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Eugenio Graziosi, 1931

    Eugenio Graziosi, lettera, 1931
    1
    « di 4 »

    Genova 3 – XII – X

    Egregio Barone,

    Rispondo quasi a volta di
    corriere al Suo biglietto del 1 corrente.

    1° Questione Canevari. Le restituisco
    l’incartamento da Lei datomi tempo
    fa in visione. Unisco un appunto informa-
    tivo datomi da un ufficiale superiore 1°
    Marina sul Canevari[1]. Non è molto chiaro,
    ma sufficiente a lumeggiare sotto qualche  
    aspetto la figura del Canevari, figura che
    Le confesso non mi è rimasta simpatica
    dalla sola lettura delle sue discolpe (lettura
    del 2 ottobre n. s. a Lei diretta).
    Come mai il Canevari che si dice fiero
    dell’incondizionato appoggio di un

    Maresciallo d’Italia, di 1° esempio e del
    Partito, cerca non far uscire la sua questione
    dall’ambito militare, dandole una pubblicità
    che è assolutamente contraria a quel riserbo
    e a quella disciplina che devono …. di norma
    ad ogni ufficiale fin che non viene allonta-
    nato dall’Esercito?

    È vero che egli si atteggia nientemeno
    che a un secondo Dreyfus[2] e forse va
    in cerca di un secondo Zola[3]. Ma
    non vorrà certamente lui cambiare
    il “J’accuse”[4].
    Se debbo dirle francamente il mio
    parere, io mi disinteresserei della cosa.

    2° Mancata offensiva nostra
    in risposta alla offensiva austriaca del
    giugno 1918 – Non sono proprio in
    grado di esprimere un parere-

    questione così delicata. Mi mancano
    tutti gli elementi.
    Pur tuttavia dichiara che lo sforzo
    austriaco non fu stroncato fin dal 1 giorno
    di battaglia (1) giugno
    come forse asserì il generale di Divisione[5]
    che critica l’operato del Comando
    Supremo[6], ma si mantenne
    minaccioso fin al 24 giugno
    e richiese l’impiego di numerose
    truppe tolte dalle Armate non a-
    ncora impegnate (6a[7], 1a[8], .4a[9]) –
    ———————-
    Io sono chiuso in casa per cura e
    per assoluto riposo dal mio ritorno
    da Trieste. Vado finalmente molto
    meglio e oggi ho incominciato a uscire.

    Mi rallegro con Lei per la meritata
    onorificenza.
    Ossequi alla Baronessa. A Lei
    cordiali saluti

    Gen Graziosi[10]

    Eugenio Graziosi, questione Monti, 1931

    CRITICA DI UN GENERALE DI DIVISIONE ALL’OPERATO DEL COMANDO SUPREMO PER LA BATTAGLIA DEL 15 GIUGNO 1918.

    Mentre il Comando Supremo austriaco (Arz) e il Comandante del Gruppo
    a nord (Conrad) preparavano la loro offensiva (principale a ovest del Brenta e
    secondaria a est del Brenta), il nostro Comando Supremo preparava anch’esso
    una offensiva, di cui lo sforzo principale doveva essere compiuto precisamente
    dalla 6 Armata, contro Conrad[11]. Tutto da parte italiana era predisposto.
    Ora si domanda come mai, essendo stato lo sforzo austriaco stroncato
    sin dal primo giorno di battaglia, non si sia poi dal nostro Comando posto in
    esecuzione l’attacco in largo stile già preparato. Che a nord noi avessimo trup=
    pe disponibili per eseguire il piano, è provato dal fatto che uno dei Corpi di [Armata]
    [della 4a] Armata (del Grappa comandata da Giardino[12]) mise a disposizione del proprio Co=
    mando d’Armata le sue riserve, dichiarando di non averne più bisogno. Lo stes=
    so avvenne alla 6a.
    Quel giorno, se il nostro Comando Supremo avesse avuto alla propria
    testa un vero Capitano, si sarebbe iniziata una vasta operazione che avrebbe
    gettato a terra l’Impero Austro-Ungarico. Ma per tentare cose grandi bisogna
    saper giocare la propria carta buona, e il nostro Comando era irrisoluto. Non
    sa l’Arte della guerra chi si lascia sfuggire le buone occasioni. Il 15 giugno
    a sera il gruppo di Armate di Conrad non avrebbe certamente potuto resistere ad
    una offensiva su largo stile. È vero che sul Piave non avevamo trionfato co=
    me sul fronte della 6a e 4a Armata, ma appunto per questo dovevamo approfit=
    tare della buona occasione che il fato ci porgeva proprio nel settore dove ave=
    vamo preparato un attacco… che poi non facemmo.

    Eugenio Graziosi, 1931 busta
    a
    « di 2 »

    fronte

    Illustre
    Barone Alberto Lumbroso[13]
    Via Marcello Durazzo N° 12A

    Genova

    2 annulli RAGUSA CENTRO ARRIVI PARTENZE 31231 X 22
    2 annulli GENOVA – CENTRO

    francobollo Cent 50 POSTE ITALIANE

    retro

    annullo GENOVA – CENTRO
    1-2
    9 . XII
    31-X


    Note

    Una premessa sulle note del generale Graziosi:
    Il testo fa riferimento a un dattiloscritto fornito dal Barone Lumbroso ai vari generali che riporta il contenuto della questione sollevata dal Generale Monti, relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad.

    [1] Emilio Canevari (Viterbo, 19 dicembre 1888 – Santhià, 31 dicembre 1966) è stato un generale e saggista italiano, esponente di spicco del fascismo e in particolare della Repubblica Sociale Italiana fondata da Benito Mussolini nell’autunno 1943, della quale organizzò l’Esercito Nazionale Repubblicano.
    Già colonnello nel Regio Esercito, autore di saggi e collaboratore ordinario di Il Regime Fascista con lo pseudonimo di Maurizio Claremoris, fu fra i firmatari del Manifesto della razza che dette vita alle leggi razziali fasciste. Un suo saggio del 1938 sull’impiego dell’aviazione nella guerra civile spagnola avrebbe ispirato, nel 1941, l’elaborazione della strategia dell’aviazione statunitense.
    Nel 1941 tradusse, con il capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Ambrogio Bollati, il testo del 1832 del militare e teorico prussiano Carl von Clausewitz Della Guerra.
    Dopo la caduta del fascismo e l’Armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 aderì alla RSI della quale divenne Segretario Generale dell’Esercito Nazionale Repubblicano al ministro della Difesa nazionale prima di Domenico Chirieleison e Umberto Giglio. Fu poi a capo della missione militare italiana per l’addestramento di quattro divisioni italiane nell’alleata Germania nazista, esordì siglando, il 16 ottobre, con il generale Buhle per parte tedesca, gli accordi fondamentali per la ricostituzione delle forze armate italiane.
    Il patto prevedeva che l’esercito repubblicano fosse arruolato per coscrizione (e quindi non su base volontaria, come chiedeva Ricci) in Italia e addestrato per sei mesi in Germania da istruttori tedeschi, il tutto a spese delle RSI. Ma l’accordo raggiunto coi tedeschi non venne giudicato positivamente dal Duce e Graziani (Dolfin, segretario personale di Mussolini, sospetta che il dittatore inizialmente non lo avesse nemmeno letto e pare che anche Graziani l’avesse firmato senza prima visionarlo) per cui Canevari, capro espiatorio dell’imbarazzo creatosi, venne allontanato dall’esercito il 4 dicembre 1943 con il pretesto di alcune sue dichiarazioni poco ortodosse verso il fascismo.
    Nei mesi successivi operò come ufficiale di collegamento tra Wolff, Graziani e la Milizia Armata responsabile per le questioni concernenti l’arruolamento nelle formazioni di SS italiane; fu anche direttore del settimanale Avanguardia delle SS italiane tra fine marzo e inizio aprile 1944. Il 22 aprile 1944 fu arrestato per attività antinazionali ed antitedesche dalle SS a seguito della denuncia del giornalista Felice Bellotti, capo dell’Ufficio propaganda delle SS ed agente di Wolff: condannato alla deportazione nel penitenziario “Sanatorium” di Monaco, a seguito dell’intervento del generale Harster gli fu permesso di scontare la detenzione in Italia.
    Dopo sei mesi di prigionia a Verona, venne confinato come civile nel paesetto di Torri del Benaco, dove rimase anche dopo la conclusione del conflitto. In un suo memoriale affermò di essere stato arrestato «a scopo di rapina» da soldati statunitensi il 22 aprile 1947 proprio a Torri del Benaco, per poi essere rilasciato a seguito del pagamento di un riscatto.(fonte)

