sino al maggio 1924), e che prevedeva il compito di “tutelare l’ordine pubblico” mentre si riavviavano le trattative diplomatiche con la Jugoslavia. Nel 1924 il G. fu nominato ministro di Stato.
    In seguito, però, intervennero rapporti meno idilliaci: nell’autunno-inverno 1924-25, quando il governo manifestò l’intenzione di mettere in pericolo la tradizionale autonomia dell’esercito, si verificò una crisi di notevoli proporzioni nei rapporti fra fascismo e forze armate, segnatamente in seguito al tentativo di far approvare il progetto di ordinamento militare (che dal proponente ministro A. Di Giorgio prendeva nome) e il disegno istitutivo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN). In questa circostanza il G. assunse un ruolo di assoluto rilievo e le argomentazioni da lui svolte in Senato e nel Consiglio d’Esercito contribuirono senz’altro a far ritirare il primo progetto e a ridimensionare il secondo.
    Durissimi furono i discorsi del G. contro Di Giorgio, prima in Consiglio d’Esercito (settembre-novembre 1924) poi in Senato (31 gennaio, 30 marzo e 2 apr. 1925), e contro il disegno sulla MVSN (4 dic. 1924), al punto da costringere Mussolini (discorsi del 5 e del 9 dic. 1924) a repliche dure rivolte personalmente al G.; in realtà questi, che pure così veementemente lo aveva contestato, non pare abbia mai seriamente osteggiato il governo fascista. Ritirato l’ordinamento Di Giorgio e ridimensionate le pretese sulla MVSN, gli stessi documenti parlamentari testimoniano che il G. si avvicinò a Mussolini affermando “Eccellenza, Lei ha salvato l’esercito!” (2 apr. 1925).
    Da allora, a livello politico e personale, Mussolini e il regime furono prodighi di onori al G.: gli affidarono incarichi formali di prestigio (in Senato relazionò sulla legge di ordinamento militare che seppellì l’ipotesi Di Giorgio, 1° marzo 1926) e fu nominato, come Cadorna e Diaz, maresciallo d’Italia (17 giugno 1926), grado che sostituiva il precedente di generale d’esercito. Ma di fatto non fu più preso seriamente in considerazione per cariche di reale peso politico. Consapevole di aver perso un suo ruolo e di aver favorito la nascita e l’assestamento di un regime che lo metteva ora da parte pur coprendolo di allori, il G., nel 1927, si ritirò a Torino.
    Nel dicembre 1929 riceveva il prestigioso collare dell’Ordine dell’Annunziata e, a parte qualche mugugno (se c’è da credere al Diario di Caviglia almeno in qualche occasione avrebbe criticato Mussolini), si adattò col tempo al ridimensionamento del suo effettivo ruolo pubblico. Peraltro, da qualche tempo la sua figura era andata appannandosi anche all’interno del mondo militare: il comandante del Grappa (al pari di molti altri suoi coetanei e colleghi) non teneva il passo con le innovazioni militari, rimanendo fermo alla difesa della dottrina militare della Grande Guerra, come sostenne anche in Rievocazioni e riflessioni di guerra (I-III, Milano-Verona 1929-30).
    Su un punto, però, il G. poteva svolgere, e svolse, un ruolo che corrispondeva contemporaneamente alle sue propensioni populistico-autoritarie, al personale desiderio di autoglorificazione e alle necessità propagandistiche del regime: la creazione e il mantenimento del mito delle battaglie del Grappa (dove aveva pubblicamente espresso il desiderio di essere sepolto); quale ex comandate dell’armata del Grappa, egli svolse un ruolo decisivo anche nelle scelte relative alla costruzione del sacrario, consacrato il 22 sett. 1935 alla presenza del re, e nei periodici raduni di massa colà tenuti.
    Forte del seguito ottenuto da queste operazioni, fondamentali ai fini dell’organizzazione di un consenso al fascismo quale regime uscito dalla Grande Guerra, il G. difese accanitamente, in parte fondandosi su documenti e in parte anche travalicandoli, l’operato della sua 4ª armata contro chiunque volesse ridimensionarlo o annullarlo. Peraltro, di norma, a parole il G. non affrontava mai la questione in termini di difesa personalistica ma la presentava in forma populistica, affermando di voler reagire a tutte le “affermazioni lesive dei miei soldati del Grappa”.
    Il G. morì a Torino il 21 nov. 1935.(fonte)


    La battaglia del Solstizio. Fu l’ultima grande offensiva sferrata dagli austriaci nel corso della prima guerra mondiale e si spense davanti alla valorosa resistenza dei soldati italiani. Il nome “battaglia del solstizio” fu ideato dal poeta Gabriele D’Annunzio, lo stesso che poco dopo, il 9 agosto 1918, con 11 aeroplani Ansaldo sorvolerà Vienna gettando dal cielo migliaia di manifestini, inneggianti alla vittoria italiana.

