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Achille Bassignano, memoriale, 1931

    Achille Bassignano, memoriale, 1931
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    Onè di Fonte, 28 dicembre 1931 X.

                                    Caro Barone
                    Eccole lo studio che le ho promesso. Duolmi di aver, dovuto ritardarne
    così a lungo la trasmissione; ma le ragioni già espongo in principio del_
    lo studio stesso. Di più, pur troppo si devono aggiungere ragioni di salu_
    te mie, le quali non sempre mi consentono di dedicarmi al lavoro così come
    desidererei. L’età in cui i crucci, i dispiaceri, i fastidi passano senza
    nuocere, è ormai, per me, sorpassata; non è perciò da stupire se la fine di
    questo anno, che è stato per me particolarmente tormentoso, pesa alquanto
    anche sul mio stato fisico e non mi lascia tranquillo. Sola speranza è che
    i guai presenti non ai aggravino troppo nel 1932.
                    Ho avuto, a suo tempo i suoi articoli sull’Ambrosiano[1] riguardanti le
    responsabilità della guerra ed avevo anche iniziato una lettera nella
    quale le esponevo il mio modo di vedere sull’argomento. ma mi è stato im_
    possibile condurla a termine, perchè non ostante io debba considerarmi di_
    soccupato, affari e grane non ne mancano mai. Ma se avrò un po’ A tempo
    finirò lo studio e glie lo manderò. Solamente sarei a pregarla di farmi te_
    nere un alta copia dell’Ambrosiano coll’art. N. I, che ho commesso l’errore
    di dare a leggere a qualcuno che se ne è andato senza restituirmelo.
    So per esperienza che il domandarle di mandarmi qualche cosa è darle un cruccio
    senza pari…. ma alla peggio, Lei non ha che fare come altre volte ha
    fatto ; ; ; non mandarmi nulla.

                    Così attendo sempre gli articoli da lei scritti sui nostri generali,
    sugli articoli di Grazioli[2] etc. a riguardo della costituzione dell’esercito
    e dimaderei vedere anche le note del Gen. Giardino ai miei appunti…
    . . . . . ma non mi faccio soverchie illusioni di riceverli: solo conforto
    a sperare il “pulsate et aperietur vobis”.
                    Vedremo se questa volta avrò pulsato utilmente.
                    Ed intanto, i migliori auguri a Lei alla gentile baronessa ed ai bravi
    figlioli per il 1932 e per gli anni futuri. Suo  G. Bassignano[3]

                                                                        1

    Onè di Fonte, dicembre 1931=X.

                    Caro Barone[4],

                    Allorchè, alcuni giorni or sono, mi pervenne la Sua lettera con la
    questione riflettente la mancata controffensiva delle nostre truppe nel
    giugno 1918, mi accinsi subito a risponderle. Ma nel redigere la risposta,
    mi nacque il dubbio che li due asserzioni sulle quali il G.X.[5] basa essen_
    ziaImente la sua critica al nostro Com. Supremo[6], non corrispondessero
    pienamente alla realtà dei fatti o meglio, della situazione, quale era, o, Io per
    lo meno potava risultare al Comando S.
                    E, poiché, come Lei sa, io desidero sempre essere preciso nelle mie as_
    serzioni, così, ho dovuto procurarmi gli elementi per chiarire tale mio dub_
    bio; cosa non tanto facile, perché, come si sa la relazione ufficiale, è arri_
    vata, col recente ultimo volume, 3°, solamente alle operazioni invernali del
    1916. Fortunatamente su la Battaglia dei Piave, il Comando S. pubblicò una
    relazione che ho potuto consultare e ml ha fornito elementi per convincer_
    mi che le cose stavano appunto come io le supponevo.
                    Aggiungo che, come Ella sa, all’epoca di detta battaglia io ero in
    Russia, perciò nulla ho appreso de Visu o de audito; ma quello che seppi del_
    la battaglia appresi da quanto ebbi occasione di leggere di poi qua e là.
    Anche quando venne pubblicata la relazione cui sopra ho accennato, io non
    ero in Italia, e ne venni a conoscenza solamente più tardi.
                    Doveroso era, quindi per me, prima di interloquire, di rivedere almeno
    la relazione del Com. S., che si può considerare Ufficiale, anche se ciò mi
    doveva portare via del tempo costringermi a darle in ritardo la mia rispo_
    ta pienamente convinto che avendo da fare con uno Storico, e non con un
    dilettante, le cose precise siano le più gradite.

                    Premesso tutto ciò, ed afflnchè Lei possa rendersi ragione delle mie
    conclusioni, diamo un’occhiata alla situazione alla primavera del 1918.

                                                                        2

                    Il nostro Esercito è stato rimesso in piena efficenza, molti lavori so_
    no stati fatti, altri ai stanno facendo per rafforzare le nostre posizioni
    di prima linea, per creare seconde e terze linee difensive. Pur senza perde_
    re mai di vista la possibilità e l’opportunità di prendere la iniziativa
    delle operazioni per cacciare l’avversario fuori dall’Italia, nostro Com. S.S.
    in previsione di una immancabile offensiva avversaria, vuol mettersi in con_
    dizione di resistere vittoriosamente a qualsiasi attacco dell‘avversario, il qua_
    le può ormai gettarsi contro di noi con tutte le sue forze. 
                    Le nostre unità sono schierate dallo Stelvio alla foce del Piave, e men_
    tre nella pianura hanno ampia libertà di movimento e di azione per manovra_
    re di fronte all’avversario, in montagna e specialmente sull’altipiano di
    Asiago e sui massiccio dei Grappa, la nostra situazione si presenta alquan_
    to pericolosa, poichè noi colà ci troviamo nella situazione chiaramente in_
    dicata dal Maresciallo Conrad[7]==”un naufrago aggrappato con le mani ad una
    tavola di salvezza, al quale sarebbe bastato mozzare le dita con un colpo 
    d’ascia per farlo precipitare nei flutti. / Situazione, questa preoccupante
    giustamente il nostro Com. S. il quale aveva, in quel periodo, studiata e pre_
    parata un’offensiva rendente a conferire, nella eventualità di una situa_
    zione strategica favorevole, maggior profondità alla nostra occupazione.
                    Noto subito che questa eventuale, offensiva, che non sembra, dalla relazio
    ne che io esamino dovesse essere in “grande stile”, è quella cui si riferisce
    il G.X. nella sua critica. E mi permetto di richiamare subito la Sua attenzio_
    ne su la condizione essenziale posta per l’effettuazione di questa offensiva
    sull’altipiano di Asiago e sul Grappa, e cioè “una situazione strategica fa_
    vorevole”, ciò che in altre parole vuol dire che la situazione dell’avversa_
    rio il quelle regioni perlomeno, si fosse almeno un poco cambiata a nostro
    favore, tanto da poterci concedere senza rischi gravi di attaccarlo, sospingerlo sine novi(?),procurarci in
    un poco più di spazio e migliorare la nostra situazione. Ciò non esclude che
    se il nemico dinnanzi a questo nostro attacco si fosse comportato in modo
    da farci sperare un più grande successo a questo non avesse a provvedere il
    Com. S.; ma, in quel momento (e neanche durante e subito dopo la battaglia del
    Piave, dico io) la situazione materiale e morale dell’avversario, non era tale

                                                                        3

    da permetterei una tanta speranza. E lo vedremo.
    ===Dalla parte austriaca, come è noto, il desiderio e la necessità
    di riprendere la marcia in avanti arrestata sul Piave e sui monti da la inat _
    tesa ed insospettata nostra resistenza, si fanno sempre piu grandi. La Gema_
    nia spinge, l’onore della monarchia lo esige, tutto l’esercito austriaco,
    finalmente, può essere gettato contro l’Italia solamente, non bisogna dare tem_
    po all’avversario di maggiormente rafforzarsi, preparare uomini e mezzi in
    maggior quantità: nella seconda metà di febbraio, pertanto si riuniscono i capi
    presente il Ludendorf[8], a Bolzano e vi si decide la grande offensiva, su tut_
    to il fronte contro l’esercito italiano.
                    Conrad, che ha a lungo studiato l’offensiva austriaca dagli altipiani,
    e, per la esatta conoscenza che egli ha della nostra situazione da quella par_
    te, ritiene più facile e più redditizia l’impresa, per gli altipiani, muoverà dal nord con il suo
    gruppo di armate, per far cadere nei flutti il pericolante difensore; il
    Boerevic[9], che non ha una perfetta conoscenza delle possibilità nostre nella
    pianura, ma ritiene la resistenza sul Piave pia facilmente superabile che non
    sui monti dove terreno può offrire anche a pochi la possibilità di resistere e per lun_
    go tempo a molti, e giudica la vittoria definitiva potersi ottenere soltanto
    sfondando la linea del Piave e portandosi verso Verona ed oltre, attaccherà
    da est con il suo gruppo. Preventive minacce di invasione della Lombardia
    dalle valli del Trentino occidentale, avrebbero dovuto costringere a spostare
    da quella parte almeno qualcuna delle nostre unità dalla fronte del Piave.
                    Alla fine di marzo i Comandanti di gruppo d’armata, ricevono le direttive
    per la grande operazione; i preparativi vengono subito iniziati e condotti con
    la possihile celerità. Tali preparativi sono, passo passo, seguiti dal nostro
    Com. S. che prende a sua volta le disposizioni per far fronte alla nuova situa_
    zione, che gli deve apparire non eccessivamente grave, se esso stesso solleci_
    ta l’invio di un nostro Corpo d’armata sul fronte francese, dove si sta scate_
    nando l’offensiva tedesca che dovrebbe (essere per il Ludendorf decisiva.
                    A metà di aprile il Ludendorf, che non riporta sul fronte occidentale i
    successi sperati, sollecita gli Austriaci a muoversi: costoro intensificano i
    preparativi, cosicchè ai primi di giugno tutto è pronto, il 12 si iniziano le

                                                                        4

    mosse dimostrative verso la Valtellina e le Giudicarie[10], ed il giorno 15 si
    inizia l’offensiva sugli altopiani e sul Piave.
                    Il nostro Com. S. , che, come ho detto, è al corrente di tutto quanto fa e
    progetta il nemico, ha preparato il suo piano di difesa basato sui seguen_
    ti punti essenziali/:
                    “assicurare l’ inviolabilità della fronte montana;
                    “rafforzare lo shieramento di sicurezza lungo il Piave in maniera da po_
    “ter sicuramente contenere gli eventutali progressi dell’urto nemico entro
    “limiti di profondità tali da non influire sul settore montano;
                    “tenere a propria disposizione una forte riserva organica per il gover_
    “no della battaglia: in un primo tempo alimentando la resistenza, in un secon_
    “do tempo, agendo controffensivamente per ricacciare il nemico contro il fiu_
    “me e costringerlo al ripiegamento in condizioni tattiche e logistiche di e_
    “strema gravità.”
                    In conclusione, date le condizioni di forza reoiproche, e tenuto eviden_
    temente conto di tutti gli altri fattori che influiscono su la capacità e
    resistenza bellica di un esercito. il nostro Com. S., impronta la sua azione
    ad una stretta difensiva strategica, che non esclude, non solo, ma richiede, a
    momento opportuno, una energica controffensiva tattica.
                    E la relazione chiude il capitolo che tratta delle provvidenze difen_
    sive con queste parole:
                    “Così preparato, il nuovo esercito d’Italia ==forte di animo più anco_
    “ra che di mezzi ==attese di piè fermo l’urto delle armate austro=ungariche
    “sereno nella sua fede e incrollabile nella volontà dì impedire a qualunque
    “costo che il nemico violasse ancora una volta il suolo della Patria.”
                    Questo atteggiamento strategicamente eminentemente difensivo appare an’_
    che dalla decisione presa la sera del giorno 18,, “di iniziare il giorno 19
    l’azione controffensiva per ricacciare il nemico oltre il Piave.”
                    Le controffensive strategiche si pensarono più tardi, dopo che il nemico fu costretto a ripassare il Piave,
                    In conclusione il Com. S. nostro ritenne, in quelle contingenze e non ostan_
    te i successi riportati contro le truppe avversarie, di non passare a controffensi_
    va strategica, accontentandosi di aver non solo impedito al nemico di scendere

                                                                        5

    al piano e di raggiungere dal Piave gli obbiettivi propostisi, ma di avergli
    inflitte tali perdite da far considerare dagli Austriaci e dai loro alleati
    come “disastrosa”” l’offensiva iniziata con tanta sicurezza di succes_
    so. Disastrosa al punto, possiamo aggiungere ora, da determinare l’inizio dello
    sfacelo dell’esercito e dellImpero Austro=Ungarico.
                    Evidentemente se il nostro Com. S., neppure allorchè gli Austriaci si vide_
    ro costretti a ripassare il Piave In condizioni disastrose, e cioè dopo ben
    otto giorni di lotta accanita, non si determinò a prendere l’offensiva dal b
    basso Piave =e non sugli altipiani, che, secondo, me sarebbe stato grave errore
    tattico e strategico= ne ha avuto le sue molto buone ragioni le quali non so_
    no, evidentemente, soltanto quelle cui accenna la relazione, una dovevano essere ed era_
    no anche altre. Del resto vasta pensare a quale logorio erano state sottoposte
    TUTTE le nostre truppe, in quegli otto giorni di battaglia, si pub ben dire,
    continuata per esprimere almeno qualche dubbio su la buona riuscita di una
    controffensiva, che come tutte le controffensive specialmente su terreno di_
    fensivamente organizzato come era la sinistra del Piave in quel momento/,
    presentava delle incognite non indifferenti.

