Carissimo nonno,
ti do’ una bella notizia: ho finito
oggi gli esami e sono andato bene.
Ormai sono al ginnasio! Sono
tanto contento, Anche mamma è
contenta, e abbiamo scritto subito a
papà che starà aspettando chi
sa come di conoscere il risultato
dei miei esami. Per qualche
giorno ora mi riposo e intanto
mi preparo per una gara ginnasti=
ca che ci sarà Domenica prossima.
Perché non ci vieni a trovare quest’esta=
te a Mondovì? Se ti vuoi riposare
qualche giorno, questo è proprio il luogo
adatto. Mamma e Ada ti salutano
tanto e io e i fratellini ti man=
diamo tanti baci tuo
Vittorio[1]
21 – VI – 29 – VII
busta
Gent mo Sig e
Goffredo Bartoccini
Via XXIV Maggio 49 Roma
affrancatura
POSTE ITALIANE
50 Centesimi
MONDOVÌ PIAZZA
22.6.29.16
(CUNEO)
ROMA
10-11
23-VI
29-VII
DISTRIBUZIONE
timbro
UN ALTRO QUINTALE IN PIÙ DI
MEDIA E SAREMO ALLA VIGILIA
DELLA VITTORIA DEL GRANO
MUSSOLINI[2]
Note
[1] Vittorio Bartoccini, figlio di Renato, caduto con il suo aereo nei pressi di Malta nel 1941 (medaglia d’argento al valor militare alla memoria). Faceva parte degli ufficiali del corso Sparviero (vedi). La presente pubblicazione proviene dalla documentazione appartenuta a Renato Bartoccini (vedi).
Il padre di Vittorio, Renato Bartoccini, nacque a Roma il 25 ag. 1893, da Goffredo, artigiano, e da Marianna Balducci. Compì i suoi studi a Roma ed era ancora studente universitario quando partì volontario per la guerra del 1915-18, nel corso della quale rimase ferito e fu riconosciuto meritevole di numerose decorazioni: una medaglia d’argento, due medaglie di bronzo, una croce di guerra, due medaglie d’argento francesi. Prima che la guerra finisse, riuscì a conseguire la laurea in archeologia (13 genn. 1917). Fra i suoi maestri nell’università era anche lo storico-antiquario-epigrafista Dante Vaglieri; nel 1918 il B. ne sposò la figlia, Bianca.
Nel 1920 R. Paribeni, direttore delle missioni italiane in Levante, gli assegnò il primo importante incarico: il B. fu inviato in Egitto per studiare una fortezza romana, il Qaşr ash-Sham) non lontano dal Cairo. Su questo tema tenne poi una comunicazione nel VI congresso di studi romani. Nello stesso 1920 fu nominato ispettore presso la Soprintendenza ai monumenti e scavi della Tripolitania, allora diretta da P. Romanelli, che gli affidò gli scavi di Sabratha. Il B. seguì tuttavia anche gli altri lavori che erano in corso nella regione, pubblicando nel frattempo i primi dei suoi numerosi scritti di tema africano: Guida del Museo di Tripoli, Tripoli 1923; Le ricerche archeologiche in Tripolitania, in Rivista della Tripolitania, I (1924), n. 1-2, pp. 59-73; Restauri nel castello di Tripoli, in Bollettino d’arte, XVIII (1924), pp. 279-284. Numerosi articoli del B. compaiono inoltre in vari fascicoli del Notiziario del ministero delle Colonie e dell’Ideacoloniale.
Nominato egli stesso soprintendente nel 1923, dopo il rimpatrio del Romanelli, il B. conservò tale carica fino al 1928.
Il bilancio della sua attività, svolta con l’appoggio del governatore Volpi di Misurata, è di proporzioni notevoli: il complesso di scoperte più rilevanti è quello della zona del foro di Sabratha (due templi, due basiliche cristiane, la curia), ma nel frattempo furono portati avanti anche scavi e studi a Leptis Magna (arco dei Severi, terme), restauri a Tripoli (castello), a Bab el Horria (mura), a Tagiura (moschea). Il B. curò inoltre la risistemazione delle collezioni leptitane, e continuò a scrivere articoli e monografie: Il foro imperiale di Lepcis (Leptis Magna), in Africa italiana, I (1927), n. 1, pp. 53-74; alcuni altri articoli sempre in Africa italiana, I (1927), n. 3 e II (1929), n. 2; Guida di Sabratha, Roma 1928; Guida di Lepcis (Leptis Magna), ibid. 1928; Le terme di Lepcis, Bergamo 1929. Negli anni fra il 1927 e il 1929 il B. collaborò, con articoli di soggetto archeologico, a importanti quotidiani, quali il Corriere della Sera e La Stampa. Sempre nel periodo “tripolitano”, il B. organizzò anche il I convegno internazionale di archeologia cristiana (1925).