    Nel 1918 gli austriaci pianificarono una massiccia offensiva sul fronte italiano, da sferrare all’inizio dell’estate, in giugno. A causa delle loro gravi difficoltà di approvvigionamento, volevano infatti raggiungere la fertile pianura padana, sino al Po, e soprattutto, in un momento di grave difficoltà interna dell’Impero per il protrarsi della guerra, gli Austro-ungarici intendevano dare al conflitto una svolta decisiva, che permettesse un completo sfondamento d​el fronte italiano, come era già avvenuto con l’offensiva di Caporetto, e consentisse quindi di liberare forze da concent​rare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.
    L’offensiva fu preparata quindi con grande cura e larghezza di mezzi dagli austriaci che vi impegnarono ben 66 divisioni.
    Gli italiani avevano intuito i piani del nemico, tanto che nella zona del Monte Grappa e dell’ Altopiano dei Sette Comuni i colpi di cannone delle artiglierie italiane anticiparono l’attacco degli austriaci, lasciandoli disorientati.
    Le artiglierie del Regio Esercito, appena dopo la mezzanotte, per quasi cinque ore spararono decine di migliaia di proiettili di grosso calibro, tanto che gli alpini che salivano a piedi sul Monte Grappa videro l’intero fronte illuminato a giorno sino al mare Adriatico.
    Ai primi contrattacchi italiani sul Monte Grappa, molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono.
    La mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci arrivando da Pieve di Soligo-Falzè di Piave, riuscirono a conquistare il Montello e il paese di Nervesa. La loro avanzata continuò successivamente sino a Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla possente controffensiva italiana, supportata dall’artiglieria francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade, pronte ad intervenire, in caso di bisogno.
    La Regia Aeronautica italiana mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare l’avanzata.
    Abbattuto con il suo aereo moriva il maggiore Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana.
    Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci il 15 giugno 1918 vennero bombardate incessantemente dall’alto e ciò comportò un rallentamento nelle forniture di armi e viveri. Ciò costrinse gli austriaci sulla difensiva e dopo una settimana di combattimenti, in cui gli italiani cominciavano ad avere il sopravvento, i nemici decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente partiti.
    Centinaia di soldati morirono affogati di notte, nel tentativo di riattraversare il fiume in piena.
    Nelle ore successive alla ritirata austriaca, il re Vittorio Emanuele III visitava Nervesa liberata e completamente distrutta dai colpi di artiglieria. Ingenti i danni alle antiche ville sul Montello e al patrimonio artistico della zona.
    Stessa cosa per Spresiano: completamente distrutta. Gli austro-ungarici nella loro avanzata arrivarono sino al cimitero di Spresiano, ma l’artiglieria italiana che sparava da Visnadello e i contrattacchi della fanteria italiana riuscirono a bloccarli.
    La mattina dell’attacco, sin dalle ore 4.00, dal suo posto di osservazione posto in cima ad un campanile di Oderzo, il comandante delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l’effetto dei proiettili oltre Piave.
    Le prime granate lacrimogene ed asfissianti ottenevano pochi risultati, grazie alle maschere a gas “inglesi” usate dagli italiani.
    Durante la Battaglia del Solstizio gli Austriaci spararono 200mila granate lacrimogene ed asfissianti. Sul fronte del Piave, quasi 6.000 cannoni austriaci sparavano sino a S.Biagio di Callalta e Lancenigo. Diversi proiettili da 750 kg di peso, sparati da un cannone su rotaia, nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza, colpendo Treviso.
    Dall’altra parte del fronte, i contadini portavano secchi d’acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni, che martellavano incessantemente le avanguardie del nemico e le passerelle poste sul fiume, per traghettare materiali e truppe. Il bombardamento delle passerelle fu determinante, in quanto agli austriaci vennero a mancare i rifornimenti, tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre Piave.
    Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il territorio di Caposile, per impedire agli austriaci ogni tentativo di avanzata. Dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano in continuazione per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà di Piave a Cavazuccherina. Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso.
    Gli Arditi, forti della fama che li accompagnava, ricacciarono gli austriaci sulla riva del Piave da cui erano venuti. Non facevano prigionieri e andavano all’attacco con il pugnale tra i denti, al punto che la loro presenza terrorizzava il nemico.
    La testa di ponte di Fagarè sulla direttiva Ponte di Piave-Treviso fu l’ultimo lembo sulla destra del Piave a cadere in mano italiana. La tentata offensiva austriaca si tramutò quindi in una pesantissima disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici persero quasi 150.000 uomini.
    La battaglia fu tuttavia violentissima e anche le perdite italiane ammontarono a circa 90.000 uomini.
    In tale situazione la battaglia del Solstizio era l’ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l’Impero, significò in pratica l’inizio della fine.
    Dalla battaglia del Solstizio, infatti, trascorsero solo quattro mesi prima della vittoria finale dell’Italia a Vittorio Veneto.(fonte)