                    Ma il G. X. fa carico al COM. S. di non avere presa l’offensiva dal bas_
    so Piave dopo la sconfitta austriaca, ma di non avere preso l’offensiva dagli
    altipiani dopo la prima giornata di battaglia, perchè, secondo egli dice, lo
    sforzo austriaco era stato stroncato fin dal primo giorno (15 giugno) e poi_
    ché il Com S. aveva in precedenza preparato un offensiva di cui lo sforzo prin_
    cipale doveva essere compiuto dalla 6^ armata (altopiano di Asiago) contro
    Conrad ( e cioè verso nord)….”quel giorno, se il nostro Com.S. avesse avuto 
    alla propria testa un vero Capitano, si sarebbe iniziata una vasta operazione
    che avrebbe gettato a terra l’Impero Austro=Ungarico.”

                    Lasciamo da parte la questione del “vero Capitano”, e cominciamo a vedere
    se lo sforzo potevasi considerare stroncato fin dal primo giorno

                                                                        6

                    Occorre, peraltro, dare, prima, uno sguardo alle relazioni di forza fra i
    due contendenti, sia complessivamente, sia partitamente sui vari tratti del_
    la fronte.
                    Per brevità e, spero, per maggior facilità di confronto, raccolgo i dati
    di forza nel seguente specchio:

    Risultato
    Generale  
    ArmateDivisioni in misure di Armate (1)Divisioni in lineaDivisioni in lineaDivisioni in misure di ArmateArmateDivisioni in misure di gruppoGruppi
     Delle Giudicarie248  210A Armata
    (dallo Stelvio a l’Astico)
         Gruppo
    Conrad
     del Trentino (1°)18
    9 A armatadegli Altipiani (6°)3915  811A Armata
    (dall’Astico – Fener)
      4
    (10 divisioni)del Grappa (4°)17
    3 div. di cavall.del Montello (8°)13426A Armata
    (da Fener al ponte della Priula)
      1Gruppo
    Boerevic
     del Piave. (3°)161145A Armata
    (dal ponte della Priula al mare)
      1 
    Totali 10 div. f
    + 3 div. c.
     9373816 4 
    56 da f. – 3 di cav. montate. –  60   
             

    Artiglieria:
    Italiani 2866
    Austriaci=5005

    Velivoli:
    Italiani= 676
    Austriaci=580

                    Tenuto conto che secondo il piano Aust. l’attacco si deve sferrare da
    l’Astico al mare, e che la 10^ Armata Aus. deve compiere azioni dimostrative
    ad ovest dell’Astico,, viene a risultare che, all’inizio della battaglia,
    di contro alle 50 divisioni Aust. noi possiamo solamente opporre 44 divisioni
    comprendendo fra queste anche le 3 div. della riserva generale assegnate al
    le due armate più occidentali (Giudicarie e Trentino).

                                                                        7

    ==Esaminiamo ora la situazione alla sera del 15 giugno, primo della bat_
    taglia, sui diversi tratti della fronte, per vedere se effettivamente il Com.
    S. nostro poteva considerare aver quel giorno stesso stroncato lo sforzo
    austriaco.

    1. Dall’Astico al Brenta: su taluni punti della fronte la battaglia dura
      accanita sino alla 22. Dopo alterne vicende, gli Aust., che si erano spinti
      alquanto innanzi, sono respinti talchè rimangono solamente in possesso di Col
      del Rosso[11] e di Col d’Ecchele[12].
    2.  =Nella regione don Grappa: anche qui gli Austr. riescono in un pri_
      mo tempo a portarsi avanti in parecchi punti, e la situazione, se pur non periolosa
      attira l’attenzione del Com. S. che provvede a fare occupare da 2 div. della riserva gen;
      (XXII Corpo d’A.) il sistema difensivo del Mussolente
      (Bassano=Asolo). Alla sera, gli Aust. delle posizioni conquistate, mantengo_
      no soltanto il Col Moschin.
    3. c) =Montello: la 6^ armata Austr. attacca con forze molto preponde_
      ranti, passa il Piave di fronte al Montello e verso le ore lb le sue truppe
      avanzate hanno già occupato circa la metà orientale del Montello stesso, raggiungendo
      la linea Ca’ Serena= = Giavera. Un pronto contro attacco dei nostri riesce, a slog_
      giare i nemici da Giavera e ad arrestarne l’avanzata verso Est.
                     Data la situazione, quale si venne a delineare già verso mezzogiorno,
      il Com. S. provvade a far occupare da tre divisioni della riserva gen. il sis_
      tema difensivo Venegazzu==Trevlso…., a tergo dell’8^ armata.
    4. =Basso Piave: alle ore nove gli Aust. sono riusciti a passare il
      Piave in alcuni punti ed a costituire teste di ponte a Fagarè (rotabile
      Oderzo=Treviso(1) )ed a Musile (ferrovia Portogruaro=Mestre)dalle quali tenta_
      no invano di procedere verso ovest ,arrestati e contrattaccati dalle nostre
      truppe . Alla sera le due teste di ponte risultano rispettivamente profonde
      poco più di un chilometro , quella di Fagarè, e all’incirca quattro chil. l’al
      tra, ma solamente in corrispondenza di Musile.
                     In conclusione riproduco quanto scrive il Com. S. nostro; la situazio_
      ne la sera del giorno 15 si può così riassumere:

    (1) Divisione questa dell’attacco principale –

                                                                       8

    “Conservata quasi integralmente la fronte sull’altipiano di Asiago; arresta_
    “tal’avanzata dell’avversario nel settore del Grappa; tenacemente contrasta_
    “te le potenti spinte nemiche nel settore del Montello sul basso Piave a
    “Ponte di Piave ed a Musile.”
                    Per tutti coloro che hanno pratica di comunicati, leggendo questa con_
    clusione, appare chiaro come il Com. S; . It. non ritenesse affatto, la sera del
    15 giugno, che lo sforzo austriaco, fosse stato stroncato, non solo, ma non ac_
    cennando neppure lontanamente a pronostici per l’indomani, lasciava indovi_
    nare tutta la serietà della situazione e la sua incertezza.
                    Ed invero, pur convenendo che gli Austriaci non avevano raggiunti nessu_
    degli obbieetivi loro assegnati per il giorno 15„ tuttavia la battaglia sca_
    tenatasi contemporaneamente dall’Astico al mare, era stata ovunque impegnata
    con grande slancio, col massimo accanimento, e date le forze impiegate in quel
    giorno, era presumibile che sarebbe stata continuata l’indomani con maggiori
    forze e con non minore accanimento, Ben si sapeva che il nemico stava giocan_
    do quella, che i poteva anche chiamare l’ultima grande partita.
                    Il Com. S. , pertanto, giustamente, non ritenne affatto che lo sforzo nemi_
    co fosse stroncato, ma diede anche le necessarie disposizioni per fare
    fronte alle azioni dell’indomani; e, come, d’altronde, era prevedibile, già fin
    dal giorno 15 una buona metà della Riserva Generale dovette esser impiegata
    per tener testa all’avversario.
                    L’indomani, 16 giugno, come è noto la battaglia riprese su tutta la fronte,
    si combattè molto strenuamente da ambedue le parti.
                    Su gli altipiani ed in regione del Grappa, dopo alterne vicende, la situa_
    zione rimase pressappoco quella del giorno precedente. Gli Austr. non avan_
    zarono, e noi non riuscimmo a riprendere che qualcuno dei punti perduti il 15.
                    Sul Montello, non ostante ripetuti attacchi nostri, la situazione rimase
    immutata o quasi, con lieve vantaggio nostro.
                    Sul basso Piave, per quanto i nemici fossero stati ripetutamente e vigo_
    rosamente contrattaccati, essi, nella giornata del 16, ottennero sensibili ri
    sultati sia nei riguardi dello allargamento delle teste di ponte, sia per es_

                                                                        9

    sere riusciti a congiungere le due teste di ponte.
                    Riporto la conclusione dei Com. S. (relazione):”Così, dopo due giorni di
    “battaglia, la fronte montana si conservava incrollabile, ed appena inflessa
    “era la fronte ciel Piave, ove gli innegabili progressi del nemico, erano tut_
    “tavia contenuti in limiti di spazio e di tempo tali da escludere che potes_
    “se da essi derivare alcuna ripercussione strategica per i settori vicini;”
                    Senza scendere a particolari, è opportuno rilevare che dopo due giornate
    di combattimento in cui i nostri diedero prova di una resistenza a tutta pro_
    va e subirono, conseguentemente, un logorio non trascurabile, il Com. S. riten_
    ne necessario provvedere all’avvicendamento delle unità in linea;
                    E per quanto neppure alla sera del giorno 16, a mio parere, non si potesse
    ritenere stroncato da tutto il fronte lo sforzo austriaco ,=e tanto meno, per molte
    considerzioni lo poteva considerare tale i. Com. S. nostro, in quel momento= è
    innegabile però, che anche per il complesso dell’azione svolta sugli altipia_
    ni e sul Grappa dagli Aust. si poteva ritenere che, da quella parte, il nemico
    avesse rinunziato almeno per il momento, a proseguire
    nei suoi violenti attacchi per buttarci giù dalle montagne.
                    Ed il nostro Com. S. profittò subito di questa favorevole circostanza; ma
    non nel senso desiderato dal G.X., cioè non profittò di tale rallentamento
    dell’azione nemica per prendere l’offensiva sugli altipiani, offensiva che,
    secondo il G.X, avrebbe dati dei risultai straordinari.
                    Per opportuna memoria, ricordo: che solamente alla sera della sesta giornata
    della battaglia (20 giugno)[13] e dopo lotte che direi titaniche, il nostro Com.
    S. ebbe la sensazione che la situazionze generale si presentasse a noi netta_
    mente favorevole; che ciò non ostante, prima di lanciare le truppe ad un gene_
    rale contrattacco, il Com. S. ritenne necessario far concentrare sull’avversario,
    il quale, specialmente sul basso Piave, non desisteva dal combattere con indo_
    mita tenacia, il fuoco di tutte le nostre artiglierie spostandole anche da le
    armate del fronte montano dove non erano più indispensabili e l’avversario a_
    veva assunto un atteggiamento essenzialmente difensivo.
                    Ricordo ancora che le prime truppe aust. iniziarono la ritirata sulla si_

                                                                        10

                    nistra del Piave solamente la notte sul 23 e che le nostre truppe rioccu_
    parono la sponda sinistra del Piave il 24 , ricacciando al di la del fiume gli
    ultimi e pur sempre tenacissimi nuclei ai resistenza.
                    Ricordo ancora, per quanto riflette la zona montana, che non ostante ripe_
    tuti attacchi sferrati da nostri reparti negli ultimi giorni di giugno e nei
    primi di luglio, non tutte le posizioni occupate dagli austr. nei primi due g
    giorni della battaglia poterono allora essere da noi rioccupate.

                    Premesso tutto ciò io ritengo sia lecito porsi la domanda: “Quale proba_
    billtà di riuscita avrebbe potuto avere una nostra controffensiva, sia pure
    in grande stile, lanciata sugli e, verosimilmente dagli altopiani e dalla re
    gione del Grappa, la sera ciel primo (o, vogliamo anche, del secondo) giorno del_
    la battaglia?”
                    Domanda alla quale occorrerebbe aggiungerne parecchie altre, ad esempio
    questa:. “Con quante e quali truppe tale controffensiva si poteva prendere?”
                    Non posso credere che il G.X. ritenga che a ricacciare Conrad e le sue
    37 divisioni su per le valli del Trentino potessero bastare le riserve (che tutto sommato po_
    tevano ammontare ad una divisione che uno dei comandanti di corpo d’armata della
    4^ armata (Giardino[14]) aveva ritenuto di mettere a disposizione dell’armata stes_
    sa, o quelle, necessariamente anche poche, riserve che qualche unità della
    6^ armata, poteva ritenere di non dover più trattenere per sé.
                    Chiari sono i rapporti ai forza fra i due avversari sugli altopiani, o me_
    glio nella zona montana dove si avrebbe dovuto svolgere l’eventuale offen_
    siva. Le nostre due armate disponevano complessivamente di 16 div.; aggiungia_
    mo loro le 4 div. presso le armate, ma a disposizione del C.S., si arriva a
    20. Ora la sola 11^ armata Aust. disponeva di divisioni; ma è evidente,
    che per far fronte all’offensiva nostra il Conrad oltre a valersi delle 4
    div. di riserva di gruppo (il che porta le div. immediatamente pronte a 27,)
    avrebbe tratto dalla 5^ armata altre 6 e fors’anche 8 div. cosicché noi
    dovevemo contare di dover attaccare, sia pure successivamente, una

                                                                        11

    massa di, almeno 35 divisioni.
                    Ne consegue, che volendo condurre una offensiva a fondo, per ottenere ap_
    punto tutti quei clamorosi risultati prospettati dal G.X.,in un terreno di
    montagna quale quello che noi si presentava, sarebbe stato necessario po_
    ter disporre di una settantina di divisioni almeno. Chè in realtà non si può
    dire che ai 15 o ai 16 di giugno, noi ci saremmo trovato di fronte truppe
    cosi demoralizzate da cedere senz’altro il campo al primo nostro apparire,
    sia pure con decisissimo atteggiamento offansivo. Quanto avvenne in quegli
    stessi giorni e nei successivi ed anche dopo che il Gruppo Boerevic aveva su_
    bito sul Piave una disastrosa sconfitta, mi pare più che sufficiente a pro_
    vare che i soldati del Conrad come erano stati ben decisi nell’attaccare =
    tanto che il nostro C. S. si era trovato fin dal mezzogiorno del 15 nella ne_
    cessità prudenziale di far occupare la linea del Mussolente a tergo della
    4^ armata ==altrettanto decisi si sapevano dimostrare nella difesa, che sem_
    pre mantennero tenacissima.
                    Ma noi di divisioni ne avevamo in tutto solamente 56 e cioè anche se aves_
    simo potuto sguernire di truppe, di tutte le truppe, la linea del Piave, noi non
    saremmo arrivati a pronunciare la nostra grande offensiva che con forze
    una volta e mezzo di quelle avversarie. Il che non ostante il più irruente spi_
    rito offensivo delle truppe, non assicura, specialmente in terreno di montgna,
    il successo; e la prova di questo mio asserto ce la diedero gli Austr. stessi
    in questa stessa battaglia, chè le 25 divisioni (se pur non ne vogliamo con_
    tare 27) che il Conrad aveva a sua immediata disposizione per lo sfondamento
    nella zona montana, e cioè contro la 6^ e la 4^ armata nostra non furono
    sufficienti a vincere le 16 dlvisioni contro cui il Conrad ebbe a cozzare il
    15 e 16 giugno.
                    In conclusione, pertanto, se anche avessimo voluto solamente provvedere ad
    una energica offensiva per gli altipiani ed il Grappa, trascurando completamen_
    te il Piave come se là vi fosse stato il mare sicuramente da noi tenuto, noi, in quel
    turno di tempo, non avremmo avuto forze sufficienti per assicurarci da quella parte il successo