    [2] Alfred Dreyfus nasce come ultimo figlio di Raphaël Dreyfus, un industriale ebreo, e Jeannette Libmann-Weill. Vive in Alsazia assieme ai genitori e i nove fratelli nella casa familiare della rue du Sauvage a Mulhouse. Nel 1871 la Francia, sconfitta nella guerra franco-prussiana, perde l’Alsazia, che viene annessa dall’Impero tedesco. Gli abitanti dell’Alsazia e della Lorena si trovano davanti una scelta: rifugiarsi in Francia o diventare sudditi tedeschi. Nel 1872, i Dreyfus scelgono la nazionalità francese e si trasferiscono prima a Basilea in Svizzera e poi a Parigi. Alfred Dreyfus entra quindi a l’École polytechnique nel 1878 e diventa ufficiale d’artiglieria. È ammesso nel 1890 alla École de guerre, un istituto militare per la formazione degli ufficiali delle forze armate francesi. Nello stesso anno, sposa Lucie Hadamard (23 agosto 1869 – 14 dicembre 1945), proveniente da una famiglia agiata di negozianti di diamanti originaria di Metz. La coppia vede nascere due figli: Pierre (5 aprile 1891 – 28 dicembre 1946) e Jeanne (22 febbraio 1893 – 30 aprile 1981).
    Nel settembre del 1894, il controspionaggio sottrae all’ambasciata tedesca di Parigi una lettera indirizzata a un ufficiale tedesco, in cui venivano rivelate importanti informazioni militari francesi. Alfred Dreyfus, la cui grafia somiglia a quella della lettera, viene rapidamente indicato come sospetto. I timori e le ambizioni politiche del ministro della guerra Auguste Mercier, oltre che l’antisemitismo dello stato maggiore, fanno di Dreyfus il capro espiatorio ideale. Nonostante il processo si basi su documenti palesemente falsi, Dreyfus nel gennaio 1895 viene condannato, quale estensore della lettera, al carcere a vita e inviato in prigionia all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. Nel 1899, a seguito della revisione del processo, la corte militare ne conferma la colpevolezza, ma tramuta la condanna a 10 anni di carcere. Pochi giorni dopo il verdetto Dreyfus ottiene la grazia.
    Malgrado la rilevanza pubblica del caso, Dreyfus non viene interamente riabilitato fino al luglio 1906, quando un verdetto della Corte di cassazione lo conferma innocente. Viene riabilitato nell’esercito e nel grado, ma, a causa dell’indebolimento fisico causato dalla prigionia, viene congedato nell’ottobre 1907 e posto nella riserva. Ritorna in servizio nel 1914 allo scoppio della Grande Guerra col grado di maggiore dell’artiglieria, perlopiù nelle retrovie a Parigi, ma partecipando dal 1917 anche a combattimenti a Verdun e al Chemin des Dames, raggiungendo nel 1918 il grado di tenente colonnello. Il 9 luglio 1919 è insignito del titolo di ufficiale della Legion d’onore. Muore a Parigi nel 1935 ed è sepolto nel Cimitero di Montparnasse. L’iscrizione sulla sua tomba (Qui giace il tenente colonnello Alfred Dreyfus, ufficiale della Legion d’onore) è in francese e in ebraico.(fonte)

    L’Affare Dreyfus fu il maggiore conflitto politico e sociale della Terza Repubblica, scoppiato in Francia sul finire del XIX secolo, che divise il Paese dal 1894 al 1906, a seguito dell’accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania mossa nei confronti del capitano alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus, il quale era innocente. Gli storici sono concordi nell’identificare la vera spia nel maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy.
    L’affare costituì lo spartiacque nella vita francese tra i disastri della guerra franco-prussiana e la prima guerra mondiale: costrinse ministri a dimettersi, creò nuovi equilibri e raggruppamenti politici, spinse a un tentato colpo di Stato. Si crearono e scontrarono, nell’arco di due decenni, due campi profondamente opposti: i “dreyfusardi”, che difendevano l’innocenza di Dreyfus (tra loro si distinse Émile Zola con il suo intervento giornalistico denominato “J’accuse”), e gli “antidreyfusardi”, partigiani della sua colpevolezza.
    La condanna di Dreyfus fu un errore giudiziario, avvenuto nel contesto dello spionaggio militare, dell’antisemitismo imperversante nella società francese e nel clima politico avvelenato dalla perdita recente dell’Alsazia e di parte della Lorena, subita per opera dell’Impero tedesco di Bismarck nel 1871.
    Lo scandalo giudiziario si allargò per gli elementi di falsificazione delle prove portati nel processo, gli intrighi e la coriacea volontà dei più alti vertici militari di Francia nell’impedire la riabilitazione di Dreyfus. Mentre giornali e politici antisemiti, ambienti ecclesiastici e monarchici istigarono e aizzarono ampi settori della società francese contro Dreyfus, i pochi difensori della sua innocenza vennero a loro volta minacciati, condannati o dimessi dall’esercito: Zola si rifugiò all’estero; il maggiore Marie-Georges Picquart, capo dei servizi segreti militari e figura centrale nella riabilitazione di Dreyfus, fu prima degradato e trasferito in Africa, e poi arrestato e condannato. Solo grazie a un compromesso politico, Dreyfus fu graziato e liberato nel 1899. Ci vollero altri anni per ottenere la riabilitazione civile e il suo reintegro nell’esercito nel 1906.(fonte)

    [3] Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902) è stato uno scrittore, giornalista, saggista, critico letterario, filosofo e fotografo francese.
    Considerato uno dei maggiori esponenti del naturalismo, fu uno dei romanzieri francesi più apprezzati, più pubblicati, tradotti e commentati in tutto il mondo, lasciando il segno nel mondo letterario francese per molto tempo. I suoi romanzi hanno avuto diversi adattamenti per il cinema e per la televisione.
    La sua vita e la sua opera sono state oggetto di numerosi studi storici. A livello letterario, è maggiormente noto per i Rougon-Macquart, un affresco romantico in venti volumi raffigurante la società francese sotto il Secondo Impero che raffigura il percorso di una famiglia attraverso le sue diverse generazioni e di cui ciascuno dei rappresentanti, di una particolare epoca e generazione particolari, è oggetto di un romanzo.
    Zola descrisse la società del Secondo Impero nelle sue diversità, evidenziandone la durezza nei confronti dei lavoratori (Germinale, 1885), le sue turpitudini (Nanà, 1880), ma anche i suoi successi (Al paradiso delle signore, 1883). In una ricerca della verità che prende a modello i metodi scientifici, Émile Zola accumula osservazioni e documentazioni dirette su ogni argomento. Con il suo acuto senso del dettaglio e della metafora efficace, con il ritmo delle sue frasi e le sue costruzioni narrative, fu in grado di creare un potente mondo immaginario, abitato da domande angosciate sul corpo umano e sociale.
    Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dal coinvolgimento nell’Affare Dreyfus con la pubblicazione, nel gennaio 1898, sul quotidiano L’Aurore, dell’articolo “J’Accuse…!“, che gli costò una causa per diffamazione e l’esilio a Londra lo stesso anno.(fonte)

    [4] J’Accuse…! (Io accuso…!) è il titolo dell’editoriale scritto dal giornalista e scrittore francese Émile Zola in forma di lettera aperta al presidente della Repubblica francese Félix Faure.
    Pubblicato il 13 gennaio 1898 dal giornale socialista L’Aurore con lo scopo di denunciare pubblicamente i persecutori di Alfred Dreyfus, le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo che lo vide condannato per alto tradimento, al centro di uno dei più famosi affaires della storia francese. In questa eloquente filippica egli denuncia i nemici “della verità e della giustizia”. La locuzione «j’accuse» è entrata nell’uso corrente della lingua italiana, come sostantivo, per riferirsi a un’azione di denuncia pubblica nei confronti di un sopruso o di un’ingiustizia.(fonte)

    [5] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
    Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.
    L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.
    Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)

    [6] Il Comando Supremo Militare Italiano era l’organo di vertice delle forze armate italiane, tra il 1915 e il 1920, durante il Regno d’Italia.
    Istituito durante la prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, con sede operativa a Villa Volpe a Fagagna e dal mese di giugno nel Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il Comando Supremo del Regio Esercito fu sciolto il 1º gennaio 1920 e parte delle sue competenze passarono allo Stato Maggiore del Regio Esercito.
    Tra il 1941 e il 1945 fu istituito il Comando Supremo italiano.
    Era suddiviso in tre organi principali, l’Ufficio del Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano Tenente Generale Luigi Cadorna, il Riparto Operazioni e il Quartier generale, composti da un certo numero di uffici ciascuno.
    L’8 novembre 1917, dopo la Battaglia di Caporetto, la sede, dopo aver ripiegato dal 27 ottobre a Palazzo Revedin di Treviso, poi a Palazzo Dolfin di Padova, poi nella villa di Bruno Brunelli Bonetti a Tramonte di Teolo è stabilita all’Hotel Trieste di Abano Terme agli ordini del Generale Armando Diaz.(fonte)