Accanto a questa attività febbrile di carattere organizzativo e scientifico, vanno registrate le prese di posizione politiche: come altri noti archeologi del tempo, il B., dopo aver aderito al nazionalismo, aderì anche al fascismo.
Le operazioni da lui portate avanti in Tripolitania sono del resto inquadrabili in quella che viene comunemente definita “archeologia coloniale”: la sfumatura negativa indubbiamente contenuta in questa definizione, però, più degli aspetti politici concerne quelli metodologici. Quegli scavi (e non solo quelli condotti nelle colonie) erano giganteschi sterri, lontanissimi dal rigore dei metodi stratigrafici oggi da molti ritenuti indispensabili; il recupero dei materiali si limitava in genere alle “opere d’arte”, trascurando le testimonianze di “cultura materiale”; si accumulavano enormi masse di reperti e di dati, e poi era arduo trovare il tempo di pubblicarli adeguatamente. Ciò non toglie che l’importanza dei monumenti indagati fosse notevole, l’estensione dei lavori talvolta impressionante.
Alle tendenze proprie, nel bene e nel male, dell’archeologia del suo tempo, il B. aggiungeva le sue personali di “uomo d’azione” instancabile. La sua attività proseguì perciò intensissima anche dopo il suo rientro in Italia (1928). Fra 1929 e 1933 fu direttore dell’Ufficio autonomo per gli scavi, i monumenti e le opere d’arte della provincia di Ravenna: continuò il restauro di S. Vitale (iniziato da C. Ricci), ripristinando fra l’altro l’ingresso ed il livello pavimentale originali; curò i restauri anche di S. Giovanni Battista (dove scoprì la capsella-reliquiario in marmo del V secolo, con Scene dei magi, dell’Ascensione ecc., ora nel Museo arcivescovile) e di S. Giovanni Evangelista. Fu anche direttore dell’Istituto di studi bizantini, nonché della rivista Felix Ravenna, in cui pubblicò numerosissimi articoli sui suoi importanti rinvenimenti e restauri. Ma qualche scritto di questi anni è ancora dedicato alla sua attività in Tripolitania, come L’arco quadrifronte dei Severi a Lepcis, in Africa italiana, IV (1931), n. 1-2, pp. 32-152.
Contemporaneamente, come capo della missione archeologica italiana in Transgiordania, iniziava scavi ad Amman, che sarebbero proseguiti in sette campagne fra 1929 e 1939. E i risultati sarebbero stati copiosi: sull’acropoli sarebbe stata rimessa in luce l’antica roccia sacra degli Ammoniti, poi incorporata in un tempio romano dedicato a Marco Aurelio; da ricordare inoltre l’esplorazione dell’agorà (questa volta con studi anche sulla ceramica), nonché quella di tutta la regione fino alla Siria. Di quest’attività il B. diede notizia: Ricerche e scoperte della missione italiana in Amman, in Bollettino dell’Associazione internazionale per gli studi mediterranei, I (1930), n. 3, pp. 15-17; altri articoli nelle annate III (1932), n. 2, pp. 16-23, e IV (1933), n. 4-5, p. 10, dello stesso periodico; inoltre La roccia sacra degli Ammoniti, in Atti del IV congresso di studi romani, Roma 1938, pp. 103-108; Un decennio di ricerche e di scavi italiani in Transgiordania, in Bollettino del R. Istituto di archeologia e storia dell’arte, IX (1940), n. 1-6, pp. 75-81.
Nel corso di quegli stessi anni, compiva passi avanti la carriera del B. nell’amministrazione: nel 1933 era direttore del Museo nazionale di Taranto, nel 1934 soprintendente ai monumenti e scavi delle Puglie; per un breve periodo, a partire dal 1936, resse anche il Provveditorato agli studi di Bari.