                                                                        12

                    Tutti sanno che in guerra è cosa assai difficile essere sicuri del suc_
    cesso, direi, anzi, che, in condizioni normai, è impossibile, chè il successo è
    dovuto molte volte a fatti, a condizioni imprevedibili ed imponderabili; ma
    è pur certo che quando si trovano di fronte due avversari i quali pressapoco
    dispongono di mezzi materiali e morali equivalenti, l’elemento
    che può dare maggiore probabilità di vittoria certa il numero dei combattenti;
    numero, che a noi faceva difetto in modo assoluto ed in modo relativo, per una
    azione offensiva nel campo strategico, nella regione montana specialmente.
                    Ma, come tutti sanno, noi non potevamo nè la sera del 15 nè nei giorni suc_
    cessivi, fare astrazione dalla fronte del Piave.
                    Su la fronte del Piave, invero si stava giocando la partita che si annun_
    ciò, fin dal primo giorno della battaglia, come la più grossa; su questa fron_
    te non potevano ritenersi sufficenti a resistere all’impetuo_
    so, irruente attacco Austr., pertinacissimo, le sole forze già a disposizione
    delle due armate. Là dovevano tenersi pronte ad accorrere, ed accorsero, le
    divisioni della riserva generale, sia per arginare sia per ricacciare l’av_
    versario. Eppertanto non avremmo potuto, logicamente, distorre dalla fronte
    del Piave neppure le unità della riserva generale, qualora, dato e non conces_
    so, il Com. S. avesse ritenuto più conveniente, anziché limitarsi a resisteere,
    e dare al nemico una battaglia difensiva che poteva tradursi in una sconfit_
    ta grave, morale e materiale per l’attaccante, spingere le truppe della monta_
    gna all’offensiva sostenuta da tuute le divisioni della riserva generale, nel_
    la speranza di maggiore successo.
                    Speranza, che, d’altronde, non aveva alcuna probabilità di tradursi in realtà.
    neppure per le condizioni dell’avversario, perché se pure il Conrad non aveva ritenu_
    to ripetere gli attacchi, che tanto gli era no costati il 15 e 16 giugno, non
    poteva dirsi che soltanto le condizioni delle truppe era dovuta la sosta nelle
    operazioni da quella parte. il Com. S. nostro non poteva ancora avere tutti gli
    elementi per giudicare con piena sicurezza della situazione: ad ogni modo esso
    non poteva illudersi al punto, da credere che le truppe del Conrad fossero già cosi scosse

                                                                        13

    da non essere più in condizioni di opporre, sulle loro bei munite posizioni,
    una considerevole resistenza ai nostri attacchi: resistenza, che ai avrebbe co_
    stretti ad un sempre maggiore impiego di truppe, togliendole naturalmentte
    dal Piave, od al Piave, che avrebbe fatto passare i giorni, indebolire sempre
    più la nostra resistenza sul Piave, ed avrebbe portato fatalmente alla conse_
    guenza logica, che mentre noi ci affannavamo a cercare un successo sui monti,
    e cioè nella regione meno adatta tatticamente all’impiego utile (per l’offen_
    siva) delle limitate nostre possibilità, e per giunta nella direzione, special_
    mente in quel momento, meno vantaggiosa strategicamente il nemico avrebbe
    vinto le nostre resistenze sul Piave ed avrebbe raggiunto gli obbiettivi pro_
    postisi alle spalle dello truppe combattenti sulla montagna.
    Di guisa che la gravità della nostra situazione, e cioè della nostra scon_
    fitta, veniva precisamente ad aumetare, quanto più l’avversario fosse riusci_
    to, cedendo gradualmente il terreno, a farci avanzare verso nord, nella regione
    montana?

                    Riassumendo, pertanto, si può secondo me concludere/:

    1. == Lo sforzo austriaco non si poteva considerare stroncato, su tutta la
      fronte né il giorno 15 né il successivo; fino al giorno 20 sera, il nostro
      Com. S. non ebbe sicura sensazione che gli Austriaci non avrebbero potuto
      sfondare le nostre linee.
    2. == Che il fatto che nella regione montana, dopo il giorno 16, il nemico assun_
      se atteggiamento nettamente difensivo, non poteva essere esclusivamente
      interpretato come un suo indebolimento(1) così considerevole da assicurarci
      di poter in breve tempo e con le sole forze delle armate impegnate o con
      quelle della riserva generale, ad essere aggiunte, ottenere un risultato tale
      da mettere l’esercito e l’Impero austr. fuori causa (come intende il G.X.); ma
      neppure tale da garantirci la ritirata delle truppe austr. da tutto il
      fronte e la conseguente sconfitta almeno momentanea dell’avversario.
      (1)A questo proposito non bisogna dimenticare che le operazioni nella regione
      montana vennero sospese d’ordine dell’Imp. non perché tutte le truppe del Conrad o buona parte di esse non erano più in condizioni di combattere, e cioè decidendo di difendersi, ma perché l’attacco che non era riuscito il g. 15 non presentava nessuna possibilità di riuscita nei giorni successivi, cosicché al C. S. austriaco parve migliore partito sospendere colà operazioni affinché può dedicare gli sforzi con tutte le truppe disponibili agli attacchi nel Piave dove si un armata qualche buon successo.


                                                                          14

    3. === Data la reciproca condizione di forze, ed a prescindere da ogni altra
      considerazione, un’azione offensiva sugli altipiani e nella regione del
      Grappa, non avrebbe potuto essere condotta con le sole truppe di prima
      linea colà schierate anche perché essse erano già state duramente pro_
      vate negli attacchi dei due giorni precedenti (ammesso che si fosse iniziata la
      controffensiva il terzo giorno della battaglia). Occorreva, quindi, rin_
      forzare tali truppe con unità tolte dalla riserva generale, il che por_
      tava a sguernire le difese del Montello e del Piave e cioè di quel trat_
      to della fronte dove il nemico aveva riportato dei non disprezzabili
      successi e dove, con tutta probabilità avrebbe continuato ad insistere
      per allargare i successi stessi; successi tanto più cercati, e per l’av_
      versario necessari in quanto era mancato il successo tanto sperato e
      redditizio nella regione montana.
                     Ed era evidente, che il Com. S. non avrebbe potuto dispore di forze
      per l’offensiva sugli altopiani, se non quando il pericolo di una inva_
      sione nemica dalla parte del Montello e del Piave fosse stata completa_
      mente eliminato!..;;; E allora?
    4. === Stroncato lo sforzo austriaco, e cioè obbligato il nemico, che si era
      avanzato, a retrocedere con perdite, sarebbe stata la regione montana
      quella più adatta per una controffensiva?
                     Io ritengo di no; tatticamente perché ci portava a combattere, o me_
      glio, ad attaccare, in un terreno dove i pochi possono tenere lungamente
      testa ai molti, epperciò per ottenere il successo, occorre impiegare, a pa_
      rità di forze avversarie un maggior numero di truppe nostre: perché in
      montagna i successi sono essenzialmente parziali e non si posoono sfruttare che
      con ritardo e con grande difficoltà;
                     Strategicamente, perché l’offensiva veniva condotta in una direione
      meno pericolosa per l’avversario e meno redditizia per noi, allontanan_
      doci sempre più dai nostri rifornimenti e costringendoci ad esporre,
      con scarsa probabilità di tempestivo intervento, le nostre linee di co_
      municazioni, le regioni più ricche e più importanti della pianura veneta

                                                                          15

      Qualora le condizioni nostre e dell’avversario ci avessero concesso, dopo
      la ritirata del nemico sulla sinistra del Piave, di sferrare una energica con_
      troffensiva strategica, io credo che nessuno avrebbe pensato di condurla,
      essenzialmente, per la regione montana. Io sono del parere che, allora,
      la direzione più adatta sarebbe stata quella dal Montello, come fu fatto po_
      chi mesi più tardi, quando cioè, la situazione generale strategica ci consentì
      di prendere l’offensiva.

                    Pur rispettando tutte le opinioni altrui, io resto dell’avviso, che, se il
    nostro Comandante in capo, la sera del giorno 15 giugno (od anche quella del
    giorno successivo) nella fiducia di aver stroncato lo sforzo austriaco, avesse
    dato le necessarie disposizioni, per sferrare la controffensiva in grande sti_
    le (di cui parla il foglio inviatomi) nella regione montana, avrebbe commesso
    un errore imperdonabile, che avrebbe avuto per immediato risultato l’avanzata
    degli Austriaci verso l’Adige e la sconfitta piena del nostro esercito.
                    Perché evidentemente, la nostra offensiva verso il Nord, non avrebbe per
    nulla impressionato né il Conrad, né il Boerevic, il quale anzi avrebbe avuto dacili_
    tato in modo inatteso e insperato il proprio compito, al quale invece, come
    tutti sanno, non potè soddisfare perché noi abbiamo potuto opporgli sul Piave la massi_
    ma parte delle nostre forze.

    ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

                    Caro Barone, la mia discorsa è venuta un po’ lunghetta, forse troppo lunga,
    ma io sono partito dall’idea che Ella debba controbattere un’asserzione comparsa
    in qualche luogo, e non volevo le mancasse nessun elemento per giudicare Ella
    stessa del valore dell’asserzione anzidetta.
                    Chi potrebbe dare una risposta di gran lunga migliore e più completa
    e più competente della mia sarebbe S. E. il Maresciallo Badoglio[15], parte in causa,
    Ma, poiché io mi sono basato sulla relazione del Com. S. alla quale certamente
    deve aver cooperato anche Lui, ritengo che le conclusioni non potrebbero essere
    diverse dalle mie. Che se poi le cose si sono svolte in modo diverso e cognito
    solamnte al G.X. od a pochi iniziati, allora bisognerà cambiare le conclusioni:


                                                                        16

    se pure non si dovrà anche meglio ribadirle.
                    Condivido perfettamente il parere del G.X. che “per tentare ( io direi meglio
    per compiere) cose grandi bisogna saper giocare la propria carta buona”,….. e
    che “non sa l’arte della guerra chi si lascia sfuggire le buone occasioni “
                    La difficoltà sta appunto nel saper determinare quale è la carta buona, qua_
    li sono le buone occasioni, perché un errore di apprezzamento può portare anzi certa_
    mente porta, alla sconfitta anziché alla sperata vittoria, come sarebbe avve_
    nuto nel caso considerato.

    Gen. A. Bassignano


    Note

    Una premessa in merito alla scelta di riportare le caratteristiche del memoriale:

    Quello che nello scritto viene nominato G.X. è il Generale Edoardo Monti. I memoriali dei vari Generali redatti su sollecitazione del Barone Lumbroso in merito alla questione sollevata dal Generale Monti, relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad, non rivelano mai il nome del Generale al quale rispondono. Il nome appare nel biglietto privato che il Generale Vannutelli acclude al suo memoriale.

    Sono stati mantenuti i refusi non corretti nell’originale (A) o anche cognomi imprecisi come Boerevic ( Boroević o Borojević ), mentre sono state corrette le parole che Achille Bassignano ha provveduto a segnalare e a correggere (B). Le spaziature, varie di posizione, sono state uniformate per convenzione (C) così come gli elenchi puntati. Gli accenti sono stati lasciati come nel manoscritto.

    Lo specchio realizzato dal Bassignano e riportato in forma di testo è disponibile in formato pdf al seguente link:

    Rimane il mistero del riferimento ad un non meglio precisato Generale X con il quale si confronta attraverso il suo memoriale.

    [1] L’Ambrosiano fu un quotidiano pubblicato a Milano, dal 1922 al gennaio 1944. Fondato dal futurista Umberto Notari, fu rivolto alla media borghesia milanese. Il primo numero del quotidiano uscì il 7 dicembre del 1922. Il giornale si notava poiché la testata era stampata in rosso. Nel 1925 Notari fu costretto a vendere la maggioranza delle azioni a un gruppo finanziario guidato da Riccardo Gualino. Da quel momento L’Ambrosiano divenne un quotidiano di regime.
    Giornale del pomeriggio, adottò una veste grafica fortemente innovativa per l’epoca. Il giornale introdusse diverse innovazioni, sia nei contenuti sia nell’impaginazione. In terza pagina, spazio solitamente serioso riservato agli elzeviri ed ai pezzi d’arte, sull’Ambrosiano apparvero pagine monotematiche, dedicate di volta in volta a letteratura, musica, arte e sport. La quarta pagina, all’epoca non valorizzata (vi apparivano notizie brevi e comunicati commerciali), fu realizzata interamente con fotografie, su avvenimenti e costume.
    Nel 1930 la proprietà fu rilevata dalla Società Anonima Milanese Editrice (SAME), presieduta da Arnaldo Mussolini. All’inizio del nuovo decennio L’Ambrosiano introdusse una pagina letteraria ogni mercoledì, inaugurando una tradizione che fu ripresa poi da molti altri giornali. Quotidiano sempre aperto all’innovazione, nel 1938 fu sperimentato anche il cambiamento del formato, adottando un tabloid, con il raddoppiamento della foliazione a 12 pagine.
    Titolari della critica letteraria furono Gino Saviotti, Luciano Nicastro ed il giovane Guido Piovene, all’inizio di una lunga carriera giornalistica. La critica d’arte fu affidata a Carlo Carrà; il critico musicale fu Adriano Lualdi. Sulle pagine dell’Ambrosiano scrissero autori che poi divennero celebri:

    • Carlo Emilio Gadda, che si occupò di edilizia e di vita milanese. Sul quotidiano pubblicò le prose che poi raccolse nel Castello di Udine (1934);
    • Alfonso Gatto, che scrisse di poesia;
    • Elio Vittorini, che spaziò dalla letteratura all’architettura;
    • Gaetano Afeltra, Riccardo Bacchelli, Camilla Cederna, Ada Negri, Delio Tessa e Salvatore Quasimodo.