    [3] La conquista italiana di Cufra avvenne il 20 gennaio 1931, durante la riconquista della Libia.
    Nel 1895 Cufra divenne il principale centro dei Senussi e dal quel momento non fu più accessibile ai visitatori europei. I Senussi combatterono l’espansione dei francesi nel Sahara algerino senza successo e successivamente tentarono di ostacolare l’occupazione italiana della Libia.
    Gli italiani giunsero a Cufra nel 1931. Alla testa di circa 3.000 fra fanti ed artiglieri, e con l’appoggio aereo di una ventina di bombardieri, fu il generale Rodolfo Graziani ad espugnarla, senza grandi difficoltà.(fonte)

    [4] La battaglia di Vittorio Veneto o terza battaglia del Piave fu l’ultimo scontro armato tra Italia e Impero austro-ungarico nel corso della prima guerra mondiale. Si combatté tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918 nella zona tra il fiume Piave, il Massiccio del Grappa, il Trentino e il Friuli e seguì di pochi mesi la fallita offensiva austriaca del giugno 1918 che non era riuscita a infrangere la resistenza italiana sul Piave e sul Grappa e si era conclusa con un grave indebolimento della forza e della capacità di combattimento dell’Imperiale e regio esercito.
    L’attacco decisivo italiano, fortemente sollecitato dagli Alleati che erano già passati all’offensiva generale sul fronte occidentale, ebbe inizio solo il 24 ottobre 1918, mentre l’Impero austro-ungarico dava già segno di disfacimento a causa delle crescenti tensioni politico-sociali tra le numerose nazionalità presenti nello Stato asburgico, e mentre erano in corso tentativi di negoziati per una sospensione delle ostilità.
    La battaglia di Vittorio Veneto fu caratterizzata da una fase iniziale duramente combattuta, durante la quale l’esercito austro-ungarico fu ancora in grado di opporre valida resistenza sia sul Piave sia nel settore del monte Grappa, a cui seguì un improvviso e irreversibile crollo della difesa, con la progressiva disgregazione dei reparti e defezioni tra le minoranze nazionali, che favorirono la rapida avanzata finale dell’esercito italiano fino a Trento e Trieste.
    La sera del 3 novembre 1918, con entrata in vigore alle ore 15:00 del giorno successivo, fu firmato l’armistizio di Villa Giusti che sancì la fine dell’Impero austro-ungarico e la vittoria dell’Italia nel primo conflitto mondiale.(fonte)

    [5] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
    Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.

    L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.

    Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)

    [6] Amelio Dupont
    Cavaliere Ordine Militare d’Italia
    Tenente Colonnello di Stato Maggiore
    Data del conferimento: 17/05/1919 (fonte)