    [7] Sesta Armata (Regio Esercito). Le origini della grande unità risalgono al 28 maggio 1916 quando venne costituito il Comando truppe altipiani, che venne posto alle dipendenze tattiche della 1ª Armata e immediatamente impiegato per arginare l’offensiva austriaca in Trentino, la cosiddetta Strafexpedition o Frühjahrsoffensive (“offensiva di primavera”). Fortemente voluta e pianificata dal Capo di Stato maggiore dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico, feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, l’offensiva aveva il dichiarato intento di annientare l’Esercito Italiano scatenando una poderosa offensiva attraverso le linee della 1ª Armata, per prendere di rovescio l’intero schieramento italiano. Successivamente il Comando truppe Altipiani venne schierato tra la Val d’Astico e la Valle del Brenta.
    Il 1º dicembre 1916 il Comando truppe altipiani fu trasformato nel Comando della 6ª Armata, prendendo parte, dal 10 al 29 giugno 1917, al comando del generale Ettore Mambretti alla battaglia del monte Ortigara sull’altopiano dei Sette Comuni, attaccando in forze il settore austro-ungarico difeso dall’11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel. Il 20 settembre 1917 il Comando della 6ª Armata venne trasformato nuovamente in Comando truppe altipiani, che venne definitivamente sciolto il 1º marzo 1918, e venne ricostituito nella stessa data il Comando della 6ª Armata, al comando del Tenente generale Luca Montuori, distinguendosi particolarmente durante la battaglia del Solstizio e nel mese di ottobre in quella di Vittorio Veneto.
    Alla vittoria nella battaglia del Solstizio contribuì notevolmente il comando artiglieria del Maggior generale Roberto Segre, grazie alla tattica della “contropreparazione anticipata”, con cui l’artiglieria della parte in difesa non si limita ad attendere il tiro di preparazione avversario, ma lo eguaglia o lo anticipa, non limitandosi al fuoco di controbatteria ma prendendo di mira anche i luoghi di adunata delle truppe avversarie, fiaccandone così la spinta offensiva. Questa tattica permise di bloccare sul nascere l’offensiva austro-ungarica sugli Altipiani, tanto che le artiglierie di Segre poterono essere distolte dal proprio fronte per intervenire in difesa del settore occidentale del Grappa..
    Tra le file della 6ª Armata vi è stato, presso l’Ufficio informazioni, dal dicembre 1916 al luglio 1917, il Capitano pilota (ex del 6º Reggimento alpini e decorato anche nella Guerra italo-turca) Armando Armani futuro Capo di stato maggiore della Regia Aeronautica.
    Il 10 maggio 1917 venne costituito il Comando Aeronautica che aveva alle dipendenze il VII Gruppo, poi 7º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre. L’8 novembre successivo venne chiuso il Comando Aeronautica ed il 17 marzo 1918 venne costituito l’Ufficio di Aeronautica con il Maggiore Ermanno Beltramo che aveva sempre alle sue dipendenze il VII Gruppo. Dal 4 ottobre 1918 la 6ª Armata ricevette alle sue dipendenze il XXIV Gruppo aereo.
    Al termine del conflitto, il 1º luglio 1919 la 6ª Armata venne definitivamente sciolta.(fonte)

    [8] Prima Armata (Regio Esercito) è stata una grande unità del Regio Esercito Italiano della prima e della seconda guerra mondiale.
    Origini
    La 1ª Armata deriva dal Comando Designato d’Armata di Milano che divenne, nell’ottobre 1914 Comando 1ª Armata.

    Prima guerra mondiale
    Allo scoppio della 1ª guerra mondiale posta al comando del Tenente Generale Roberto Brusati e aveva alle sue dipendenze il III Corpo d’armata di Milano al comando del tenente generale Vittorio Camerana e il V Corpo d’armata di Verona al comando del tenente generale Florenzio Aliprindi.
    La 1ª Armata, che aveva Quartier generale a Verona, venne schierata dal Passo dello Stelvio al Passo Rolle, su un arco valutabile, in linea d’aria, di circa 200 chilometri, con il III Corpo d’armata che andava dal confine svizzero al Garda e il V Corpo d’armata dal Garda al Cereda e Croda Granda fino al Rolle e secondo il comandante supremo dell’esercito, generale Luigi Cadorna, doveva mantenere un contegno strategicamente difensivo, non solo durante il periodo della radunata, ma anche per tutto il tempo nel quale la 4ª Armata del generale Luigi Nava avrebbe operato dal Cadore per aprirsi un varco verso il Tirolo.
    La 1ª Armata avrebbe dovuto però eseguire limitate offensive per meglio assicurare l’inviolabilità della frontiera italiana, portando l’occupazione nel territorio nemico, ovunque questo fosse possibile e conveniente. Nell’intendimento di Cadorna la 1ª Armata avrebbe dovuto impedire qualsiasi offensiva austriaca dal Trentino assicurando così le retrovie del grosso dell’esercito italiano impegnato sull’Isonzo. Sopportando di malagrazia il dover rimanere sulla difensiva, Brusati era rimasto sconcertato dall’incapacità di Cadorna di comprendere che il nemico si era ritirato su una linea difensiva ben al di dentro del confine di stato e portò a termine tali operazioni offensive con la massima energia. Già il 25 maggio 1915, giorno successivo all’entrata in guerra, le truppe italiane, approfittando del fatto che quelle austriache erano schierate alquanto lontano dalla linea di confine, conquistarono un terreno di notevole valore strategico. A partire dalla seconda metà del mese di agosto, l’insufficienza dei mezzi a disposizione determinò il fallimento dei nuovi attacchi contro le fortificazioni permanenti austriache che presidiavano la testata della Val d’Astico. Il 29 agosto il generale Cadorna richiamò il Comando d’Armata al suo compito prettamente difensivo, tuttavia Brusati non rinunciò mai a compiere ulteriori operazioni atte a consolidare il fronte, facendo assumere allo schieramento delle sue truppe una proiezione prettamente offensiva. Tale schieramento portò a trascurare gli apprestamenti difensivi e il grosso delle forze a disposizione rimase concentrato sulle posizioni avanzate, spesso disagevoli e che non si apprestavano alla difesa, anziché sulle posizioni retrostanti, più idonee alle operazioni difensive.
    Nel marzo 1916, mentre il comando della 1ª Armata studiava nuove puntate offensive, i servizi di informazione dell’Armata ebbero le prime notizie una grande concentrazione di forze austriache nel settore del Trentino. Si trattava dei preparativi per la cosiddetta Strafexpedition, fortemente voluta e pianificata dal Capo di Stato maggiore dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico, feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf. Tale offensiva aveva il dichiarato intento di annientare l’esercito italiano, scatenando una poderosa offensiva attraverso le linee della 1ª Armata per prendere di rovescio l’intero schieramento italiano. In vista di una probabile offensiva nemica, su sua richiesta, il Comando Supremo gli concesse ulteriori cinque divisioni. Il 24 marzo da Londra Cadorna richiamava che per nessun motivo le truppe avrebbero dovuto lasciarsi trascinare da resistenza su posizioni avanzate, ma un eventuale ripiegamento avrebbe dovuto avvenire tempestivamente affinché le truppe conservassero efficienza per difendere linea principale.
    In aperto disaccordo con Cadorna Brusati però ordinò l’esatto contrario, disponendo la difesa ad oltranza delle posizioni avanzate, contando sulla solidità dei lavori di rafforzamento eseguiti fino ad allora. In più, il 1º aprile, l’Armata passò nuovamente all’offensiva, lanciando assalti che conseguirono alcuni brillanti, sia pur parziali, successi.
    Nella seconda metà del mese di aprile il generale Cadorna visitò le linee della 1ª Armata e in tale occasione si rifiutò perfino di incontrare Brusati perché, secondo il biografo di Cadorna, aveva già in mente di destituirlo. L’8 maggio Brusati venne esonerato da Cadorna dal comando e venne sostituito dal generale Guglielmo Pecori Giraldi, otto giorni prima della Strafexpedition e ne mantenne il comando fino al termine del conflitto; la 1ª Armata per il resto del conflitto venne schierata sul fronte degli Altipiani e dal 10 aprile 1917 ebbe alle proprie dipendenze il IX Gruppo (poi 9º Gruppo Caccia) fino a luglio 1918.
    Anche il Comando truppe altipiani, costituito il 28 maggio 1916 venne inquadrato nella 1ª Armata, per essere successivamente trasformato il 1º dicembre dello stesso anno nel Comando della 6ª Armata
    Nel corso della battaglia di Vittorio Veneto la 1ª Armata avanzò sino a Mezzolombardo, Lavis, Civezzano, Pergine, entrando a Trento il 3 novembre 1918. Dopo la firma dell’armistizio la 1ª Armata estese la sua occupazione su tutto il Trentino, l’Alto Adige, il Tirolo austriaco.
    Al termine del conflitto la 1ª Armata tornò ad essere uno dei comandi designati d’armata del Regio Esercito e il 20 settembre 1919 il Comando della 1ª Armata venne trasformato in Comando zona Trento.