    Il giornale fu soppresso il 18 gennaio del 1944 e venne sostituito il 23 gennaio da «La Repubblica Fascista»(fonte)

    [2] Francesco Saverio Grazioli. Nacque a Roma il 18 dic. 1869 da Giovanni, appartenente a una famiglia di mercanti di campagna dell’Agro romano, e da Teresa Busiri Vici, figlia di Andrea, primo architetto della Fabbrica di S. Pietro.
    Secondo di quattro figli, il G. dal 1° nov. 1883 studiò al collegio militare di Roma. Il 1° ott. 1886 entrò all’Accademia militare, da cui uscì con il grado di sottotenente il 7 marzo 1889, e poi alla Scuola di applicazione di artiglieria e genio. Nominato tenente il 30 ag. 1890, fra il 19 ott. 1896 e il 22 ag. 1898 fu in Colonia Eritrea. Fra il 1895 e il 1899 seguì i corsi della Scuola superiore di guerra di Torino dove ottenne il brevetto il 12 dic. 1899. Il 10 luglio 1900 fu nominato, a scelta, capitano; il 20 ott. 1900 sposò Anna Agnese Bianco. Il 13 luglio 1903 lasciò l’artiglieria per il corpo di stato maggiore.
    Distintosi nell’azione di soccorso dopo il terremoto di Messina del 1908 (medaglia d’argento al valor civile, r.d. 27 marzo 1911), il G. si mise in evidenza soprattutto per l’interesse agli studi, le capacità di scrittura e per i giudizi, “moderni” e spigliati: tra l’altro riteneva che l’istituzione militare doveva modificarsi, in sintonia con le istituzioni politiche e sociali del tempo.
    Questi aspetti del carattere dovettero piacere al capo di stato maggiore dell’esercito, A. Pollio che, nel 1908, lo volle con sé. Il 31 marzo 1910 fu promosso maggiore per meriti eccezionali.
    Dopo una prima missione “coperta” a Malta, fra il settembre e l’ottobre, dal novembre 1911 al 6 ott. 1912 fu in Libia, dove venne decorato con medaglia d’argento per i combattimenti di Bir Tobras. Dal 28 apr. 1912 fu capo di stato maggiore della 5a divisione speciale e il 23 ag. 1912 fu promosso tenente colonnello per merito di guerra per la conquista di Sidi Said. Tornato in patria fu addetto agli uffici ministeriali militari responsabili per le colonie; dal 30 maggio 1913 al 19 marzo 1915 fu di nuovo in Libia, con l’importante incarico di capo dell’ufficio politico-militare di Tripoli. La fine dell’incarico coloniale coincise con lo scoppio della guerra mondiale.
    Fu prima capo di stato maggiore al V corpo d’armata della 1ª armata, quindi al XIII corpo d’armata, passato poi alla 3ª armata. Il 6 luglio fu promosso colonnello e, nemmeno un anno più tardi, colonnello brigadiere, cioè comandante di brigata (la “Lambro”); il 10 ag. 1916, ancora per meriti di guerra legati al comando della “Lambro”, fu nominato maggior generale. Comandò poi la 48ª divisione e, per un breve periodo, dal 21 sett. 1917, addirittura l’VIII corpo d’armata, uno dei corpi travolti nel corso dell’operazione austro-tedesca che portò allo sfondamento a Caporetto.
    Dopo la rotta il G. venne spedito come capo di stato maggiore prima alla 4ª armata, sul Grappa, poi alla 5ª, di formazione e di riserva (dal maggio 9ª). Qui poté dedicarsi anche agli studi: teorizzò, fra l’altro, un piano per una “armata di riserva mobile strategica” e le modalità per una migliore cooperazione fra fanteria e aeronautica.
    Tenente generale il 20 giugno 1918, già dall’8 dello stesso mese era stato nominato comandante del corpo d’armata d’assalto, cioè degli arditi. In tale veste il G. giocò un ruolo di rilievo nella battaglia di Vittorio Veneto. Nei giorni dell’attacco finale, anzi, da E. Caviglia (8ª armata) gli fu affidato il comando anche dell’VIII corpo d’armata (28 ott. 1918), con l’incarico di imprimergli maggior impulso offensivo.
    Alla fine della guerra il G. era dunque arrivato quasi al culmine della carriera, conosciuto per gli scritti oltre che per l’indipendenza di giudizio: appoggiandosi alle sue amicizie, fra cui era il duca d’Aosta Emanuele Filiberto, poté rimanere critico nei confronti sia del vecchio sia del nuovo comando supremo, e in particolare di P. Badoglio. Dopo lo scioglimento del corpo d’assalto, ricevette un incarico politico-militare di rilievo nazionale: dal 28 nov. 1918 all’agosto 1919, fu comandante del corpo interalleato di occupazione di Fiume.
    Il comandante militare italiano veniva, di fatto, a trovarsi in una situazione complessa, stretto fra le richieste dei circoli nazionalistici italiani di Fiume, l’ostilità antitaliana della popolazione locale non italofona, le pressioni dei comandanti dei reparti militari delle altre nazioni e, soprattutto, i sospetti delle potenze. Il G., pur consapevole delle intemperanze dei circoli italiani, ne sostenne in ultima analisi la politica e se ebbe, su questa linea, il costante sostegno del duca d’Aosta, comandante della 3ª armata, solo alla fine ottenne l’appoggio del comando supremo, cioè di A. Diaz e Badoglio.
    L’evoluzione della congiuntura internazionale e diplomatica e gli errori politici commessi dal G. – oltre al sostegno all’irredentismo locale, vi fu anche l’atteggiamento altero da lui tenuto nei confronti della commissione interalleata, giunta sul posto nel luglio 1919 – resero impossibile la sua permanenza. Venne sostituito e, il 1° sett. 1919, dovette lasciare Fiume.
    L’incarico aveva comunque aumentato la notorietà del G., al punto che si fece il suo nome, insieme con quello del duca d’Aosta, quando, nel clima arroventato di quel particolare momento, si parlò di complotti e colpi di Stato. Del resto il G. non aveva mai nascosto le sue simpatie per una politica di indirizzo nazionalista e militarista.
    Dopo un periodo a disposizione, al G. fu assegnato l’incarico di direttore superiore delle scuole militari: pur trattandosi di una destinazione che lusingava il militare studioso e innovatore, il ruolo era tutt’altro che di primo piano. Piuttosto, il grado, l’età e la notorietà gli aprirono le porte del Consiglio d’esercito: composto di una decina di alti generali, era il corpo consultivo del ministro e un contrappeso al potere dello stato maggiore e di Badoglio. Gli vennero, inoltre, affidate l’organizzazione e la guida del corteo che, il 4 nov. 1921, condusse la salma del milite ignoto a Roma, al Vittoriano.
    Onori e incarichi avevano forse illuso il G. circa la possibilità di entrare attivamente nel gioco politico, in anni in cui si poneva il problema di un nuovo ordinamento per l’esercito. A questo proposito, nell’ottobre 1919, egli aveva inviato a F.S. Nitti un promemoria in cui proponeva un esercito piccolo e ben armato, guidato da una dottrina strategica offensiva e ispirato a una tattica che consentisse rapidità e facilità di manovra. Qualche tempo dopo (agosto 1922) lo ripropose a B. Mussolini cui volle pure comunicare (23 ottobre) che, in caso di un colpo di mano da parte del fascismo, l’esercito sarebbe rimasto passivo. Anche per questo Mussolini lo fece invitare (26 ottobre) perché affiancasse De Bono nella preparazione della marcia su Roma, ma il G. rifiutò.
    Nel dicembre 1922 fece avere a Mussolini, ora capo del governo, un nuovo promemoria proponendosi come ministro e come fondatore di un “nuovo esercito”; contemporaneamente, all’interno della gerarchia militare continuò a perorare la costituzione di “grandi unità celeri miste”, interforze, motorizzate e meccanizzate.
    Come generale di corpo d’armata destinato, dall’8 marzo 1923, al comando del IV corpo d’armata con sede a Verona, il G. si trovò a essere per il fascismo una utile sponda nelle alte gerarchie dell’esercito. Avendo deciso di creare l’ufficio di capo di stato maggiore generale guidato da Badoglio, Mussolini, nonostante il parere contrario di quest’ultimo, il 4 maggio 1925 nominò il G. sottocapo, ruolo che egli ricoprì sino al 1° febbr. 1927. Subito dopo (26 febbr. 1927) venne designato generale di armata (in caso di guerra) e inviato a Bologna, dove rimase sino all’ottobre 1934, ancora una volta lontano da Roma e quindi dai centri del potere politico. Il 22 dic. 1928 era stato nominato senatore.
    L’ambizioso G. avrebbe voluto salire più in alto (nel maggio 1931 aveva scritto ancora al duce, di nuovo autoproponendosi come ministro della Guerra), ma Mussolini, che nel 1925 lo aveva messo alle costole di Badoglio più per controllare l’uno che per promuovere l’altro, vedeva, ragionevolmente, nel G. una personalità isolata, con scarso seguito, cui non intendeva, né aveva interesse a farlo, affidare la politica militare nazionale.
    Nel frattempo il G. non aveva abbandonato il suo atteggiamento critico circa la gestione delle forze armate.
    Già nel novembre 1930 Mussolini aveva bloccato l’uscita di un suo articolo critico dell’operato del gen. G. Giardino e della gerarchia militare nel corso della Grande Guerra. Nel luglio 1931, viceversa, il G. riuscì a pubblicare sulla Nuova Antologia un’aperta denuncia circa l’insufficiente ammodernamento degli armamenti e delle tattiche dell’esercito che fece inalberare Badoglio; ancora una volta, solo il duce poté tamponare lo scandalo.
    Dal 1° ott. 1934 il G. fu ispettore della preparazione pre e postmilitare (in pratica responsabile della ginnastica militare ovvero della militarizzazione della popolazione, cui il regime teneva molto). Il 18 dic. 1935 il G. passò in posizione ausiliaria per raggiunti limiti d’età: in effetti venne “trattenuto in servizio” ma senza incarichi connessi alla guerra d’Etiopia, mentre veniva invece richiamato Badoglio. Fu nominato, in extremis, generale d’armata (21 ott. 1937) e continuò a svolgere numerose missioni, ma di scarso rilievo; venne quindi congedato (1° sett. 1938) e poi messo nella riserva (1° genn. 1940). Il regime gli offrì ancora qualche incarico: dal 3 nov. 1938 al marzo 1940 fu vicepresidente della Compagnia italiana trasporti Africa Orientale e, dall’aprile 1941 al luglio 1943, direttore della rivista Nazione militare cui da tempo collaborava.
    La vecchia simpatia per il fascismo delle origini, il prestigio militare e il suo storico “antibadoglismo” fecero sì che, il 19 sett. 1943, G. Buffarini Guidi, per conto di Mussolini, gli offrisse l’incarico di ministro della Difesa nazionale della Repubblica sociale italiana, ma il G. rifiutò. Questa decisione gli evitò spiacevoli conseguenze dopo l’occupazione delle truppe alleate: un procedimento di epurazione, avviato il 3 dic. 1944, venne sbrigativamente concluso il 27 dicembre con la dizione: “non sussiste addebito alcuno”.
    Nel dopoguerra fu attivo nelle file monarchiche e continuò a scrivere: tra l’altro fu tra gli autori del volume curato nel 1948 dall’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito in occasione del centenario del 1848 (Le operazioni militari nel 1848, in Il primo passo verso l’Unità d’Italia, Roma 1948).
    Il G. morì a San Domenico di Fiesole il 20 febbr. 1951.(fonte)

    [3] Achille Bassignano.
    – La vicenda che più di altre può fare luce sull’idea di “patria” che avevano i coscritti trentini è quella dei circa seimila prigionieri – tra cui moltissimi disertori – condotti nel campo siberiano di Kirsanov a seguito di un accordo tra autorità italiane e russe. La Missione Militare guidata dal colonnello Achille Bassignano fu incaricata nell’agosto 1916 di persuadere gli «irredenti» a chiedere la cittadinanza italiana in vista del trasferimento nella penisola, con la prospettiva di un successivo arruolamento nelle forze armate. Come risulta da un’attenta lettura delle testimonianze, questo invito suscitò all’interno della comunità trentina sentimenti contrastanti. I dubbi scaturivano dalla preoccupazione di perdere i diritti connessi allo status di prigionieri di guerra: per quanto la promessa di un ritorno in terre più vicine a casa fosse allettante, quasi nessuno valutò con favore l’ipotesi di riprendere le armi nell’esercito italiano, malgrado la propaganda tendesse ad esaltare il loro entusiasmo patriottico. –
     Da: Federico Mazzini, “Cose de laltro mondo”: una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina, 1914-1918 (fonte)