Nel periodo pugliese, il B. si occupò della riorganizzazione e catalogazione del Museo di Taranto, avviando il restauro degli ori provenienti dalle ricche tombe delle zone circostanti; a Lucera condusse scavi nell’anfiteatro e studiò le piccole terrecotte conservate nella collezione antiquaria della città; a Lecce diresse lo scavo dell’anfiteatro; a Canne esplorò il sepolcreto, che attribuì ai caduti romani e cartaginesi della battaglia del 216 a. C., d’accordo con M. Gervasio (attribuzione che fu successivamente posta in dubbio da N. Degrassi e F. Tiné Bertocchi, la quale ultima proseguì l’esplorazione dei sepolcri e stabilì che si trattava di vari nuclei di un cimitero medievale). Fra gli scritti di questo periodo si possono ricordare quattro articoli apparsi in Japigia, VI (1935), n. 1-2, pp. 123-131 e 225-262; VII (1936), n. 1, pp. 11-53; e IX (1941), n. 3-4, pp. 185-213 e 241-298: Sculture romane nel Museo di Canosa, La tomba degli ori di Canosa, Anfiteatro e gladiatori in Lucera, Arte e religione nella stipe votiva di Lucera; inoltre Il teatro romano di Lecce, in Dioniso, V (1935), n. 3, pp. 103-109. Anche in Puglia il B. proseguì la sua attività pubblicistica, collaborando stavolta con la Gazzetta del Mezzogiorno.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, il B., su domanda del governo delle Isole italiane dell’Egeo, era nominato (1940) soprintendente alle antichità a Rodi: condusse scavi e restauri a Rodi stessa, soprattutto nel porto e nella zona nordorientale adiacente, dove un’ampia via colonnata romana si sovrappone alle fasi ellenistiche, e in altre città dell’isola, come Lindos (acropoli, teatro) e Camiros (stoà, templi). La morte in guerra del figlio Vittorio, caduto con il suo aereo presso Malta (medaglia d’argento alla memoria), lo indusse a presentare domanda di rientro in Italia (1941). Fu destinato alla Soprintendenza di Milano, che però non raggiunse perché – nel frattempo – venne richiamato in servizio militare di complemento come ufficiale di Stato Maggiore: come tale, coordinò in Grecia l’ufficio assistenza. Nel periodo della Repubblica di Salò il ministero dell’Educazione Nazionale gli affidò (1944) il salvataggio delle opere d’arte minacciate dalla guerra, alcune delle quali trasportate in ricoveri predisposti nelle Isole Borromee e a Venezia. Ma nello stesso 1944 fu successivamente collocato in congedo, e gli fu affidata un’altra missione: tutelare il patrimonio della Scuola archeologica italiana di Atene, in quel periodo ufficialmente chiusa.
Dopo la guerra, la lunga fedeltà al fascismo fu contestata al B., che fu sottoposto al giudizio della Commissione di epurazione del ministero della Pubblica Istruzione: ma ne uscì prosciolto. Fu destinato all’ufficio esportazione opere d’arte e successivamente (1950) nominato soprintendente alle antichità dell’Etruria meridionale.
In tale veste, avviò la ripresa degli scavi di Caere e Tarquinia, e diresse quelli di Vulci e di Lucus Feroniae. In collaborazione con l’architetto Franco Minissi curò la nuova sistemazione del Museo di Villa Giulia: anche se tale sistemazione è stata da varie parti criticata, va riconosciuto al B. il merito di essersi battuto perché il Museo non cambiasse sede, conservando così la sua collocazione storica. Di tutte queste attività resta testimonianza in scritti come Le pitture etrusche di Tarquinia, Milano 1955; Gli ultimi scavi nell’Etruria meridionale e il riordinamento del Museo di Villa Giulia, in Tyrrhenica, ibid. 1957; Santa Severa (Roma): scavi e ricerche nel sito dell’antica Pyrgi (1957-58), in Atti dell’Accad. naz. dei Lincei, Notizie degli scavi, s. 8, XIII (1959), pp. 113-263, in collab. con vari autori; Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae, Roma 1960; Vulci, ibid. 1960; L’anfiteatro di Lucus Feroniae e il suo fondatore, in Rendiconti della Pontificia Accademia romana di archeologia, XXXIII (1961), pp. 173-189; Il tempio grande di Vulci, in Études Etrusco-Italiques, XXXI (1963), pp. 9-12.
A partire dal 1952, fu ancora a capo di una missione archeologica in Libia: lavorò a Leptis Magna nel foro severiano e nel porto, e studiò a Sabratha monumenti esplorati durante i suoi precedenti soggiorni in Tripolitania. Facendo seguito a La curia di Sabratha, in Quaderni di archeologia della Libia, I (1949), pp. 29-58, poté così pubblicare Il porto romano di Leptis Magna (in collaborazione con A. Zanelli), Roma 1958; Il tempio antoniniano di Sabratha, in Libya antiqua, I (1964), pp. 21 – 42.
Nel 1955-56, infine, fu soprintendente reggente alle antichità di Roma; studiò fra l’altro un celebre sarcofago di Velletri (pubblicato in Rendiconti della Pontificia Accademia romana di archeologia, XXX [1958], pp. 63-69). Anche in questi ultimi anni di servizio, e dopo la messa a riposo, continuò la sua attività di divulgazione (fra l’altro in Le Vie d’Italia e del mondo) e di studio, fino alla morte, avvenuta a Roma il 9 ott. 1963.