    Seconda guerra mondiale
    Nel giugno 1938 il comando venne trasferito a Roma assumendo la denominazione di Comando Designato 1ª Armata al comando del Generale designato d’armata Adriano Marinetti per poi diventare nell’agosto 1939 Comando 1ª Armata assumendo alle dipendenze il II, III e XV Corpo d’Armata.
    Il 10 giugno 1940 giorno dell’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale la 1ª Armata, in seno alla quale venne inquadrato anche l’VIII Corpo d’Armata, venne schierata, al comando del generale Pietro Pintor, lungo il confine francese dal Monte Granero (escluso) alla costa ligure con il II, III e XV Corpo d’Armata in prima linea e in seconda linea l’VIII Corpo d’Armata e supportata dalla 118ª Squadriglia Ricognizione dell’Aviazione Ausiliaria per l’Esercito, partecipando alla campagna delle Alpi Occidentali contro la Francia su due direttrici operative: quella del Colle della Maddalena, con obiettivo Barcelonnette, Marsiglia e quella della Riviera con obiettivo Mentone, Nizza, Marsiglia. L’azione, iniziata il 23 giugno incontrò una tenace resistenza francese, specie nel settore del II e III Corpo d’Armata e le condizioni ambientali, unite al caos logistico, all’imperizia tattica dei comandi e alla mancanza di artiglieria e addestramento alla guerra di montagna, frenarono ulteriormente la spinta offensiva. Le fanterie italiane fece limitati progressi, in alcuni punti rimasero bloccati sul posto fino al giorno dell’armistizio con la Francia. L’unica conquista di una certa rilevanza fu l’abitato di Mentone, a meno di 10 chilometri dal fronte, conquistato da una colonna della divisione “Modena” che era riuscita a scendere dai monti senza trovare troppa resistenza. Al termine delle operazioni, la 1ª Armata venne sciolta il 31 luglio 1940.
    Il 1º ottobre 1942 venne costituita L’Armata corazzata italo-tedesca (A.C.I.T.) con elementi della Panzer armee Afrika. Dopo la sua formazione, l’Armata corazzata italo-tedesca al comando del generale tedesco Georg Stumme, fino alla morte di costui avvenuta il 24 ottobre 1942, e del maresciallo Erwin Rommel a partire dal 25 ottobre, prese parte nell’ottobre-novembre 1942 alla battaglia di El Alamein e nel novembre 1942, alla ritirata dalla frontiera egiziana e dalla Cirenaica. Successivamente nel novembre-dicembre 1942 l’Armata corazzata italo-tedesca (tedesco: Deutsch-Italienische Panzerarmee), incalzata dall’VIII armata britannica del maresciallo Montgomery venne impegnata nella battaglia difensiva sulla linea di Marsa el Brega. Nel dicembre 1942 l’A.C.I.T. iniziò la ritirata dalla Tripolitania e nel dicembre 1942-gennaio 1943 venne impegnata nella battaglia difensiva sulla linea di Buerat. Tra il gennaio-febbraio 1943 l’A.C.I.T. venne impegnata in alcune battaglie di retroguardia sul confine tra la Tunisia e la Tripoltania e il 25 gennaio 1943, abbandonata la Libia l’A.C.I.T., superato il confine con la Tunisia partecipò a tutte le fasi della Campagna di Tunisia fino alla resa.
    Nel novembre del 1942 vennero inviate in Africa settentrionale, per supportare le forze italiane presenti, alcuni reparti della Divisione “Centauro” che, già decimata durante il trasferimento dall’Italia verso il suolo africano, essendo stato attaccato il convoglio che li trasportava, non giunse in Africa come reparto organico, dato che parte delle sue unità non venne mai trasferita e che i reparti trasferiti, man mano che arrivavano sul suolo africano, venivano immediatamente inviati al fronte aggregati ad altre grandi unità, sia italiane sia tedesche. La maggior parte dei carri dei battaglioni XIV e XVII del 31º Reggimento carristi avevano operato sotto il comando del Raggruppamento Cantaluppi, che aveva già assorbito quanto restava dell’Ariete e della Littorio. Dopo una serie di acquisizioni e perdite di unità, non ben chiarite a causa delle difficoltà di documentazione in quei frangenti abbastanza caotici, all’inizio del 1943 il Raggruppamento Cantaluppi, assieme a reparti del 5º Reggimento bersaglieri e del 31º Reggimento carri giunti dalla Grecia, formava la Divisione Centauro che in quei primi mesi dell’anno è stata protagonista delle prime e uniche vittorie del Regio Esercito su quello statunitense, nelle battaglie del passo di Kasserine e di El Guettar.
    Nel novembre 1942, dopo la sconfitta di El Alamein e lo sbarco alleato in Algeria e Marocco l’OKW inviò sul suolo africano la 5. Panzerarmee al comando del generaloberst Hans-Jürgen von Arnim, con l’obiettivo di creare una testa di ponte in Tunisia per fronteggiare la minaccia proveniente sia da Est sia da Ovest.
    Il 23 febbraio 1943 la Deutsch-Italienische Panzerarmee venne rinominata come 1ª Armata italiana e posta sotto il comando del generale italiano, Giovanni Messe, mentre Rommel venne posto al comando di un nuovo Heeresgruppe Afrika (Gruppo d’armate Africa) creato per controllare sia la 1ª Armata italiana che la 5. Panzerarmee tedesca. Rommel affrontò le truppe americane nella battaglia del passo di Kasserine ottenendo alcuni notevoli successi iniziali e infliggendo pesanti perdite alle inesperte forze nemiche, ma tuttavia dovette alla fine ripiegare sulle posizioni di partenza a causa della complessiva netta inferiorità di uomini e mezzi e fronteggiando ancora una volta le forze britanniche, sul vecchio confine difensivo francese della linea del Mareth, Rommel poté solo ritardare l’inevitabile. Rommel, dopo essersi ammalato, lasciò l’Africa, cedendo il comando il 9 marzo 1943 al Generaloberst (colonnello generale) von Arnim.
    Il 20 marzo 1943 la Divisione Centauro, schierata a Gafsa, nel corso della battaglia della Linea del Mareth venne attaccata dall’intero II Corpo statunitense. La Divisione Centauro resistette alle forze nemiche soverchianti per ben 12 giorni, finché il 31 marzo non fu sostituita in linea dalla 21ª Panzerdivision. Nonostante avesse tenuto il fronte, la divisione italiana era praticamente annientata, quindi i suoi reparti di bersaglieri furono aggregati al Kampfgruppe Manteuffel (Gruppo di combattimento Manteuffel) ed i carri, sempre sotto comando italiano, alla 10ª Panzerdivision.
    Messe da parte sua riuscì con perizia a ritardare la sconfitta delle truppe italo-germaniche costringendo i nemici alla difesa nella Battaglia di Médenine. Caduta la V Armata tedesca, per l’impossibilità di ricevere rifornimenti e rinforzi attraverso il canale di Sicilia, ormai completamente controllato dagli alleati, si venne a creare uno stallo imprevedibile, nel quale le truppe italiane resistevano senza troppe prospettive, circondate da truppe alleate di molti contingenti, ma Messe, benché accerchiato, resistette rispondendo, agli inviti alla resa, che si sarebbe arreso solo se fosse stato concesso alle sue truppe l’onore delle armi che gli avversari non concessero. La situazione fu risolta da Mussolini che il 12 maggio 1943 telegrafò a Messe l’ordine di resa nominando Messe Maresciallo d’Italia. Il 13 maggio, le truppe italiane si arresero e Messe fatto prigioniero dal generale dell’esercito neozelandese Bernard Freyberg.(fonte)

    [9] Quarta Armata (Regio Esercito). La 4ª Armata deriva dal Comando designato d’armata di Bologna, trasformato nell’ottobre 1914 nel Comando della 4ª Armata.
    All’entrata in guerra dell’Regno d’Italia, il 24 maggio 1915, la 4ª Armata, al comando del tenente generale Luigi Nava e quartier generale a Vittorio Veneto, aveva alle sue dipendenze il I Corpo d’armata del tenente generale Ottavio Ragni, il IX Corpo d’armata del generale Pietro Marini e il Comando zona Carnia del tenente generale Clemente Lequio. Capo di stato maggiore dell’armata era il maggior generale Oreste Bandini.
    La grande unità schierava le proprie forze dal Passo Cereda al Monte Peralba (sorgenti del Piave) su un fronte di circa 75 km e negli intenti del generale dell’esercito Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, doveva passare all’offensiva generale iniziando con l’espugnazione dei forti di Sexten, Landro e Valparola, con un’azione di spiccato carattere e vigore. Il primo obbiettivo delle operazioni doveva esser quello di impadronirsi alla destra del nodo di Toblach e alla sinistra dei colli circostanti al gruppo montuoso del Sella.
    La 4ª Armata non riuscì a realizzare le aspettative, e il generale Nava si segnalò come il più attendista dei comandanti d’armata italiani. Alla fine del giugno 1915 Nava chiese l’esonero del generale Pietro Marini, comandante del IX Corpo d’armata, colpevole di aver occupato imprudentemente la selletta del Sasso di Stria e Cadorna, che non condivideva la stima di cui Nava era pressoché unanimemente accreditato, accettò la richiesta, ma il 25 settembre dello stesso anno esonerò anche Nava, sostituendolo con il tenente generale Mario Nicolis di Robilant.
    La motivazione ufficiale fu che: nei primi quindici giorni di operazioni non ha agito con prontezza ed energia, sfruttando la sua superiorità di forze, e ha esercitato il comando con insufficiente decisione.
    La 4ª Armata prese parte alla battaglia di monte Piana, una lunga e sanguinosa serie di scontri in montagna avvenute sulla sommità del monte Piana, uno dei teatri più sanguinosi e statici di tutta la guerra, facente parte del massiccio delle Dolomiti di Sesto, dove tra il 1915 e il 1917 si consumarono alcuni dei più violenti scontri tra soldati italiani e austro-ungarici che per ben due anni lottarono sulla sommità pianeggiante di questo monte.
    A seguito della disfatta di Caporetto alla 4ª Armata fu ordinato dal generale Cadorna di ritirarsi nei pressi del monte Grappa, ma Nicolis di Robilant, che forse non si era reso conto della gravità della situazione, ordinò di ripiegare con un ritardo che causò la cattura di circa 11.500 uomini, intrappolati dalle forze di Otto von Below; a questo suo grave errore comunque Nicolis di Robilant rispose poco tempo dopo vincendo la prima battaglia del Piave.
    Nel febbraio del 1918 Nicolis di Robilant lasciò il comando della 4ª Armata, per passare al comando della 5ª Armata, al tenente generale in comando di armata Gaetano Giardino, che si preoccupò di incrementare le difese del massiccio del Grappa, che rappresentava l’ultimo ostacolo naturale fra il fronte e la pianura veneta e di migliorare anche le comunicazioni e, soprattutto, le condizioni di vita delle truppe che difendevano la posizione, sia in trincea sia nei periodi di riposo e inoltre, nel campo dell’impiego tattico delle truppe, si preoccupò di innovare i metodi di combattimento, introducendo nella dottrina tattica della sua armata sia i reparti d’assalto sia il tiro di contropreparazione dell’artiglieria. Tale preparazione delle truppe su istruzioni tattiche più moderne fu salutare nel corso della battaglia del solstizio, quando il fronte, dopo un iniziale sbandamento, fu ripristinato utilizzando il 9º reparto d’assalto, comandato dal maggiore Giovanni Messe e all’azione congiunta delle artiglierie della 4ª e della 6ª Armata. Nel corso della battaglia di Vittorio Veneto l’Armata del Grappa, che aveva alle sue dipendenze il IX Corpo d’armata del tenente generale Emilio De Bono, il VI Corpo d’armata del tenente generale in comando di corpo d’armata Stefano Lombardi, si batté nelle operazioni che si svolsero dal 24 al 29 ottobre 1918, perdendo 25 000 uomini.
    Il 18 luglio 1919 l’Armata del Grappa venne sciolta.(fonte)