    I prigionieri redenti: un problema politico. Uno degli aspetti più controversi del rimpatrio dei soldati ex austro-ungarici provenienti dalle terre liberate fu l’estrema e prolungata frammentazione dei rientri e i differenti trattamenti a cui furono sottoposti gli ex prigionieri. La smobilitazione iniziò già durante la guerra, come effetto della politica russa di sfruttamento delle differenze nazionali in seno all’imperial-regio esercito. Questa strategia aveva l’obbiettivo di convincere i membri di minoranze austro-ungariche irredentiste a costituire dei battaglioni di volontari per affiancare i russi nello sforzo bellico, ottenendo in cambio, a guerra finita, la propria indipendenza nazionale. L’operazione ebbe particolare successo nei confronti dei cecoslovacchi che, tra il 1914 e il 1915, costituirono diversi reparti di volontari inquadrati nell’esercito russo e, infine, una legione indipendente approvata dallo Zar Nicola II. Ad altri gruppi nazionali furono offerte condizioni favorevoli, soprattutto allo scopo di influenzare positivamente la diplomazia nei confronti dei paesi neutrali. I prigionieri rumeni furono offerti alla Romania e quelli italiani all’Italia5. La proposta di liberare i prigionieri di lingua italiana e consegnarli al Regno d’Italia fu avanzata, nel 1914, dall’ambasciatore russo Krupensky, conscio tuttavia del fatto che essa poneva problemi quasi insormontabili di logistica, sia per la situazione caotica di una Russia che faticava a gestire centinaia di migliaia di prigionieri, sia per il fatto che, almeno inizialmente, essi non venivano tenuti separati per nazionalità. […] Nel novembre del 1915, una delegazione del consolato italiano a Mosca si recò al campo di Kirsanov, dove nel frattempo i russi stavano concentrando i prigionieri che volevano partire per l’Italia. Si trattava ancora di un numero ridotto di persone che, apparentemente, sarebbero state disposte a offrirsi volontarie per arruolarsi nel regio esercito e combattere contro l’Austria. Si dovette, comunque, aspettare la tarda primavera del 1916, perché una missione militare proveniente dall’Italia e guidata dal tenente colonnello degli alpini Achille Bassignano, giungesse a Kirsanov per iniziare le effettive operazioni di rimpatrio. Tra i membri della missione vi erano anche il capitano dei carabinieri reali Cosma Manera e il sottotenente Filiberto Poli, un fuoriuscito trentino. Nonostante le numerose difficoltà, la missione di Bassignano riuscì a far inviare in Italia circa 4000 prigionieri, partiti dal porto di Arcangelo e transitati attraverso l’Inghilterra e la Francia. L’arrivo dei primi soldati «redenti» rappresentò un momento di grande entusiasmo e fervore patriottico e i reduci furono accolti con grandi festeggiamenti. All’atto pratico, però, i soldati vennero confinati nelle città di arrivo, Torino e Milano e, nonostante venissero loro erogati contributi e avessero garantita una certa libertà di movimento e di ricerca di un lavoro, non venne loro permesso di arruolarsi nel regio esercito. Escludendo le ragioni politiche e propagandistiche, per le quali l’aver strappato migliaia di soldati delle terre irredente all’Austria era sicuramente un risultato positivo, vi erano diverse ragioni che portarono ad evitare l’utilizzo di quei soldati in combattimento. A condividere le perplessità su questo punto vi erano sia il ministero della Guerra, sia quello degli Esteri, nella persona di Sidney Sonnino. […] Gli altri, secondo il ministro, avrebbero potuto rimanere più a lungo in Russia dove la missione avrebbe potuto controllarli e prepararli al rimpatrio. Quest’ultimo compito fu preso molto sul serio da Cosma Manera, comandante della missione italiana dopo il rientro in Italia di Bassignano, avvenuto nel febbraio del 1917. L’esplodere della rivoluzione, in quello stesso mese, provocò i primi problemi a quest’ultimo, dato che la via per Arcangelo si era resa impraticabile e l’unica alternativa rimasta era cercare di trovare dei mezzi di trasporto dai porti dell’Oriente. A complicare ulteriormente le cose, lo Stato italiano si ritrovò coinvolto negli sforzi degli alleati e degli americani volti a combattere la rivoluzione bolscevica, nella speranza di restaurare il potere zarista e ricostituire il fronte orientale. Diversi contingenti internazionali vennero inviati in Russia allo scopo di aiutare i bianchi. I prigionieri del contingente di Manera, arrivati alla concessione italiana di Tientsin in Cina, si incrociarono col Corpo di spedizione italiano in Estremo oriente (CSIEO), composto da membri di varie armi e comandato dal tenente colonnello Edoardo Fassini-Camossi. […] Con l’ultima spedizione rientrarono in Italia 1904 ex prigionieri che vennero poi congedati e avviati ai loro paesi di origine. Dopo la partenza di tutto il personale militare italiano da Vladivostok, il compito di provvedere al rimpatrio di eventuali altri ex prigionieri che fossero giunti nel porto russo fu assunto dal consolato britannico. La missione Manera si portò dietro, oltre a migliaia di prigionieri, anche critiche e polemiche. Successivamente alla smobilitazione della missione, infatti, i ministeri degli Esteri e della Guerra, nonché l’Ufficio per le nuove province, ricevettero sollecitazioni a riprendere le ricerche di ulteriori dispersi. Nel difendersi però da accuse di negligenza, Manera compilò un rapporto riassuntivo che completava il quadro della sua missione. Egli attribuì all’operato del governo il rimpatrio di circa 10.000 prigionieri, inclusi i 4400 partiti durante il comando di Bassignano. Nel sottolineare come le critiche successive al suo ritorno siano state ingiuste egli puntualizzò che almeno 5000 rimpatri furono effettuati senza l’autorizzazione delle autorità russe e, quindi, clandestinamente. Giova ricordare che con la presa del potere da parte dei bolscevichi e la successiva guerra civile, il trattato di pace tra la Russia e gli Imperi centrali annullava i precedenti accordi tra l’Impero zarista e l’Italia e i prigionieri provenienti dal Trentino e dalla Venezia Giulia sarebbero stati restituiti all’Austria, col conseguente rischio di venire esposti a rappresaglie e processi per diserzione. Ciononostante, la missione Manera fu considerata, nelle nuove province e in particolare in Trentino, insoddisfacente. Secondo i dati raccolti dagli enti locali, in primis l’Ufficio provinciale per l’assistenza ai combattenti, istituito dai membri della Legione trentina, vi erano ancora migliaia di prigionieri delle nuove province ad attendere la salvezza nell’ex Impero russo.
    Estratti da: «Qualestoria» n. 1-2, giugno-dicembre 2014 Considerazioni sul rimpatrio e la smobilitazione dei soldati austro-ungarici di nazionalità italiana nel primo dopoguerra. di Alessandro Salvador. Cap. “I prigionieri redenti: un problema politico.” pp 62-64(fonte)

    In quegli stessi mesi l’Italia era impegnata nella laboriosa, e segretissima, trattativa di adesione all’Intesa franco-russo-britannica e le migliaia di prigionieri di lingua italiana in mano russa divennero ben presto uno strumento della diplomazia russa: lo Zar Nicola II offri infatti a Vittorio Emanuele III, del cui matrimonio era stato il sensale, la consegna dei prigionieri che si dichiarassero di nazionalità italiana.
    Gli italiani presero tempo, l’equilibrio della neutralità non consentiva infatti di accettare l’offerta, ma la politica interna sconsigliava di rifiutarla del tutto. La notizia della presenza di prigionieri italiani in mani russe si era infatti già diffusa ed alimentava, nell’Italia interventista, le più diverse ipotesi: Ricciotti Garibaldi aveva già chiesto al Ministro della Guerra Zupelli che i “12.000 irredenti” venissero fatti confluire, assieme a 6.000 ex-galeotti e altri 10.000 volontari, in una Legione Garibaldina da formarsi in vista di uno sbarco nei Balcani per accendervi una rivolta anti-austriaca, progetto quest’ultimo peraltro già coltivato nel 1862 dall’Eroe dei due Mondi .
    Scartata per ovvie ragioni l’opzione neo-garibaldina, la proposta russa venne vagliata dal giornalista Virginio Gayda, allora a Pietroburgo con funzioni di rappresentanza informale. Fu di quest’ultimo l’idea di proporre al governo di Pietrogrado di concentrare i prigionieri italiani in un unico campo, onde poter meglio organizzarli e raccoglierne le adesioni. L’operazione avrebbe consentito di guadagnare tempo, in attesa che si potesse riportarli in Italia. Per convincere le autorità zariste, Gayda si avvalse degli uffici del mercante d’arte Virgilio Ceccato, assai ben introdotto a corte, e della marchesa Gemma Guerrieri Gonzaga, lei pure assidua della corte Romanov.
    Forse anche per facilitare l’esito delle trattative che portarono al Patto di Londra, i russi acconsentirono al progetto nel marzo 1915, e venne cosi decisa la concentrazione degli italiani, che rimanevano de iure pur sempre soldati nemici prigionieri, nei campi di Vologda, presso Mosca, e Kirsanov, presso Tambov nella Russia sud-occidentale.
    Ad occuparsi direttamente dell’operazione furono, oltre all’ambasciatore Carlotti e al console Gazzurelli, i quali per altro mostrarono poco entusiasmo, lo stesso Gayda cd il maggiore Oscar Tonelli, già addetto alla Missione Militare italiana del Colonnello Ropolo presso il Gran Quartier Generale russo a Mogilev. Nel gennaio 1915 Ropolo, aveva già chiesto allo Stato Maggiore russo, su istruzione dell’ambasciatore Carlotti, un elenco, puntualmente fornito, dei nomi dei prigionieri austriaci di nazionalità italiana. A tale elenco altri ne erano seguiti, mano a mano che l’avanzata russa procedeva nel cuore della Galizia austriaca, ed ora il numero complessivo degli irredenti si aggirava all’incirca sulle 6.000 unità, di cui molti si erano già dichiarati italiani.
    Stanti le difficoltà organizzative, inevitabili in un paese vasto come la Russia, notoriamente afflitto da una burocrazia pervasiva e corrotta, solo nell’autunno 1915, quando l’Italia era scesa già in guerra da alcuni mesi, fu possibile radunare a Kirsanov i primi ex-prigionieri, che presto raggiunsero il numero di 3.250.
    I russi chiarirono però che, data la situazione militare molto difficile, tutte le ferrovie erano impegnate nello sforzo bellico, e non c’era da sperare in un rapido trasferimento degli irredenti. Anche per la loro organizzazione e mantenimento non potevano essere date grandi garanzie: si sarebbe fatto il possibile. Fu evidente insomma che, se lasciata in mano ai russi, la cosa avrebbe proceduto di lì in poi con estrema lentezza.
    Per ragioni di prestigio non era possibile però lasciare a tempo indefinito gli irredenti a vegetare nello squallore del campo di Kirsanov, ancora vestiti di divise austriache. Si decise cosi a Roma di costituire una Missione Militare Speciale, appositamente incaricata di occuparsi degli ex-prigionieri irredenti. A capo della missione, composta di 21 ufficiali, fu posto il colonnello Achille Bassignano, assistito da un brillante ufficiale dei Carabinieri Reali, il maggiore Cosma Manera, che mostrò fin da subito di sapersi muovere con disinvoltura nei rapporti con gli alleati russi. Manera aveva precedentemente disimpegnato il compito di istruttore della Gendarmeria ai tempi dell’intervento internazionale in Macedonia nel 1905 e in seguito era stato inviato in Cina ed in Giappone, dove in breve tempo aveva maturato una vasta esperienza del mondo estremo-orientale.(fonte)