Fu socio dell’Accademia nazionale di S. Luca e della Pontificia Accademia romana di archeologia.(fonte)
[2] Discorso di Roma, 14 ottobre 1928
Ai Veliti del grano
di Benito Mussolini
Camerati agricoltori! Signori!
È questa la terza volta che si svolge in Roma la cerimonia della premiazione ai bravi rurali che, combattendo nelle prime linee, si sono meritati il nome di « vèliti » dell’agricoltura italiana. Cerimonia la cui significazione morale non ha bisogno di essere illustrata; cerimonia che ha, tra l’altro, l’obbiettivo di concentrare l’attenzione di tutta la Nazione sui problemi fondamentali dell’agricoltura e permettere a me di tracciare il consuntivo dell’annata.
Come siamo andati nell’anno agricolo 1928? Tutto sommato, discretamente. Gli inizi furono oltremodo promettenti. C’è stato un raccolto di bozzoli soddisfacente anche dal punto di vista dei prezzi; una prima fienagione abbondantissima, ma poi le piogge eccessive di aprile e di maggio, danneggiarono i frumenti in talune plaghe. Tuttavia se la « stretta », dovuta ai venti della prima decade di giugno, venti che i poeti chiamano favoni, e noi prosaicamente sciroccali, non avesse danneggiato i frumenti prossimi alla maturazione, il raccolto del grano avrebbe probabilmente toccato quel totale di 70 milioni di quintali che fu annunziato un po’ troppo in anticipo dagli ottimisti. Le definitive risultanze lo riducono a 62.214.800 quintali.
È quindi di 10 milioni di quintali esattamente superiore al raccolto del 1927. Date le contingenze avverse o non compiutamente favorevoli, il raccolto è buono. Anche i prezzi non sono precipitati all’atto del raccolto. C’è stata una provvida resistenza alle svendite immediate, resistenza che bisognerà sempre meglio organizzare.
Il raccolto delle bietole è stato mediocre, come quello della canapa. Riso, uva, ulivi e agrumi bene, anche come prezzi. Raccolti minori, male. Granturco, specie nel Veneto, distrutto dalla siccità.
Ecco, in sintesi, l’annata agricola 1928 che si chiude in attivo, pur non essendo l’attivo sperato e meritato. Il danno maggiore è stato provocato dalla siccità, che ha imperversato in tutto il bacino mediterraneo, dal maggio al settembre. Per tre lunghi mesi consecutivi non una goccia di acqua è caduta sulla terra italiana. Ciò risulta dal mio diario meteorologico che curo con diligenza particolare. Si comprende ora perfettamente il fervore irrigatorio da cui sono animati gli agricoltori italiani, fervore che darà ottimi risultati, poiché laghi, fiumi e sorgenti sotterranee non mancano in Italia.
Come già dissi, l’acqua c’è, bisogna soltanto trovarla e condurla sposa col sole. Le cause della prolungata siccità, non mai interrotte da precipitazioni atmosferiche (salvo alcuni rovinosi cicloni); sono da ricercarsi nella penosa e totale calvizie della nostra catena appenninica. Mancano le grandi foreste dalle quali si sprigionano le correnti che coagulano, congestionano il vapore acqueo sospeso negli alti strati dell’atmosfera e lo fanno precipitare sotto forma di pioggia. Nell’attesa che gli alberi piantati a centinaia di milioni compiano (fra le molte altre) anche questa funzione fondamentale di equilibrio atmosferico, e l’attesa sarà lunga e non inferiore a mezzo secolo, è necessario creare senza indugio impianti di irrigazioni. Ne sono avviati taluni, in Lombardia e nel Veneto, che riscatteranno amplissime plaghe e sono per la loro imponenza, degni dell’Italia fascista. È noto che il Governo fascista, non solo incoraggia, ma appoggia tangibilmente queste iniziative.
Da quando io ho posto l’agricoltura al primo piano dell’economia nazionale, da quando ho dimostrato coi fatti che l’agricoltura doveva essere la preferita su tutte le altre forme della produzione, uno spirito nuovo, fatto di fiducia, di tenacia, di orgoglio ha sollevato i rurali da un capo all’altro d’Italia. Gli eserciti si perfezionano combattendo, così avviene dell’esercito rurale italiano, il quale, dopo questi anni di battaglia, si presenta migliorato nei suoi quadri, compattissimo nelle file e deciso a marciare. La bella sfida tra i rurali di Brescia e quelli di Cremona è la prova di un morale resistente a tutte le difficoltà e ansioso di superarle.