    La battaglia del Piave fu combattuta nel giugno del 1918 e rappresentò l’ultima offensiva dell’esercito austro-ungarico prima del definitivo successo italiano nell’ottobre-novembre successivi. Tra il 15 e il 22 giugno lo stato maggiore austriaco, pur consapevole delle difficoltà interne che stava vivendo l’impero, lanciò un’offensiva con l’obiettivo primario di varcare il fiume Piave e sfociare nella Pianura padana al fine di costringere il nemico alla resa. All’analisi delle operazioni di intelligence e a quelle militari che le seguirono, agli errori e alla sottovalutazione della capacità di reazione dell’esercito italiano e alle vicende drammatiche non solo nella zona del Piave ma anche in quella del Montello e del Monte Grappa, il colonnello Amelio Dupont dedicò nel 1928 questo saggio che ancora oggi merita un posto di rilievo nella memorialistica sulle grandi battaglie della Prima guerra mondiale. Accanto al quadro generale, l’autore dedica la giusta attenzione anche alle vicende dei singoli reggimenti e ai sacrifici di tanti ragazzi gettati nella mischia nemmeno ventenni: al lettore di oggi potranno apparire ridondanti i richiami alla retorica delle medaglie d’oro, allo spirito di corpo e a tutti gli episodi di eroismo individuale e di dedizione citati dall’autore e a cui la società del benessere ci ha resi inadeguati. Eppure in quei frangenti l’esercito italiano riuscì a mettere in campo, oltre ai mezzi bellici e a una oculata gestione di uomini e riserve, anche un’insperata concordia di obiettivi tra fronte interno e prima linea. Concordia che fece la differenza rispetto all’avversario. «Dite ai borghesi che tegnin dur lori che nualter non dem manc un pass indarè!», così le parole di un semplice fante, a metà tra leggenda e realtà. La battaglia del Piave fu vinta anche così.(fonte)

    [7] Epimede Boccaccia. – Due cose vanno subito sottolineate. La prima è che la tattica, così come l’arte militare in genere, non è mai stato un problema meramente tecnico-militare, ma va esaminata contestualmente alla disciplina e all’educazione del soldato, visto che il suo strumento primario è l’uomo e quest’uomo rispecchia inevitabilmente – nel suo spirito militare e nel modo di combattere – i tratti distintivi della Nazione in una data fase storica. La seconda è che solo lo studio comparato di questi aspetti consente di gettare le basi di una risposta libera da pregiudiziali di qualsiasi genere a un secondo interrogativo anche oggi ricorrente: quali sono state le cause vicine e lontane della dura disciplina di trincea tipica non solo dell’Esercito italiano nella guerra 1915-1918 ? era una necessità oggettiva e contingente oppure il frutto di una mentalità, di una tradizione, di concezioni preesistenti ? A fronte di queste esigenze chiarificatrici, gli scritti di una figura di valoroso soldato oggi totalmente dimenticata, il generale Epimede Boccaccia, possono fornire un notevole contributo alla conoscenza dei concetti, delle metodiche, dei meccanismi dell’Esercito italiano prima e dopo la guerra 1915-1918, con interessanti scorci sui problemi della formazione dei Quadri e dell’educazione del soldato. Aspetto, quest’ultimo, inspiegabilmente poco studiato proprio in un periodo – come quello della guerra fredda – dove era quanto mai pressante l’esigenza di conquistare anzitutto il cuore del soldato. Del generale Boccaccia basti dire che è nato a Dosolo (Mantova) il 13 giugno 1871. Ufficiale di fanteria, ha iniziato la sua attività pubblicistica da tenente nel 1907-1908, con lavori sulla disciplina e vita di caserma, sugli ammaestramenti della guerra russo-giapponese, sulla questione dei sottufficiali. Ha poi insegnato tattica e pedagogia militare alla Scuola d’Applicazione di Fanteria di Parma, pubblicando nel 1913 i primi scritti su questi argomenti. Ha partecipato alla prima guerra mondiale distinguendosi nella difesa di Passo Buole (maggio 1916), dove è stato gravemente ferito. Durante la guerra è tornato a insegnare nei corsi per allievi ufficiali di complemento della Scuola di fanteria di Panna, pubblicando altri notevoli studi di arte militare. Nel dopoguerra ha insegnato alla Scuola di guerra di Torino, pubblicando nel 1921 una fondamentale opera sulla pedagogia militare e nel 1925 due notevoli studi sulla disciplina e l’istruzione militare. E’ stato tra i collaboratori dell’ “Enciclopedia Militare” 1929-1933. Ha curato anche la ristampa della Guerra e la sua storia del generale Nicola Marselli (1930).
    STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO. UFFICIO STORICO. Autori vari, STUDI STORICO-MILITARI,  2001. Ferruccio Botti. “IL NUOVO RAPPORTO TRA ARTE MILITARE, DISCIPLINA E PEDAGOGIA MILITARE NEGLI SCRITTI DEL GENERALE EPIMEDE BOCCACCIA A CAVALLO DELLA GRANDE GUERRA (1907-1930)” Dalla Premessa, pag 5.(fonte)

    Pubblicazioni di Epimede Boccaccia (fonte)