    [4] Alberto Emanuele Lumbroso Nacque a Torino il 1o ott. 1872, in una famiglia israelita, unico figlio di Giacomo e di Maria Esmeralda Todros, di nazionalità francese.
    Il nonno paterno, Abramo, protomedico del bey di Tunisi, aveva ottenuto nel 1866 da Vittorio Emanuele II il titolo di barone per meriti scientifici e per speciali benemerenze. Il padre del L., Giacomo, era nato a Bardo, in Tunisia, nel 1844. Ellenista e papirologo di fama internazionale, dal 1874 socio della Deutsche Akademie der Wissenschaften, influenzò fortemente l’educazione e la formazione intellettuale del Lumbroso. Trasferitosi a Roma intorno al 1877, divenne accademico dei Lincei (1878) e pubblicò la sua opera principale, L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani (Roma 1882), ottenendo nello stesso 1882 la cattedra di storia antica all’Università di Palermo. Con il medesimo insegnamento, nel 1884, si trasferì a Pisa, quindi, nel 1887, nuovamente a Roma dove insegnò storia moderna alla “Sapienza” (vedi le Lezioni universitarie su Cola di Rienzo, ibid. 1891). Giacomo morì a Rapallo nel 1925.
    I trasferimenti del padre lasciarono notevoli tracce nella formazione del giovane L.; tra le sue prime esperienze romane si ricordano la frequentazione delle case di T. Mamiani e di Q. Sella, dove divenne amico di S. Giacomelli, nipote di questo; in Sicilia rimase affascinato da G. Pitrè e, nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari da lui diretto, pubblicò nel 1896 il suo primo articolo.
    Nel periodo pisano il L. continuò con successo gli studi e sviluppò una notevole passione per la cultura erudita, collezionando autografi, raccogliendo motti, proverbi e notizie folkloristiche, sempre in perfetta sintonia con il padre. Tornato a Roma si diplomò al liceo classico E.Q. Visconti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si appassionò al periodo napoleonico, laureandosi, intorno al 1894, con una tesi su Napoleone I e l’Inghilterra (poi rielaborata e pubblicata in volume: Napoleone I e l’Inghilterra. Saggio sulle origini del blocco continentale e sulle sue conseguenze economiche, Roma 1897). Gli studi napoleonici occuparono interamente il L. fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. La frequentazione di ambienti intellettuali ed eruditi italiani (soprattutto romani, torinesi e, più tardi, napoletani) e francesi, l’assoluta familiarità con la lingua della madre e lo sviluppo di un talento compilativo dimostrato fin dalla prima giovinezza portarono il L. alla realizzazione di un gran numero di pubblicazioni.
    Tra il 1894 e il 1895 uscirono i cinque volumi del Saggio di una bibliografia ragionata per servire alla storia dell’epoca napoleonica (Modena), circa mille pagine dedicate alle lettere “da A a Bernays” (l’opera resterà incompiuta) e tra il 1895 e il 1898 le sei serie della Miscellanea napoleonica (Roma-Modena), altra cospicua opera erudita di oltre millecinquecento pagine che raccoglieva memoriali, lettere, canzoni, accadimenti notevoli e minuti forniti da studiosi europei e introdotti dal L.; nella Bibliografia dell’età del Risorgimento V.E. Giuntella li definì “saggi bibliografici che, sebbene arretrati, possono ancora essere utilmente consultati” (I, Firenze 1971, p. 405).
    L’interesse per il periodo napoleonico portò il L. a Napoli, in cerca di notizie e documenti su Gioacchino Murat. Suo interlocutore privilegiato in quella città fu B. Croce: il L. frequentò la casa del filosofo negli ultimi anni del secolo e i rapporti epistolari tra i due si protrassero a lungo.
    I maggiori lavori napoletani del L. furono la Correspondance de Joachim Murat, chasseur à cheval, général, maréchal d’Empire, grand-duc de Clèves et de Berg (julliet 1791 – julliet 1808 [sic]), (prefaz. di H. Houssaves, Turin 1899 e L’agonia di un Regno: Gioacchino Murat al Pizzo (1815), I, L’addio a Napoli, prefaz. di G. Mazzatinti, Roma-Bologna 1904.
    Alla fine del secolo il L. fu organizzatore e presidente operativo del Comitato internazionale per il centenario della battaglia di Marengo (14 giugno 1800-1900): chiamò alla presidenza onoraria G. Larroumet, professore della Sorbona e accademico di Francia, ottenendo la partecipazione onoraria di noti intellettuali tra cui G. Carducci, B. Croce, G. Mazzatinti, C. Segre, A. Sorel, le cui lettere di adesione furono via via pubblicate nel Bulletin mensuel du Comité international; nel 1903, accompagnato da una lettera-prefazione di Larroumet, fu edito il primo tomo, poi rimasto senza seguito, dei Mélanges Marengo (s.l. [ma Frascati] né d.).
    Ancora una volta il L. usa uno stile cronachistico, cerca e pubblica ogni genere di fonte, prediligendo quelle dirette. A tale scopo rintraccia figli e nipoti dei personaggi che descrive; caso emblematico quello dei “Napoleonidi”: e infatti, grazie ai suoi lavori e alle sue frequentazioni parigine, divenne “Bibliothécaire honoraire de S.A.I. le prince Napoléon” [Vittorio Napoleone]; pubblicò poi Napoleone II, studi e ricerche. Ritratti, fac-simili di autografi e vari scritti editi ed inediti sul duca di Reichstadt (Roma 1902), Bibliografia ragionata per servire alla storia di Napoleone II, re di Roma, duca di Reichstadt (ibid. 1905) e – più tardi – redasse le voci su Napoleone I e i Napoleonidi per il Grande Dizionario enciclopedico UTET (1937, VII, pp. 1100-1150). A coronamento dei suoi interessi per i Bonaparte, nel 1901 il L. fondò e diresse la Revue napoléonienne, bimestrale (ma, dal 1908, mensile) che uscì fino al 1913, coinvolgendo nell’iniziativa un gran numero di studiosi italiani e francesi.
    L’interesse per la cultura d’Oltralpe lo portò a pubblicare anche lavori su Voltaire (Voltairiana inedita, Roma 1901), Stendhal (Stendhaliana: da Enrico Beyle a Gioacchino Rossini, Pinerolo 1902) e soprattutto Maupassant (Souvenirs sur Guy de Maupassant: sa dernière maladie, sa mort. Avec des lettres inédites communiquées par madame Laure de Maupassant et des notes recueillies parmi les amis et les médecins de l’écrivain, Genève-Rome 1905), scritto durante un lungo soggiorno parigino.
    Nel 1898 il L. era intanto diventato consigliere della Società bibliografica italiana e probabilmente nel contesto culturale della Società conobbe Carducci, cui dedicò, postuma, una Miscellanea carducciana (con prefaz. di B. Croce, Bologna 1911), raccolta di notizie critiche, biografiche e bibliografiche sul poeta.
    Nel 1897 aveva sposato Natalia Besso, dall’unione con la quale nacquero Maria Letizia (1898) e Ortensia (1901). Nel 1901 l’intera famiglia abbracciò la religione cattolica. Nel 1904 il L. donò la sua ricca biblioteca napoleonica (circa trentamila volumi e opuscoli) alla Biblioteca nazionale di Torino, da poco distrutta in un incendio. Nel 1907 assunse, con A.J. Rusconi, la direzione della Rivista di Roma e, a partire dal 1909, ne divenne direttore unico.
    La direzione della Rivista rappresentò una svolta nei suoi interessi e nei suoi studi, che da internazionali ed eruditi divennero più “patriottici”, legati a eventi del Risorgimento e della storia italiana (in particolare il L. sì appassionò alla riabilitazione dell’ammiraglio C. Pellion di Persano e, oltre agli articoli apparsi nella Rivista, sull’argomento pubblicò La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda: la verità sulla campagna navale del 1866 desunta da nuovi documenti e testimonianze, Roma 1910, seguita da ulteriori approfondimenti, tra cui Il carteggio di un vinto, ibid. 1917). Tra coloro chiamati dal L. a collaborare alla Rivista – che dal primo momento egli volle “crispina, salandrina e antigiolittiana” e, dopo la guerra, “antibonomiana e antinittiana” (Premessa, s. 3, XXXII [1928], 1) – D. Oliva, E. Corradini, L. Ferderzoni, A. Dudan.
    Dal 1909 G. D’Annunzio collaborò alla Rivista di Roma. Il contatto diretto portò in breve tempo il L., inizialmente piuttosto critico nei confronti del poeta (si veda del L. Plagi, imitazioni e traduzioni, in Id., Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo(, Frascati 1902, pubblicazione che Croce aveva particolarmente apprezzato), a divenirne ammiratore e paladino, fino a entrare in forte polemica sia con lo stesso Croce sia con G.A. Borgese; nel 1913, nel cinquantesimo anniversario di D’Annunzio, volle dedicargli l’intero n. 6 della Rivista; nello stesso anno il L. fu attivo nel Comitato pro Dalmazia italiana e, nel 1914, diede vita a un Comitato pro Polonia del quale offrì la presidenza onoraria al poeta.
    Approssimandosi la guerra, la Rivista di Roma svolse campagne in favore dell’intervento e, nel 1915, lo stesso L. partì volontario col grado di sottotenente. Promosso tenente, dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto presso l’ambasciata italiana ad Atene e, al termine del conflitto, fu insignito del cavalierato nell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per benemerenze acquisite in guerra.
    Nel 1924, ormai di fatto separato dalla moglie, il L. si trasferì a Genova dove riprese la pubblicazione della Rivista di Roma, sospesa nel biennio 1922-23, che diresse fino al 1932. A Genova ebbe due figli, Emanuele e Maria Tornaghi, nati nel 1918 e nel 1919 da Adriana Tornaghi, con la quale aveva a lungo convissuto.
    Dopo la morte del padre, il L. ne pubblicò la bibliografia (in Raccolta di scritti in onore di Giacomo Lumbroso, Milano 1925); fin dal 1923 aveva collaborato con Critica fascista, e nel 1929 inviò suoi libri a B. Mussolini e chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista. I lavori più consistenti del L. negli anni Venti e Trenta furono dedicati principalmente alla Grande Guerra e a personaggi della casa reale.
    Bibliografia ragionata della guerra delle nazioni: numeri 1-1000 (scritti anteriori al 1  marzo 1916), Roma 1920; Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, I-II, Milano 1926-28; Carteggi imperiali e reali: 1870-1918. Come sovrani e uomini di Stato stranieri passarono da un sincero pacifismo al convincimento della guerra inevitabile, ibid. 1931; Cinque capi nella tormenta e dopo: Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Giardino, Thaon di Revel visti da vicino, ibid. 1932; Da Adua alla Bainsizza a Vittorio Veneto: documenti inediti, polemiche, spunti critici, Genova 1932; Fame usurpate: il dramma del comando unico interalleato, Milano 1934.
    Fra gli ultimi volumi pubblicati dal L. si ricordano ancora: Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, con uno studio sulla campagna del 1848 e con un’appendice di documenti inediti o sconosciuti tradotti sugli autografi francesi del re da Carlo Promis (s.l. 1935) nonché, per i “Quaderni di cultura sabauda”, I duchi di Genova dal 1822 ad oggi (Ferdinando, Tommaso, Ferdinando-Umberto), ed Elena di Montenegro regina d’Italia (entrambi Firenze 1934).
    Grazie al suo prestigio personale e all’adesione al cattolicesimo risalente al 1901, i Lumbroso furono discriminati dall’applicazione delle leggi razziali del 1938, ma il L. non pubblicò più. Il L. morì a Santa Margherita Ligure l’8 maggio 1942.(fonte)

    [5] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
    Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.

    L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.

    Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)

    [6] Il Comando Supremo Militare Italiano era l’organo di vertice delle forze armate italiane, tra il 1915 e il 1920, durante il Regno d’Italia.
    Istituito durante la prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, con sede operativa a Villa Volpe a Fagagna e dal mese di giugno nel Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il Comando Supremo del Regio Esercito fu sciolto il 1º gennaio 1920 e parte delle sue competenze passarono allo Stato Maggiore del Regio Esercito.
    Tra il 1941 e il 1945 fu istituito il Comando Supremo italiano.
    Era suddiviso in tre organi principali, l’Ufficio del Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano Tenente Generale Luigi Cadorna, il Riparto Operazioni e il Quartier generale, composti da un certo numero di uffici ciascuno.
    L’8 novembre 1917, dopo la Battaglia di Caporetto, la sede, dopo aver ripiegato dal 27 ottobre a Palazzo Revedin di Treviso, poi a Palazzo Dolfin di Padova, poi nella villa di Bruno Brunelli Bonetti a Tramonte di Teolo è stabilita all’Hotel Trieste di Abano Terme agli ordini del Generale Armando Diaz.(fonte)

    [7] Franz Conrad von Hötzendorf. Feldmaresciallo austriaco, nato l’11 novembre 1852 a Penzing presso Vienna, morto a Mergentheim il 25 agosto 1925. Nel 1906 fu nominato capo di Stato maggiore. Tedesco di stirpe, egli era prettamente austriaco per sentimento, e considerava un furto le rivendicazioni dell’Italia nel 1859 e nel 1866; e sotto lo stesso punto di vista considerava le agitazioni interne ed esterne delle varie nazionalità della duplice monarchia. Perciò egli vide l’unico mezzo di salvezza nella guerra preventiva contro l’Italia (da lui considerata come il nemico tradizionale) e contro la Serbia, sede dell’irredentismo slavo: nel 1911 il ministro Aehrenthal, in seguito a un nuovo tentativo d’indurre alla guerra contro l’Italia impegnata a Tripoli, ottenne dall’imperatore che si ponesse fine a una politica dallo stesso ministro qualificata “di banditismo”, e il C. fu allontanato dalla carica di capo di Stato maggiore; alla quale fu però richiamato dopo la morte dell’Aehrenthal (1912).
    Il C., rimase spesso un solitario, chiuso nella propria superiorità intellettuale, lontano dalla realtà: fino a vedere, ad esempio, continui disegni di aggressione da parte dell’Italia, la quale invece sino a pochi anni prima della guerra mondiale non aveva avuto, verso oriente, che timidi progetti di mobilitazione a carattere difensivo.
    Allo scoppiare della guerra europea egli scrisse a Cadorna che il precedente capo di Stato maggiore, Pollio, gli aveva promesso di mandare truppe in Austria: il C. stesso nelle sue memorie, minute talvolta fino al superfluo, si guarda bene dal precisare dove il Pollio avrebbe fatto simile promessa, in realtà inesistente.
    Anche in guerra il C. si tenne, per abitudine, fuori del contatto con i comandi dipendenti: il generale Krauss, capo di Stato maggiore del comando della fronte verso l’Italia, durante i 27 mesi trascorsi in tale carica non vide mai il C.: così si spiega come questi non conoscesse a sufficienza né i comandi né le truppe. Tali caratteristiche negative, e i preconcetti teorici spiegano gl’insuccessi che il C. ebbe nel campo della realtà. Fu quasi sempre in disaccordo con lo Stato maggiore germanico: tipico il dissenso col Falkenhayn nel maggio 1916, contro il parere del quale attuò l’offensiva del Trentino, con grave danno per le operazioni alla fronte russa.
    Dopo la morte di Francesco Giuseppe, il nuovo imperatore volle assumere personalmente la direzione delle operazioni, ma non trovò un collaboratore gradito nel C., il quale d’altra parte aveva perduto molto del suo prestigio presso l’esercito in seguito all’insuccesso dell’offensiva del giugno 1916 contro l’Italia. L’imperatore Carlo lo mandò a comandare il gruppo di armate del Tirolo. La battaglia del Piave (v.) nel giugno del 1918, nella quale il C. sperava di attuare la sua antica concezione di scendere dagli Altipiani per prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano, fu un disastroso insuccesso per il maresciallo. L’imperatore lo esonerò dal comando, colmandolo tuttavia di onori. Il C. si ritrasse a vita privata e negli ultimi tempi attese a scrivere le sue memorie (Aus meiner Dienstzeit), dal 1906 fino a tutto il 1914, troncate dalla sua morte. Traspare in esse il malanimo contro l’Italia, diventato nel C. una seconda natura, ma le memorie sono un documento prezioso per la nostra storia mettendo in luce i progressi del nostro esercito negli anni precedenti la guerra.
    L’odio tolse al C. la serenità necessaria per apprezzare al giusto valore gli avversarî e questa fu non ultima ragione per la quale il successo raramente gli arrise. Si debbono però riconoscergli grandi doti d’intelletto, di operosità e di carattere.(fonte)