    [10] Eugenio Graziosi, nato il 16 luglio 1870 a Roma, fu una figura di spicco nella storia militare e politica italiana del XX secolo. Figlio di Giuseppe e Erminia Garofali, fin dall’infanzia dimostrò un forte spirito patriottico che lo avrebbe guidato per tutta la sua vita.

    La sua formazione iniziò con il suo ingresso nell’Accademia militare il 3 ottobre 1887, dove dimostrò un impegno eccezionale nelle discipline militari. Successivamente, il 19 ottobre 1889, entrò nella Scuola d’applicazione d’artiglieria e genio, dove affinò le sue abilità nel campo della strategia militare.
    Il suo percorso accademico proseguì con la Scuola centrale di tiro di fanteria, che frequentò dal 12 dicembre 1897. Questo periodo di formazione lo preparò per un servizio militare di alto livello, e nel 1900, Eugenio Graziosi entrò nella prestigiosa Scuola di guerra, rimanendovi fino al 1903.

    Dopo aver completato la sua istruzione militare, Graziosi intraprese una lunga e distinta carriera nell’Esercito italiano. Nel corso degli anni, avanzò nei ranghi militari fino a raggiungere il grado di Generale di Corpo d’Armata il 18 ottobre 1928. Durante la sua carriera, ricoprì diverse cariche di rilievo, tra cui quella di Presidente del Tribunale supremo militare in due mandati distinti: dal 1° novembre 1928 al 27 agosto 1931 e nuovamente dal 1° ottobre 1934 al 1° novembre 1936.
    La sua dedizione al servizio militare gli valse numerose onorificenze, tra cui il prestigioso titolo di Senatore, conferitogli il 30 ottobre 1933, dopo essere stato proposto dal relatore Roberto De Vito. Eugenio Graziosi prestò giuramento il 13 dicembre 1933, confermando il suo impegno a servire il Regno.

    Le sue onorificenze militari includono l’Ordine della Corona d’Italia, l’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, l’Ordine militare di Savoia e molti altri, dimostrando il suo impegno e il suo eccezionale servizio alla nazione italiana. Le sue azioni sul campo di battaglia furono altrettanto impressionanti, con decorazioni che includevano la Medaglia d’argento al valore militare e la Medaglia interalleata della Vittoria, guadagnate durante la Prima Guerra Mondiale.

    Eugenio Graziosi non si limitò al servizio militare, ma si dedicò anche alla politica. Divenne membro del Senato del Regno e partecipò attivamente a commissioni parlamentari, tra cui quella per il parere sul progetto delle nuove disposizioni della legislazione penale militare nel 1938. La sua partecipazione politica si estese anche alla Commissione delle Forze Armate e alla Commissione dei lavori pubblici e delle comunicazioni.

    La sua carriera politica subì un brusco cambiamento quando, nel 1944, fu deferito all’Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo (ACGSF). Fu accusato di aver mantenuto il fascismo e di aver reso possibile la guerra sia con il suo voto sia con azioni individuali, tra cui la propaganda. Queste accuse portarono all’ordinanza di decadenza il 31 luglio 1945. Nel 1948, fu emessa la sentenza di cassazione.

    Eugenio Graziosi morì il 7 febbraio 1949 a Torino, ma la sua vita rimane un esempio di servizio dedicato alla sua patria e alla sua nazione. Il suo impegno militare e politico, le sue onorificenze e il suo contributo alla storia italiana rimarranno nella memoria collettiva come una testimonianza del suo spirito patriottico e della sua dedizione alla causa italiana.(fonte)(fonte)(fonte)

    [11] Franz Conrad von Hötzendorf. Feldmaresciallo austriaco, nato l’11 novembre 1852 a Penzing presso Vienna, morto a Mergentheim il 25 agosto 1925. Nel 1906 fu nominato capo di Stato maggiore. Tedesco di stirpe, egli era prettamente austriaco per sentimento, e considerava un furto le rivendicazioni dell’Italia nel 1859 e nel 1866; e sotto lo stesso punto di vista considerava le agitazioni interne ed esterne delle varie nazionalità della duplice monarchia. Perciò egli vide l’unico mezzo di salvezza nella guerra preventiva contro l’Italia (da lui considerata come il nemico tradizionale) e contro la Serbia, sede dell’irredentismo slavo: nel 1911 il ministro Aehrenthal, in seguito a un nuovo tentativo d’indurre alla guerra contro l’Italia impegnata a Tripoli, ottenne dall’imperatore che si ponesse fine a una politica dallo stesso ministro qualificata “di banditismo”, e il C. fu allontanato dalla carica di capo di Stato maggiore; alla quale fu però richiamato dopo la morte dell’Aehrenthal (1912).
    Il C., rimase spesso un solitario, chiuso nella propria superiorità intellettuale, lontano dalla realtà: fino a vedere, ad esempio, continui disegni di aggressione da parte dell’Italia, la quale invece sino a pochi anni prima della guerra mondiale non aveva avuto, verso oriente, che timidi progetti di mobilitazione a carattere difensivo.
    Allo scoppiare della guerra europea egli scrisse a Cadorna che il precedente capo di Stato maggiore, Pollio, gli aveva promesso di mandare truppe in Austria: il C. stesso nelle sue memorie, minute talvolta fino al superfluo, si guarda bene dal precisare dove il Pollio avrebbe fatto simile promessa, in realtà inesistente.
    Anche in guerra il C. si tenne, per abitudine, fuori del contatto con i comandi dipendenti: il generale Krauss, capo di Stato maggiore del comando della fronte verso l’Italia, durante i 27 mesi trascorsi in tale carica non vide mai il C.: così si spiega come questi non conoscesse a sufficienza né i comandi né le truppe. Tali caratteristiche negative, e i preconcetti teorici spiegano gl’insuccessi che il C. ebbe nel campo della realtà. Fu quasi sempre in disaccordo con lo Stato maggiore germanico: tipico il dissenso col Falkenhayn nel maggio 1916, contro il parere del quale attuò l’offensiva del Trentino, con grave danno per le operazioni alla fronte russa.
    Dopo la morte di Francesco Giuseppe, il nuovo imperatore volle assumere personalmente la direzione delle operazioni, ma non trovò un collaboratore gradito nel C., il quale d’altra parte aveva perduto molto del suo prestigio presso l’esercito in seguito all’insuccesso dell’offensiva del giugno 1916 contro l’Italia. L’imperatore Carlo lo mandò a comandare il gruppo di armate del Tirolo. La battaglia del Piave (v.) nel giugno del 1918, nella quale il C. sperava di attuare la sua antica concezione di scendere dagli Altipiani per prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano, fu un disastroso insuccesso per il maresciallo. L’imperatore lo esonerò dal comando, colmandolo tuttavia di onori. Il C. si ritrasse a vita privata e negli ultimi tempi attese a scrivere le sue memorie (Aus meiner Dienstzeit), dal 1906 fino a tutto il 1914, troncate dalla sua morte. Traspare in esse il malanimo contro l’Italia, diventato nel C. una seconda natura, ma le memorie sono un documento prezioso per la nostra storia mettendo in luce i progressi del nostro esercito negli anni precedenti la guerra.
    L’odio tolse al C. la serenità necessaria per apprezzare al giusto valore gli avversari e questa fu non ultima ragione per la quale il successo raramente gli arrise. Si debbono però riconoscergli grandi doti d’intelletto, di operosità e di carattere.(fonte)