Non tocca a me di rielencare le provvidenze del Governo fascista a vantaggio dell’agricoltura. Voi le ricordate, anche perché ve ne sono di molto recenti. Solo vi dirò che io seguo le vicende dell’attività agricola italiana quotidianamente e deligentemente; vi dirò che ho fatto e farò tutto il possibile per rendere più prospera l’agricoltura e per aumentare il benessere dei rurali silenziosi e fecondi. La bonifica integrale del territorio nazionale è una iniziativa il cui cómpito basterà da solo a rendere gloriosa, nei secoli, la Rivoluzione delle Camicie Nere.
Tale iniziativa che sarà tra poco legge dello Stato e troverà immediata, organica, regolare applicazione, è l’indice di un orientamento del Regime che io esprimo in questa formula: il tempo della politica prevalentemente urbana è passato. Del resto, tutte le città hanno avuto somme che si cifrano a miliardi per cose utili e anche per abbellimenti e bellurie superflue; ora è il tempo (e gran tempol) di dedicare miliardi alle campagne, se si vogliono evitare quei fenomeni di crisi economica e di decadenza demografica che già angosciano paurosamente altri popoli.
Io vi dico, senza false modestie, che l’agricoltura italiana, nei sei anni del Regime fascista, ha compiuto passi giganteschi, prima di tutto per la pace garantita alle genti dei campi, in secondo luogo per i progressi tecnici realizzati in ogni ramo, in terzo ed ultimo luogo, per il prestigio ed il posto che il Regime fascista le ha conferito.
Prima di passare alla consegna dei premi, io voglio tributare un elogio ai dirigenti delle grandi organizzazioni sindacali che hanno dovunque fatto opera di verace, leale, fascistica collaborazione, ai tecnici agricoli e ai cattedratici, che considero (insieme coi proprietari intelligenti ed attivi) i quadri dell’esercito. Voglio ricordare i professori delle scuole agrarie, i maestri delle scuole rurali, gli ufficiali dell’Esercito e, infine, i parroci, i quali hanno organizzato 40 adunate di propaganda per la battaglia del grano, mentre 82 di essi sono stati premiati. Il che dimostra che la saggia, religiosa cura delle anime può andare benissimo congiunta con un’attività pratica rivolta ad aumentare il benessere delle popolazioni rurali.
Finalmente, il mio elogio, il mio plauso va alla massa dei grandi e modesti agricoltori, dei piccoli proprietari, dei mezzadri, i quali tutti hanno risposto alla mia parola d’ordine con unanimità che si può chiamare « commovente », dato lo stato di lontananza e di trascuranza in cui, per troppo lungo tempo, fu tenuta la gente dei campi. Nei villaggi, nelle fattorie, nei casolari, questa parola d’ordine è penetrata come un comandamento, e la massa innumere delle fanterie rurali si muove innanzi solenne verso le ulteriori conquiste. Di questa massa una piccola avanguardia di 50.000 uomini si raccoglierà a Roma nel X Annuale della Vittoria, che fu conquistata sopra tutto col sangue dei contadini.
Spero che la radio mi abbia concesso la grande gioia di far giungere la mia voce e il mio fraterno saluto agli agricoltori che, in molte località d’Italia si sono riuniti per ascoltarmi. Il mio saluto va anche ai rurali che, in Tripolitania, in Cirenaica ed in Somalia sono intenti all’opera dei pionieri che dissodano la steppa e riconducono la vita e la fertilità dove per secoli fu l’aridità e la morte. Questi camerati meritano una speciale menzione, perché la loro fatica si svolge in condizioni più aspre e sotto un clima più avverso. Tutti gli agricoltori e in Italia e nelle Colonie sanno come i loro interessi mi stiano profondamente a cuore; essi non ignorano che io sono specialmente pensoso del loro destino. Aumentare fino al possibile la fecondità della terra italiana, elevare la sorte dei milioni e milioni di rurali che lavorano con dura e sacra tenacia, ecco uno dei fini fondamentali del Regime fascista al quale non mancheremo.
Ed ora, o camerati, la parola d’ordine per il quarto anno della battaglia del grano è la seguente: diligente preparazione del terreno; sementi elette; semina a righe dovunque sia possibile; concimazioni naturali e chimiche secondo le indicazioni dei tecnici. Un altro quintale in più di media per ettaro, e saremo alla vigilia della vittoria. Un altro quintale ancora e avremo raggiunto ciò che sembrava sino a ieri un sogno, o un prodigio: la terra italiana che dà il pane per tutti gli Italiani!(fonte)