    [8] Erich Ludendorff. Generale tedesco (Kruszewnia, Poznań, 1865 – Tutzing, Baviera, 1937). Durante la Prima guerra mondiale condusse vittoriosamente l’esercito sul fronte orientale e, come capo di Stato maggiore, guidò le grandi offensive del 1918. Dopo le dimissioni (1918) militò nell’estrema destra e partecipò al Putsch di W. Kapp (1920) e di A. Hitler (1923). Fallita la sua candidatura alla presidenza del Reich (1925), si ritirò a vita privata.
    Fece rapida carriera nello stato maggiore, raggiungendo nel 1914 il grado di generale di brigata; scoppiata la prima guerra mondiale, fu quartiermastro della 2a armata, partecipando alla direzione delle operazioni contro Liegi. Nell’agosto 1914 fu mandato in Prussia orientale e nominato capo di S. M. dell’8a armata. Fu l’artefice, con P. L. von Hindenburg, di tutte le vittorie tedesche sul fronte orientale, dove svelò le sue notevoli doti di stratega e di tattico, soprattutto nell’impiego delle colonne combattenti e nella manovra attraverso i grandi spazi. Fu ancora a fianco di Hindenburg, allorché (1916) questi divenne il comandante in capo dell’esercito germanico, col rango di quartiermastro del gran quartiere generale e sottocapo di S. M. Le grandi operazioni offensive del 1918, che misero a così dura prova la resistenza dell’Intesa, furono per larga parte opera sua. L. fu sostenitore della guerra sottomarina a oltranza, che tanto contribuì all’intervento degli USA; le sconfitte provocate da questo intervento indussero (20 sett. 1918) L. a consigliare al governo la richiesta dell’armistizio. Dimessosi il 26 ott., lasciò il paese rifugiandosi in Svezia. Dopo la guerra fu a capo del gruppo di estrema destra avverso alla costituzione repubblicana, contribuendo ad alimentare la leggenda del presunto tradimento del paese ai danni dell’esercito combattente; ebbe parte notevole nel Putsch di W. Kapp (1920) e nel tentativo di Hitler del 1923. Nel 1924 fu membro del Reichstag nel gruppo nazional-socialista, al quale si era intanto accostato. Dopo il fallimento della sua candidatura alla presidenza del Reich (1925), si ritirò a vita privata.(fonte)

    [9] Svetozar Boroević. Feldmaresciallo austriaco, nato a Umetic (Croazia) il 13 dicembre 1856, morto il 13 maggio 1920 a Klagenfurt. Comandante il VI corpo d’armata, si segnalò nella battaglia di Komarów (29 e 30 agosto 1914), ove fu sconfitta la V armata russa, e il 4 settembre fu nominato comandante della III armata. Alla testa di tale grande unità partecipò alla battaglia di Leopoli, la quale, malgrado i successi locali conseguiti dal B., terminò con la ritirata dell’esercito austroungarico (11 settembre), che abbandonò ai Russi circa centomila prigionieri e tutta la Galizia. L’armata del B. nell’autunno del 1914 fu destinata alla difesa dei Carpazî. Nella battaglia di Limanowa (dicembre 1914), nella quale i Russi dopo lunga lotta furono arrestati nella loro avanzata minacciosa verso la Slesia, il B. avrebbe dovuto, scendendo dai monti, attaccare sul fianco sinistro i Russi e produrre la decisione, ma dopo qualche successo, nuovi rinforzi giunti all’avversario costrinsero (Natale 1914) il B. a ritirarsí dopo aspri combattimenti presso Jasło, sino alla cresta dei Carpazî, che difese con grande tenacia. Di fronte agli attacchi ostinati dei Russi il B. seppe cedere poco terreno, senza compromettere la solidità della difesa.
    Le forze del B. in unione alla II armata tentarono invano nel marzo di liberare il campo trincerato di Przemysł che il 22 marzo dovette arrendersi. Con le forze rese cosị disponibili i Russi rinnovarono persistenti e sanguinosi attacchi specialmente contro il centro e la destra delle truppe del B., talchḫ fu necessario inviare in rinforzo il corpo d’armata tedesco detto dei Beschidi, con l’aiuto del quale i Russi vennero respinti.
    Dopo la battaglia di Gorlice (2 maggio 1915) i Russi furono costretti alla ritirata e l’armata del B. passn̄ all’offensiva contro l’avversario che ripiegava sull’intera fronte. Il 27 maggio 1915 al B. venne affidato il comando della nuova V armata destinata allo scacchiere italiano per la difesa della fronte dal Monte Nero al mare. Da allora il B. rimase nel teatro d’operazioni italiano. La V armata prese dal gennaio 1916 il nome di armata dell’Isonzo; il 23 agosto 1917 essa fu divisa in due armate, la I e II armata dell’Isonzo, le quali costituirono il gruppo d’armata Boroević.
    Il B. diresse tutte le operazioni alla fronte giulia: egli ebbe quindi parte preminente nella tenace difesa che l’esercito imperiale oppose alle nostre offensive durante gli anni 1915-16-17: nonostante però il valore delle truppe e l’abilità dei capi e i continui rinforzi tratti dalla fronte russa, la nostra azione poderosa aveva portato l’esercito austriaco vicino allo sfacelo, tanto che l’Austria fu costretta a ricorrere alla Germania, la quale inviò alla fronte giulia un’armata per effettuare l’offensiva di Caporetto. In questa operazione si verificarono fra l’armata di destra del B. e le truppe vicine attriti e contrattempi che diedero motivo a gravi accuse da parte degli avversarî del B. Il generale di fanteria Alfredo Krauss, che fu capo di Stato maggiore delle forze austriache alla fronte italiana e che comandò durante l’offensiva di Caporetto il I corpo d’armata austriaco alla dipendenza della XIV armata tedesca (conca di Plezzo), nella sua opera Die Ursachen unserer Niederlage afferma che il B. rimase troppo lontano dalle truppe operanti e che egli con inopportuni ordini motivati da invidia “salvò la III armata italiana”. Il generale austriaco soggiunge che la limitata capacità del B. era ben nota nell’esercito ed anche al comando supremo. Tali aspri giudizî sono un’eco evidente degli attriti esistenti nell’esercito austriaco fra comandanti di differenti nazionalità.

    Raggiunto il Piave e partita la XIV armata germanica, la fronte dal mare al Grappa fu affidata al B. (nel febbraio promosso feldmaresciallo), mentre la fronte montana era affidata al Conrad. Nell’offensiva del giugno, secondo il primitivo disegno d’operazione, l’attacco decisivo avrebbe dovuto essere effettuato esclusivamente dal Conrad, mentre un compito soltanto dimostrativo era affidato al gruppo B. Questi avrebbe preferito non dare battaglia, per conservare le forze intatte in vista di una prossima pace; ma, come afferma il generale tedesco Cramon (allora addetto al Comando supremo austro-ungarico) nel suo libro Unser österreichischungarischer Bundesgenosse, il B. non era un uomo da accontentarsi, una volta decisa l’offensiva, d’incarichi secondarî. In tal modo l’attacco, diluito pressoché sull’intera fronte, perdette di vigore e naufragò miseramente. Tuttavia, mentre l’offensiva del Conrad fu stroncata sin dal primo giorno, le truppe del B. riuscirono a passare il Piave e a mantenervisi, sia pure in ristretto spazio, per alcuni giorni; ma il 20 giugno, cioè cinque giorni dopo l’inizio dell’offensiva, il B. dichiarò esplicitamente al Comando supremo che, se si voleva evitare una catastrofe, occorreva ritirare le truppe sulla sinistra del Piave. Dopo una giornata di esitazioni dovute a motivi politici, l’imperatore si piegò alle ragioni militari del B.
    L’attacco italiano dell’ottobre 1918 fu da principio diretto contro il gruppo dell’esercito Boroević, prima sul Grappa, dove le truppe imperiali opposero accanita ed efficace resistenza, poi sul Piave. Ma dopo che le forze nostre ebbero guadagnato a viva forza il passaggio del fiume, l’esercito, seguendo l’esempio del paese, incominciò a sconnettersi, e il maresciallo dovette assistere impotente alla ritirata e alla dissoluzione dell’esercito imperiale.
    Il B., generale stimato in pace per la sua elevata capacità, si era dimostrato a Komarów comandante di corpo d’armata prudente e nello stesso tempo energico e tenace. Il suo ordine del giorno nell’assumere il comando dell’armata incomincia: “Soldati, io vengo a voi come vincitore…” In realtà il B. d’allora in poi non conobbe più la vittoria vera, perché le sue azioni fortunate furono riflesso di successi altrui. È però certo ch’egli mostrò, sia sui Carpazî sia sull’Isonzo, fermezza ed energia non comuni, non mai smentite durante oltre quattro anni di guerra.(fonte)

    [10] Il nome Giudicarie è utilizzato per definire una zona del Trentino occidentale che comprende l’alto corso del Sarca immissario del lago di Garda, dalla sorgente nell’alta Val Rendena fino alla forra del Limarò (m 270) e del Chiese fino al suo sbocco nel lago d’Idro (m 368). Il primo utilizzo del nome risale al XIII secolo con derivazione probabilmente dal latino Judicium, nel senso di ufficio giudiziario o di luogo in cui si celebravano i giudizi e quindi di zona di competenza di un ufficio giudiziario: si ricordi che nell’ordinamento asburgico ancora agli inizi del XX secolo anche le zone di competenza amministrativa erano definite “Giudizi” o “Giudicature” perché come controllore dell’amministrazione statale e locale di una certa zona era preposto il giudice competente per quella zona.(fonte)


    La battaglia dei Tre Monti (Col del Rosso e Col de l’Échelle)
    fu in realtà una serie di battaglie combattute per la conquista dei Tre Monti: il Col del Rosso, il Col d’Ecchele ed il Monte Valbella, sull’Altopiano dei Sette Comuni, in Provincia di Vicenza. 
    Fu, probabilmente, la più grande battaglia d’artiglieria campale della Prima guerra mondiale. La prima Battaglia dei Tre Monti fu combattuta dal 28 al 31 gennaio 1918; mentre la seconda battaglia ebbe luogo il giorno 30 giugno dello stesso anno. Essa è stata la prima vittoria offensiva del Regio Esercito italiano dopo Caporetto. Il 27 gennaio 1918 dopo un fuoco di preparazione su Ave-Zocchi ed azioni di pattuglie e nella notte alpini in azione a S. Francesco, iniziò il contrattacco italiano sui “Tre monti”. (fonte)

    [11] Col del Rosso. Nell’ambito della Battaglia dei Tre Monti (28-31 Gennaio 1918) la riconquista di Col del Rosso, Val Bella e di Col d’Echele fu il primo segnale di riscossa dell’Esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto ed il ripiegamento al Piave. Posto nella parte orientale dell’ Altipiano di Asiago, quasi a ridosso della valle del Brenta, il monte era stato occupato dagli austro-ungarici il 23 dicembre 1917. Nella notte il 16º reparto d’assalto, con il 78º Toscana, tentò invano di riprendere il monte, e così pure fecero i bersaglieri il giorno successivo.
    Il 28 gennaio 1918 reparti di Arditi e la brigata Sassari attaccarono il Col del Rosso che, dopo alterne vicissitudini, fu definitivamente occupato dagli italiani il 30 gennaio 1918.
    Due motivi, uno di ordine militare (la riconquista di uno spazio più ampio nel quale le truppe italiane potessero manovrare, non più quindi costrette tra il nemico e lo strapiombo della valle del Brenta) ed uno chiaramente di ordine morale, spinsero il Comando Supremo italiano ad una certa accuratezza di preparazione dell’offensiva, dimostrata anche dal fatto che per l’azione furono scelte due brigate di fanteria fra le più affidabili dell’Esercito italiano: la tenacissima brigata Liguria, veterana del Pasubio e dello Zovetto, e la leggendaria brigata Sassari.
    Nella battaglia del giugno 1918 (Solstizio) la divisione Edelweiss a Col del Rosso attaccò e travolse due battaglioni della brigata Lecce puntando di nuovo verso Melago, ma il monte venne ripreso il 30 giugno dalla stessa brigata Lecce.
    Sanzio Campanini (fonte)

    [12] Colle della Scala (Col de l’Échelle). Il colle venne attaccato e preso per la prima volta il 23 dicembre 1917. Fu riconquistato dagli alpini italiani il 28 gennaio 1918 e nell’azione cadeva Roberto Sarfatti, non ancora diciottenne, alpino del Monte Baldo, la cui memoria è celebrata dal monumento che la madre Margherita, scrittrice e critica d’arte veneziana, commissionò molti anni dopo a Giuseppe Terragni. Il 15 giugno 1918 gli Schützen della 26a divisione austriaca rioccuparono l’Échelle. Soltanto il 30 gennaio, dopo 9 ore di continui assalti, i fanti italiani della brigata Teramo riprendono la cima, mantenendola sino al termine della guerra.(fonte)