    [12] Gaetano Giardino. Nacque a Montemagno (Asti) il 25 genn. 1864 da Carlo e da Olimpia Garrone.
    Entrato nell’esercito appena diciassettenne, fu nominato sottotenente nell’8° bersaglieri il 4 sett. 1882 e poi promosso tenente l’11 ott. 1885. A venticinque anni, come molti degli ufficiali più intraprendenti ed economicamente meno dotati, si recò nei nuovi possedimenti d’Africa che, nel 1890, avrebbero assunto il nome di Colonia Eritrea. Vi rimase insolitamente a lungo, sino all’estate del 1894.
    Colà si mise in evidenza per le sue doti organizzative e di preparazione professionale militare (nel 1893 compilò un regolamento d’istruzione tattica per le fanterie indigene). Il fatto d’armi più importante cui partecipò fu la presa di Cassala (17 luglio 1894): ne riportò una medaglia d’argento e, di fatto, la promozione a capitano (19 sett. 1894). Né la medaglia né l’esperienza sul campo accelerarono, però, più di tanto la sua carriera.
    Tornato in patria, dopo qualche tempo intraprese anche gli studi presso la scuola di guerra, dove riportò buone votazioni, passando dalla fanteria al corpo di stato maggiore. Ma la carriera continuava a scorrere, per il G. come per gran parte degli ufficiali del tempo, ugualmente lenta: la promozione a maggiore arrivò il 29 sett. 1904 e quella a tenente colonnello il 1° luglio 1910. A quella data svolgeva le funzioni di capo di stato maggiore della divisione di Napoli. La sede, probabilmente, insieme con la preparazione coloniale maturata in Eritrea, contribuì però alla sua fortuna. L’anno successivo, allestendosi la spedizione in Libia che proprio da Napoli doveva salpare, il G. vi partecipò come sottocapo di stato maggiore del corpo di spedizione.
    L’incarico non era di immediata visibilità, ma l’esperienza fu importante e non solo organizzativa. Il 4 genn. 1912, in un momento di stallo delle operazioni militari e in una fase di insoddisfazione da parte del presidente del Consiglio G. Giolitti e delle autorità politiche per la lentezza con cui procedevano le operazioni militari, il G. fu inviato a Roma dal comandante della spedizione, C.F. Caneva, per svolgere un’importante missione diplomatica, presentando le ragioni e le giustificazioni relative alla condotta del corpo di spedizione, e conferendo direttamente con le più alte cariche politiche. Al termine della riunione, anche se certo non solo per merito delle doti retoriche del G., un comunicato della Agenzia di stampa Stefani annunziava come, almeno per il momento, il governo fosse “pienamente d’accordo con il comandante in capo, nel quale ripone completa fiducia”.
    La doppia esperienza, coloniale e di stato maggiore, aveva irrobustito il carattere militare del G. e lo aveva spinto – come non pochi ufficiali del tempo – su posizioni politiche antigiolittiane. Negli anni successivi all’impresa di Libia arrivò la promozione a colonnello (4 genn. 1914) e l’incarico a capo di stato maggiore del IV corpo d’armata. Lo scoppio della Grande Guerra e la partecipazione a essa dell’Italia, ora guidata da A. Salandra e S. Sonnino, fornirono al G., cui si era aperta la via per la nomina a generale, l’occasione di un’ascesa sino a quel momento imprevedibile: da allora egli doveva diventare una delle figure più rilevanti, se non più influenti, dell’intera gerarchia militare e giocò, in qualche occasione, un ruolo politico di primo piano a livello nazionale.
    Tra il 1914 e il 1916 fu capo di stato maggiore della 2ª armata (con P.P. Frugoni), poi della 5ª, fra l’altro preparando il balzo oltre l’alto Isonzo e lo Iudrio. A riconoscimento dell’attività svolta, che incontrò il pieno favore del comandante supremo L. Cadorna – cui il G. fu da subito molto vicino -, arrivò la promozione a maggior generale (18 ag. 1915). Con quel grado, comandante della 48ª divisione, il G. si distinse nella presa di Gorizia, verso S. Marco e sul Vertoiba. Comandante del I corpo d’armata nel 1917, passò presto al XXIV.
    Il 5 apr. 1917 Cadorna lo nominava tenente generale. Apprezzamenti e critiche aumentarono, nell’ambiente militare, quando, in occasione della crisi parlamentare del giugno 1917, Cadorna lo propose come sostituto del ministro della Guerra P. Morrone, dimissionario.
    L’incarico ministeriale, dal 16 giugno (con la connessa nomina a senatore), aveva portato alla ribalta una figura di militare tecnico, estraneo ai giochi della politica, che a Cadorna doveva per intero la sua ascesa e che era, inoltre, intimamente convinto della bontà della tattica e della globale condotta della guerra da parte del comandante supremo. Nell’espletamento dell’incarico, a partire da quella delicata estate del 1917, il G. confermò questa immagine, cui si aggiunse qualcosa di più, a giudicare dalle vociferazioni di vaghi progetti, più che veri e propri piani, di un complotto finalizzato ad arrestare V.E. Orlando per mettere il G. a capo di un governo “militare” ispirato da Cadorna. Fatto sta che, forse non a caso, lo stesso B. Mussolini su Il Popolo d’Italia aveva esplicitamente espresso simpatia per l’operato del G. come ministro.
    In questo clima politico, pochi giorni prima del fatale 24 ottobre, il G. affermò dal suo scranno ministeriale che il fronte era sicuro e che non si prevedevano attacchi nemici di rilievo forse sino alla primavera successiva. All’indomani della rotta di Caporetto il governo Boselli si dimise (il G. ricevette fra l’altro il saluto e il ringraziamento del Popolo d’Italia).
    Come ebbe a dichiarare qualche mese più tardi alla commissione d’inchiesta su Caporetto, per il G. – come del resto per Cadorna -, le motivazioni dell’episodio andavano ricercate nel cedimento morale delle truppe, dovuto al disfattismo provocato dal fronte interno. A chi, come F. Martini, lo avvicinò nei mesi immediatamente successivi alla rotta il G. parve preoccupato per il “profondo disprezzo in cui il nemico che tante volte vincemmo oggi ci tiene” (4 nov. 1917) e per il fatto che all’interno dell’esercito “i sobillamenti continuano” (30 nov. 1917), e pronto a criticare, o quanto meno a lasciare criticare, il nuovo comandante supremo A. Diaz (18 genn. 1918). Tanta verbosità critica, però, non ingannava un fine conoscitore come il giornalista L. Barzini il quale, scrivendo a G. Albertini, così liquidava il G.: “mi pare debole” (12 nov. 1917).
    Ma Caporetto (nella cui “preparazione” il G., in effetti, non aveva responsabilità dirette se non quelle politiche generali in quanto ministro) non lo fermò: dopo l’allontanamento di Cadorna il G. divenne vicecapo di stato maggiore (con P. Badoglio secondo vicecapo), rappresentando la continuità con il passato cadorniano (ed esiste una documentazione secondo cui il Consiglio dei ministri valutò anche l’ipotesi di sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, nominando vicecapi di stato maggiore Diaz e il Giardino).
    Da subito gli spazi di manovra non furono ampi per il G. che, peraltro, dovette trovarsi a disagio nel nuovo comando supremo che tanto voleva differenziarsi dal precedente, a lui così caro. Inoltre Badoglio, pur più giovane, assunse su di sé l’intero compito di riorganizzazione dell’esercito.
    Avvenne, dunque, che il G., già nel febbraio 1918, fosse allontanato dal comando supremo e inviato a Parigi per sostituire Cadorna come rappresentate italiano presso il Consiglio militare interalleato: incarico formalmente di grande prestigio, ma i cui i margini d’azione erano, ancora una volta, assai ristretti (e non a caso presentò le sue dimissioni appena un paio di mesi più tardi). Al ritorno in Italia il G. assunse l’incarico militare cui doveva restare definitivamente legata la sua immagine negli anni a venire: il comando dell’armata del Grappa, con il controllo di uno dei punti più delicati dell’intero fronte italiano. La 4ª armata, a lui affidata, non solo giocò un ruolo di rilievo nel tenere la posizione strategica assegnatale, ma seppe reagire all’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 (che in un primo momento aveva rischiato di metterla in ginocchio); quindi, consolidato il proprio morale nei mesi successivi, partecipò, pagando un alto prezzo, alla finale “battaglia” di Vittorio Veneto.
    Nelle settimane immediatamente precedenti il presidente del Consiglio Orlando, nelle more frapposte da Diaz all’offensiva finale, aveva pensato di sostituire Diaz con il G.; poi, verso il 19 ottobre, aveva sollecitato direttamente quest’ultimo a non tardare a prendere l’offensiva nel suo settore, temendo che la guerra potesse concludersi senza una vittoria italiana sul campo.
    Oltre alla strategia e alla tattica militari vere e proprie, il G. reinterpretò a suo modo, con una forte dose di paternalismo militaresco, il nuovo corso postcadorniano nel trattare la truppa, sviluppando una potente, spregiudicata e durevole retorica populista sui “suoi soldatini” dell’armata del Grappa: una retorica al solito assai apprezzata anche da Mussolini, che ne scriveva compiaciuto sul Popolo d’Italia già il 29 giugno 1918. Inoltre, una parte dell’opinione pubblica liberale e conservatrice guardava a lui come a uno dei migliori fra i generali italiani che avevano condotto la guerra.
    Il dopoguerra consacrò definitivamente la figura del G., ormai assurto ai più alti vertici della gerarchia militare (il 21 dic. 1919 fu nominato fra i cinque generali d’esercito), componente di quell’aeropago militare che era il Consiglio d’Esercito (istituito il 25 luglio 1920), nonché comandante designato d’armata.
    Tale notorietà – in fondo dovuta al comandante del Grappa e a uno dei generali di Vittorio Veneto, e comunque ribadita dal G. con i suoi frequenti, e spesso roboanti, interventi in Senato – non era sempre accompagnata per la verità da programmi chiari, carenza cui il G. sopperiva, nel clima d’incertezza del dopoguerra, con una costante intonazione autoritaria e antiprogressista, quando non proprio filofascista. Ma più ancora dell’adesione a uno schieramento politico, era la sua piena adesione alle più retrive e chiuse tradizioni militari a connotarlo. Nell’ambiente militare, però, questo era un titolo di merito tanto che, nel giugno 1921, si parlò di lui come di un possibile ispettore di fanteria (una carica tecnica inferiore solo a quelle di ministro della Guerra e di capo di stato maggiore).
    Altro segno del suo prestigio e dell’importanza che gli veniva attribuita è il frequente ricorrere del nome del G. in gran parte, se non in tutte, le voci di complotto e di colpo di Stato che, fra 1919 e 1922, andarono diffondendosi in Italia. Di fatto è difficile pensare a un G. – il quale, per quanto assai critico della politica liberale era pur sempre un militare di antica tradizione – che architetta complotti in prima persona. Più probabile che egli venisse coinvolto, e fosse lusingato dal farsi coinvolgere, in progetti altrui: lo stesso Mussolini scriveva a G. D’Annunzio, il 25 sett. 1919, favoleggiando di un colpo “repubblicano” che avrebbe dovuto “dichiarare decaduta la monarchia” sostituendola con un direttorio composto dal vate, dal G., da E. Caviglia e da L. Rizzo. Più in generale, comunque, il nome del G. era un punto di riferimento per i fascisti più oltranzisti, insieme con quelli del duca d’Aosta, di Caviglia e di P. Thaon di Revel.
    All’epoca della marcia su Roma il G. era comandante di armata di Firenze, nel cui territorio era compresa la capitale, ed è quindi probabile che il re lo abbia contattato (sia pur telefonicamente) per saggiare le reazioni dell’esercito. L’ascesa al governo di Mussolini gli fruttò subito un primo incarico pubblico, a riprova dei contatti precedenti: un’inchiesta sullo stato della guardia regia, che il capo del fascismo voleva abolire. Il che avvenne proprio sulla base dei risultati dell’inchiesta dal G. condotta in poche settimane. Fra tutti quelli assegnatigli dal nuovo governo il ruolo di maggior prestigio fu, comunque, quello di governatore della città di Fiume, ricoperto in un momento delicato, prima della definitiva annessione della città all’Italia (dal 17 sett. 1923 sino al maggio 1924), e che prevedeva il compito di “tutelare l’ordine pubblico” mentre si riavviavano le trattative diplomatiche con la Jugoslavia. Nel 1924 il G. fu nominato ministro di Stato.
    In seguito, però, intervennero rapporti meno idilliaci: nell’autunno-inverno 1924-25, quando il governo manifestò l’intenzione di mettere in pericolo la tradizionale autonomia dell’esercito, si verificò una crisi di notevoli proporzioni nei rapporti fra fascismo e forze armate, segnatamente in seguito al tentativo di far approvare il progetto di ordinamento militare (che dal proponente ministro A. Di Giorgio prendeva nome) e il disegno istitutivo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN). In questa circostanza il G. assunse un ruolo di assoluto rilievo e le argomentazioni da lui svolte in Senato e nel Consiglio d’Esercito contribuirono senz’altro a far ritirare il primo progetto e a ridimensionare il secondo.
    Durissimi furono i discorsi del G. contro Di Giorgio, prima in Consiglio d’Esercito (settembre-novembre 1924) poi in Senato (31 gennaio, 30 marzo e 2 apr. 1925), e contro il disegno sulla MVSN (4 dic. 1924), al punto da costringere Mussolini (discorsi del 5 e del 9 dic. 1924) a repliche dure rivolte personalmente al G.; in realtà questi, che pure così veementemente lo aveva contestato, non pare abbia mai seriamente osteggiato il governo fascista. Ritirato l’ordinamento Di Giorgio e ridimensionate le pretese sulla MVSN, gli stessi documenti parlamentari testimoniano che il G. si avvicinò a Mussolini affermando “Eccellenza, Lei ha salvato l’esercito!” (2 apr. 1925).
    Da allora, a livello politico e personale, Mussolini e il regime furono prodighi di onori al G.: gli affidarono incarichi formali di prestigio (in Senato relazionò sulla legge di ordinamento militare che seppellì l’ipotesi Di Giorgio, 1° marzo 1926) e fu nominato, come Cadorna e Diaz, maresciallo d’Italia (17 giugno 1926), grado che sostituiva il precedente di generale d’esercito. Ma di fatto non fu più preso seriamente in considerazione per cariche di reale peso politico. Consapevole di aver perso un suo ruolo e di aver favorito la nascita e l’assestamento di un regime che lo metteva ora da parte pur coprendolo di allori, il G., nel 1927, si ritirò a Torino.
    Nel dicembre 1929 riceveva il prestigioso collare dell’Ordine dell’Annunziata e, a parte qualche mugugno (se c’è da credere al Diario di Caviglia almeno in qualche occasione avrebbe criticato Mussolini), si adattò col tempo al ridimensionamento del suo effettivo ruolo pubblico. Peraltro, da qualche tempo la sua figura era andata appannandosi anche all’interno del mondo militare: il comandante del Grappa (al pari di molti altri suoi coetanei e colleghi) non teneva il passo con le innovazioni militari, rimanendo fermo alla difesa della dottrina militare della Grande Guerra, come sostenne anche in Rievocazioni e riflessioni di guerra (I-III, Milano-Verona 1929-30).
    Su un punto, però, il G. poteva svolgere, e svolse, un ruolo che corrispondeva contemporaneamente alle sue propensioni populistico-autoritarie, al personale desiderio di autoglorificazione e alle necessità propagandistiche del regime: la creazione e il mantenimento del mito delle battaglie del Grappa (dove aveva pubblicamente espresso il desiderio di essere sepolto); quale ex comandate dell’armata del Grappa, egli svolse un ruolo decisivo anche nelle scelte relative alla costruzione del sacrario, consacrato il 22 sett. 1935 alla presenza del re, e nei periodici raduni di massa colà tenuti.
    Forte del seguito ottenuto da queste operazioni, fondamentali ai fini dell’organizzazione di un consenso al fascismo quale regime uscito dalla Grande Guerra, il G. difese accanitamente, in parte fondandosi su documenti e in parte anche travalicandoli, l’operato della sua 4ª armata contro chiunque volesse ridimensionarlo o annullarlo. Peraltro, di norma, a parole il G. non affrontava mai la questione in termini di difesa personalistica ma la presentava in forma populistica, affermando di voler reagire a tutte le “affermazioni lesive dei miei soldati del Grappa”.
    Il G. morì a Torino il 21 nov. 1935.(fonte)

    [13] Alberto Emanuele Lumbroso Nacque a Torino il 1o ott. 1872, in una famiglia israelita, unico figlio di Giacomo e di Maria Esmeralda Todros, di nazionalità francese.
    Il nonno paterno, Abramo, protomedico del bey di Tunisi, aveva ottenuto nel 1866 da Vittorio Emanuele II il titolo di barone per meriti scientifici e per speciali benemerenze. Il padre del L., Giacomo, era nato a Bardo, in Tunisia, nel 1844. Ellenista e papirologo di fama internazionale, dal 1874 socio della Deutsche Akademie der Wissenschaften, influenzò fortemente l’educazione e la formazione intellettuale del Lumbroso. Trasferitosi a Roma intorno al 1877, divenne accademico dei Lincei (1878) e pubblicò la sua opera principale, L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani (Roma 1882), ottenendo nello stesso 1882 la cattedra di storia antica all’Università di Palermo. Con il medesimo insegnamento, nel 1884, si trasferì a Pisa, quindi, nel 1887, nuovamente a Roma dove insegnò storia moderna alla “Sapienza” (vedi le Lezioni universitarie su Cola di Rienzo, ibid. 1891). Giacomo morì a Rapallo nel 1925.
    I trasferimenti del padre lasciarono notevoli tracce nella formazione del giovane L.; tra le sue prime esperienze romane si ricordano la frequentazione delle case di T. Mamiani e di Q. Sella, dove divenne amico di S. Giacomelli, nipote di questo; in Sicilia rimase affascinato da G. Pitrè e, nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari da lui diretto, pubblicò nel 1896 il suo primo articolo.
    Nel periodo pisano il L. continuò con successo gli studi e sviluppò una notevole passione per la cultura erudita, collezionando autografi, raccogliendo motti, proverbi e notizie folkloristiche, sempre in perfetta sintonia con il padre. Tornato a Roma si diplomò al liceo classico E.Q. Visconti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si appassionò al periodo napoleonico, laureandosi, intorno al 1894, con una tesi su Napoleone I e l’Inghilterra (poi rielaborata e pubblicata in volume: Napoleone I e l’Inghilterra. Saggio sulle origini del blocco continentale e sulle sue conseguenze economiche, Roma 1897). Gli studi napoleonici occuparono interamente il L. fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. La frequentazione di ambienti intellettuali ed eruditi italiani (soprattutto romani, torinesi e, più tardi, napoletani) e francesi, l’assoluta familiarità con la lingua della madre e lo sviluppo di un talento compilativo dimostrato fin dalla prima giovinezza portarono il L. alla realizzazione di un gran numero di pubblicazioni.
    Tra il 1894 e il 1895 uscirono i cinque volumi del Saggio di una bibliografia ragionata per servire alla storia dell’epoca napoleonica (Modena), circa mille pagine dedicate alle lettere “da A a Bernays” (l’opera resterà incompiuta) e tra il 1895 e il 1898 le sei serie della Miscellanea napoleonica (Roma-Modena), altra cospicua opera erudita di oltre millecinquecento pagine che raccoglieva memoriali, lettere, canzoni, accadimenti notevoli e minuti forniti da studiosi europei e introdotti dal L.; nella Bibliografia dell’età del Risorgimento V.E. Giuntella li definì “saggi bibliografici che, sebbene arretrati, possono ancora essere utilmente consultati” (I, Firenze 1971, p. 405).
    L’interesse per il periodo napoleonico portò il L. a Napoli, in cerca di notizie e documenti su Gioacchino Murat. Suo interlocutore privilegiato in quella città fu B. Croce: il L. frequentò la casa del filosofo negli ultimi anni del secolo e i rapporti epistolari tra i due si protrassero a lungo.
    I maggiori lavori napoletani del L. furono la Correspondance de Joachim Murat, chasseur à cheval, général, maréchal d’Empire, grand-duc de Clèves et de Berg (julliet 1791 – julliet 1808 [sic]), (prefaz. di H. Houssaves, Turin 1899 e L’agonia di un Regno: Gioacchino Murat al Pizzo (1815), I, L’addio a Napoli, prefaz. di G. Mazzatinti, Roma-Bologna 1904.
    Alla fine del secolo il L. fu organizzatore e presidente operativo del Comitato internazionale per il centenario della battaglia di Marengo (14 giugno 1800-1900): chiamò alla presidenza onoraria G. Larroumet, professore della Sorbona e accademico di Francia, ottenendo la partecipazione onoraria di noti intellettuali tra cui G. Carducci, B. Croce, G. Mazzatinti, C. Segre, A. Sorel, le cui lettere di adesione furono via via pubblicate nel Bulletin mensuel du Comité international; nel 1903, accompagnato da una lettera-prefazione di Larroumet, fu edito il primo tomo, poi rimasto senza seguito, dei Mélanges Marengo (s.l. [ma Frascati] né d.).
    Ancora una volta il L. usa uno stile cronachistico, cerca e pubblica ogni genere di fonte, prediligendo quelle dirette. A tale scopo rintraccia figli e nipoti dei personaggi che descrive; caso emblematico quello dei “Napoleonidi”: e infatti, grazie ai suoi lavori e alle sue frequentazioni parigine, divenne “Bibliothécaire honoraire de S.A.I. le prince Napoléon” [Vittorio Napoleone]; pubblicò poi Napoleone II, studi e ricerche. Ritratti, fac-simili di autografi e vari scritti editi ed inediti sul duca di Reichstadt (Roma 1902), Bibliografia ragionata per servire alla storia di Napoleone II, re di Roma, duca di Reichstadt (ibid. 1905) e – più tardi – redasse le voci su Napoleone I e i Napoleonidi per il Grande Dizionario enciclopedico UTET (1937, VII, pp. 1100-1150). A coronamento dei suoi interessi per i Bonaparte, nel 1901 il L. fondò e diresse la Revue napoléonienne, bimestrale (ma, dal 1908, mensile) che uscì fino al 1913, coinvolgendo nell’iniziativa un gran numero di studiosi italiani e francesi.
    L’interesse per la cultura d’Oltralpe lo portò a pubblicare anche lavori su Voltaire (Voltairiana inedita, Roma 1901), Stendhal (Stendhaliana: da Enrico Beyle a Gioacchino Rossini, Pinerolo 1902) e soprattutto Maupassant (Souvenirs sur Guy de Maupassant: sa dernière maladie, sa mort. Avec des lettres inédites communiquées par madame Laure de Maupassant et des notes recueillies parmi les amis et les médecins de l’écrivain, Genève-Rome 1905), scritto durante un lungo soggiorno parigino.
    Nel 1898 il L. era intanto diventato consigliere della Società bibliografica italiana e probabilmente nel contesto culturale della Società conobbe Carducci, cui dedicò, postuma, una Miscellanea carducciana (con prefaz. di B. Croce, Bologna 1911), raccolta di notizie critiche, biografiche e bibliografiche sul poeta.
    Nel 1897 aveva sposato Natalia Besso, dall’unione con la quale nacquero Maria Letizia (1898) e Ortensia (1901). Nel 1901 l’intera famiglia abbracciò la religione cattolica. Nel 1904 il L. donò la sua ricca biblioteca napoleonica (circa trentamila volumi e opuscoli) alla Biblioteca nazionale di Torino, da poco distrutta in un incendio. Nel 1907 assunse, con A.J. Rusconi, la direzione della Rivista di Roma e, a partire dal 1909, ne divenne direttore unico.
    La direzione della Rivista rappresentò una svolta nei suoi interessi e nei suoi studi, che da internazionali ed eruditi divennero più “patriottici”, legati a eventi del Risorgimento e della storia italiana (in particolare il L. sì appassionò alla riabilitazione dell’ammiraglio C. Pellion di Persano e, oltre agli articoli apparsi nella Rivista, sull’argomento pubblicò La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda: la verità sulla campagna navale del 1866 desunta da nuovi documenti e testimonianze, Roma 1910, seguita da ulteriori approfondimenti, tra cui Il carteggio di un vinto, ibid. 1917). Tra coloro chiamati dal L. a collaborare alla Rivista – che dal primo momento egli volle “crispina, salandrina e antigiolittiana” e, dopo la guerra, “antibonomiana e antinittiana” (Premessa, s. 3, XXXII [1928], 1) – D. Oliva, E. Corradini, L. Ferderzoni, A. Dudan.
    Dal 1909 G. D’Annunzio collaborò alla Rivista di Roma. Il contatto diretto portò in breve tempo il L., inizialmente piuttosto critico nei confronti del poeta (si veda del L. Plagi, imitazioni e traduzioni, in Id., Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo(, Frascati 1902, pubblicazione che Croce aveva particolarmente apprezzato), a divenirne ammiratore e paladino, fino a entrare in forte polemica sia con lo stesso Croce sia con G.A. Borgese; nel 1913, nel cinquantesimo anniversario di D’Annunzio, volle dedicargli l’intero n. 6 della Rivista; nello stesso anno il L. fu attivo nel Comitato pro Dalmazia italiana e, nel 1914, diede vita a un Comitato pro Polonia del quale offrì la presidenza onoraria al poeta.
    Approssimandosi la guerra, la Rivista di Roma svolse campagne in favore dell’intervento e, nel 1915, lo stesso L. partì volontario col grado di sottotenente. Promosso tenente, dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto presso l’ambasciata italiana ad Atene e, al termine del conflitto, fu insignito del cavalierato nell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per benemerenze acquisite in guerra.
    Nel 1924, ormai di fatto separato dalla moglie, il L. si trasferì a Genova dove riprese la pubblicazione della Rivista di Roma, sospesa nel biennio 1922-23, che diresse fino al 1932. A Genova ebbe due figli, Emanuele e Maria Tornaghi, nati nel 1918 e nel 1919 da Adriana Tornaghi, con la quale aveva a lungo convissuto.
    Dopo la morte del padre, il L. ne pubblicò la bibliografia (in Raccolta di scritti in onore di Giacomo Lumbroso, Milano 1925); fin dal 1923 aveva collaborato con Critica fascista, e nel 1929 inviò suoi libri a B. Mussolini e chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista. I lavori più consistenti del L. negli anni Venti e Trenta furono dedicati principalmente alla Grande Guerra e a personaggi della casa reale.
    Bibliografia ragionata della guerra delle nazioni: numeri 1-1000 (scritti anteriori al 1  marzo 1916), Roma 1920; Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, I-II, Milano 1926-28; Carteggi imperiali e reali: 1870-1918. Come sovrani e uomini di Stato stranieri passarono da un sincero pacifismo al convincimento della guerra inevitabile, ibid. 1931; Cinque capi nella tormenta e dopo: Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Giardino, Thaon di Revel visti da vicino, ibid. 1932; Da Adua alla Bainsizza a Vittorio Veneto: documenti inediti, polemiche, spunti critici, Genova 1932; Fame usurpate: il dramma del comando unico interalleato, Milano 1934.
    Fra gli ultimi volumi pubblicati dal L. si ricordano ancora: Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, con uno studio sulla campagna del 1848 e con un’appendice di documenti inediti o sconosciuti tradotti sugli autografi francesi del re da Carlo Promis (s.l. 1935) nonché, per i “Quaderni di cultura sabauda”, I duchi di Genova dal 1822 ad oggi (Ferdinando, Tommaso, Ferdinando-Umberto), ed Elena di Montenegro regina d’Italia (entrambi Firenze 1934).
    Grazie al suo prestigio personale e all’adesione al cattolicesimo risalente al 1901, i Lumbroso furono discriminati dall’applicazione delle leggi razziali del 1938, ma il L. non pubblicò più. Il L. morì a Santa Margherita Ligure l’8 maggio 1942.(fonte)