    [13] La battaglia del Solstizio. Fu l’ultima grande offensiva sferrata dagli austriaci nel corso della prima guerra mondiale e si spense davanti alla valorosa resistenza dei soldati italiani. Il nome “battaglia del solstizio” fu ideato dal poeta Gabriele D’Annunzio, lo stesso che poco dopo, il 9 agosto 1918, con 11 aeroplani Ansaldo sorvolerà Vienna gettando dal cielo migliaia di manifestini, inneggianti alla vittoria italiana.
    Nel 1918 gli austriaci pianificarono una massiccia offensiva sul fronte italiano, da sferrare all’inizio dell’estate, in giugno. A causa delle loro gravi difficoltà di approvvigionamento, volevano infatti raggiungere la fertile pianura padana, sino al Po, e soprattutto, in un momento di grave difficoltà interna dell’Impero per il protrarsi della guerra, gli Austro-ungarici intendevano dare al conflitto una svolta decisiva, che permettesse un completo sfondamento d​el fronte italiano, come era già avvenuto con l’offensiva di Caporetto, e consentisse quindi di liberare forze da concent​rare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.
    L’offensiva fu preparata quindi con grande cura e larghezza di mezzi dagli austriaci che vi impegnarono ben 66 divisioni.
    Gli italiani avevano intuito i piani del nemico, tanto che nella zona del Monte Grappa e dell’ Altopiano dei Sette Comuni i colpi di cannone delle artiglierie italiane anticiparono l’attacco degli austriaci, lasciandoli disorientati.
    Le artiglierie del Regio Esercito, appena dopo la mezzanotte, per quasi cinque ore spararono decine di migliaia di proiettili di grosso calibro, tanto che gli alpini che salivano a piedi sul Monte Grappa videro l’intero fronte illuminato a giorno sino al mare Adriatico.
    Ai primi contrattacchi italiani sul Monte Grappa, molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono.
    La mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci arrivando da Pieve di Soligo-Falzè di Piave, riuscirono a conquistare il Montello e il paese di Nervesa. La loro avanzata continuò successivamente sino a Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla possente controffensiva italiana, supportata dall’artiglieria francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade, pronte ad intervenire, in caso di bisogno.
    La Regia Aeronautica italiana mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare l’avanzata.
    Abbattuto con il suo aereo moriva il maggiore Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana.
    Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci il 15 giugno 1918 vennero bombardate incessantemente dall’alto e ciò comportò un rallentamento nelle forniture di armi e viveri. Ciò costrinse gli austriaci sulla difensiva e dopo una settimana di combattimenti, in cui gli italiani cominciavano ad avere il sopravvento, i nemici decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente partiti.
    Centinaia di soldati morirono affogati di notte, nel tentativo di riattraversare il fiume in piena.
    Nelle ore successive alla ritirata austriaca, il re Vittorio Emanuele III visitava Nervesa liberata e completamente distrutta dai colpi di artiglieria. Ingenti i danni alle antiche ville sul Montello e al patrimonio artistico della zona.
    Stessa cosa per Spresiano: completamente distrutta. Gli austro-ungarici nella loro avanzata arrivarono sino al cimitero di Spresiano, ma l’artiglieria italiana che sparava da Visnadello e i contrattacchi della fanteria italiana riuscirono a bloccarli.
    La mattina dell’attacco, sin dalle ore 4.00, dal suo posto di osservazione posto in cima ad un campanile di Oderzo, il comandante delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l’effetto dei proiettili oltre Piave.
    Le prime granate lacrimogene ed asfissianti ottenevano pochi risultati, grazie alle maschere a gas “inglesi” usate dagli italiani.
    Durante la Battaglia del Solstizio gli Austriaci spararono 200mila granate lacrimogene ed asfissianti. Sul fronte del Piave, quasi 6.000 cannoni austriaci sparavano sino a S. Biagio di Callalta e Lancenigo. Diversi proiettili da 750 kg di peso, sparati da un cannone su rotaia, nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza, colpendo Treviso.
    Dall’altra parte del fronte, i contadini portavano secchi d’acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni, che martellavano incessantemente le avanguardie del nemico e le passerelle poste sul fiume, per traghettare materiali e truppe. Il bombardamento delle passerelle fu determinante, in quanto agli austriaci vennero a mancare i rifornimenti, tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre Piave.
    Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il territorio di Caposile, per impedire agli austriaci ogni tentativo di avanzata. Dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano in continuazione per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà di Piave a Cavazuccherina. Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso.
    Gli Arditi, forti della fama che li accompagnava, ricacciarono gli austriaci sulla riva del Piave da cui erano venuti. Non facevano prigionieri e andavano all’attacco con il pugnale tra i denti, al punto che la loro presenza terrorizzava il nemico.
    La testa di ponte di Fagarè sulla direttiva Ponte di Piave-Treviso fu l’ultimo lembo sulla destra del Piave a cadere in mano italiana. La tentata offensiva austriaca si tramutò quindi in una pesantissima disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici persero quasi 150.000 uomini.
    La battaglia fu tuttavia violentissima e anche le perdite italiane ammontarono a circa 90.000 uomini.
    In tale situazione la battaglia del Solstizio era l’ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l’Impero, significò in pratica l’inizio della fine.
    Dalla battaglia del Solstizio, infatti, trascorsero solo quattro mesi prima della vittoria finale dell’Italia a Vittorio Veneto.(fonte)

    [14] Gaetano Giardino. Nacque a Montemagno (Asti) il 25 genn. 1864 da Carlo e da Olimpia Garrone.
    Entrato nell’esercito appena diciassettenne, fu nominato sottotenente nell’8° bersaglieri il 4 sett. 1882 e poi promosso tenente l’11 ott. 1885. A venticinque anni, come molti degli ufficiali più intraprendenti ed economicamente meno dotati, si recò nei nuovi possedimenti d’Africa che, nel 1890, avrebbero assunto il nome di Colonia Eritrea. Vi rimase insolitamente a lungo, sino all’estate del 1894.
    Colà si mise in evidenza per le sue doti organizzative e di preparazione professionale militare (nel 1893 compilò un regolamento d’istruzione tattica per le fanterie indigene). Il fatto d’armi più importante cui partecipò fu la presa di Cassala (17 luglio 1894): ne riportò una medaglia d’argento e, di fatto, la promozione a capitano (19 sett. 1894). Né la medaglia né l’esperienza sul campo accelerarono, però, più di tanto la sua carriera.
    Tornato in patria, dopo qualche tempo intraprese anche gli studi presso la scuola di guerra, dove riportò buone votazioni, passando dalla fanteria al corpo di stato maggiore. Ma la carriera continuava a scorrere, per il G. come per gran parte degli ufficiali del tempo, ugualmente lenta: la promozione a maggiore arrivò il 29 sett. 1904 e quella a tenente colonnello il 1° luglio 1910. A quella data svolgeva le funzioni di capo di stato maggiore della divisione di Napoli. La sede, probabilmente, insieme con la preparazione coloniale maturata in Eritrea, contribuì però alla sua fortuna. L’anno successivo, allestendosi la spedizione in Libia che proprio da Napoli doveva salpare, il G. vi partecipò come sottocapo di stato maggiore del corpo di spedizione.
    L’incarico non era di immediata visibilità, ma l’esperienza fu importante e non solo organizzativa. Il 4 genn. 1912, in un momento di stallo delle operazioni militari e in una fase di insoddisfazione da parte del presidente del Consiglio G. Giolitti e delle autorità politiche per la lentezza con cui procedevano le operazioni militari, il G. fu inviato a Roma dal comandante della spedizione, C.F. Caneva, per svolgere un’importante missione diplomatica, presentando le ragioni e le giustificazioni relative alla condotta del corpo di spedizione, e conferendo direttamente con le più alte cariche politiche. Al termine della riunione, anche se certo non solo per merito delle doti retoriche del G., un comunicato della Agenzia di stampa Stefani annunziava come, almeno per il momento, il governo fosse “pienamente d’accordo con il comandante in capo, nel quale ripone completa fiducia”.
    La doppia esperienza, coloniale e di stato maggiore, aveva irrobustito il carattere militare del G. e lo aveva spinto – come non pochi ufficiali del tempo – su posizioni politiche antigiolittiane. Negli anni successivi all’impresa di Libia arrivò la promozione a colonnello (4 genn. 1914) e l’incarico a capo di stato maggiore del IV corpo d’armata. Lo scoppio della Grande Guerra e la partecipazione a essa dell’Italia, ora guidata da A. Salandra e S. Sonnino, fornirono al G., cui si era aperta la via per la nomina a generale, l’occasione di un’ascesa sino a quel momento imprevedibile: da allora egli doveva diventare una delle figure più rilevanti, se non più influenti, dell’intera gerarchia militare e giocò, in qualche occasione, un ruolo politico di primo piano a livello nazionale.
    Tra il 1914 e il 1916 fu capo di stato maggiore della 2ª armata (con P.P. Frugoni), poi della 5ª, fra l’altro preparando il balzo oltre l’alto Isonzo e lo Iudrio. A riconoscimento dell’attività svolta, che incontrò il pieno favore del comandante supremo L. Cadorna – cui il G. fu da subito molto vicino -, arrivò la promozione a maggior generale (18 ag. 1915). Con quel grado, comandante della 48ª divisione, il G. si distinse nella presa di Gorizia, verso S. Marco e sul Vertoiba. Comandante del I corpo d’armata nel 1917, passò presto al XXIV.
    Il 5 apr. 1917 Cadorna lo nominava tenente generale. Apprezzamenti e critiche aumentarono, nell’ambiente militare, quando, in occasione della crisi parlamentare del giugno 1917, Cadorna lo propose come sostituto del ministro della Guerra P. Morrone, dimissionario.
    L’incarico ministeriale, dal 16 giugno (con la connessa nomina a senatore), aveva portato alla ribalta una figura di militare tecnico, estraneo ai giochi della politica, che a Cadorna doveva per intero la sua ascesa e che era, inoltre, intimamente convinto della bontà della tattica e della globale condotta della guerra da parte del comandante supremo. Nell’espletamento dell’incarico, a partire da quella delicata estate del 1917, il G. confermò questa immagine, cui si aggiunse qualcosa di più, a giudicare dalle vociferazioni di vaghi progetti, più che veri e propri piani, di un complotto finalizzato ad arrestare V.E. Orlando per mettere il G. a capo di un governo “militare” ispirato da Cadorna. Fatto sta che, forse non a caso, lo stesso B. Mussolini su Il Popolo d’Italia aveva esplicitamente espresso simpatia per l’operato del G. come ministro.
    In questo clima politico, pochi giorni prima del fatale 24 ottobre, il G. affermò dal suo scranno ministeriale che il fronte era sicuro e che non si prevedevano attacchi nemici di rilievo forse sino alla primavera successiva. All’indomani della rotta di Caporetto il governo Boselli si dimise (il G. ricevette fra l’altro il saluto e il ringraziamento del Popolo d’Italia).
    Come ebbe a dichiarare qualche mese più tardi alla commissione d’inchiesta su Caporetto, per il G. – come del resto per Cadorna -, le motivazioni dell’episodio andavano ricercate nel cedimento morale delle truppe, dovuto al disfattismo provocato dal fronte interno. A chi, come F. Martini, lo avvicinò nei mesi immediatamente successivi alla rotta il G. parve preoccupato per il “profondo disprezzo in cui il nemico che tante volte vincemmo oggi ci tiene” (4 nov. 1917) e per il fatto che all’interno dell’esercito “i sobillamenti continuano” (30 nov. 1917), e pronto a criticare, o quanto meno a lasciare criticare, il nuovo comandante supremo A. Diaz (18 genn. 1918). Tanta verbosità critica, però, non ingannava un fine conoscitore come il giornalista L. Barzini il quale, scrivendo a G. Albertini, così liquidava il G.: “mi pare debole” (12 nov. 1917).
    Ma Caporetto (nella cui “preparazione” il G., in effetti, non aveva responsabilità dirette se non quelle politiche generali in quanto ministro) non lo fermò: dopo l’allontanamento di Cadorna il G. divenne vicecapo di stato maggiore (con P. Badoglio secondo vicecapo), rappresentando la continuità con il passato cadorniano (ed esiste una documentazione secondo cui il Consiglio dei ministri valutò anche l’ipotesi di sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, nominando vicecapi di stato maggiore Diaz e il Giardino).
    Da subito gli spazi di manovra non furono ampi per il G. che, peraltro, dovette trovarsi a disagio nel nuovo comando supremo che tanto voleva differenziarsi dal precedente, a lui così caro. Inoltre Badoglio, pur più giovane, assunse su di sé l’intero compito di riorganizzazione dell’esercito.
    Avvenne, dunque, che il G., già nel febbraio 1918, fosse allontanato dal comando supremo e inviato a Parigi per sostituire Cadorna come rappresentate italiano presso il Consiglio militare interalleato: incarico formalmente di grande prestigio, ma i cui i margini d’azione erano, ancora una volta, assai ristretti (e non a caso presentò le sue dimissioni appena un paio di mesi più tardi). Al ritorno in Italia il G. assunse l’incarico militare cui doveva restare definitivamente legata la sua immagine negli anni a venire: il comando dell’armata del Grappa, con il controllo di uno dei punti più delicati dell’intero fronte italiano. La 4ª armata, a lui affidata, non solo giocò un ruolo di rilievo nel tenere la posizione strategica assegnatale, ma seppe reagire all’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 (che in un primo momento aveva rischiato di metterla in ginocchio); quindi, consolidato il proprio morale nei mesi successivi, partecipò, pagando un alto prezzo, alla finale “battaglia” di Vittorio Veneto.
    Nelle settimane immediatamente precedenti il presidente del Consiglio Orlando, nelle more frapposte da Diaz all’offensiva finale, aveva pensato di sostituire Diaz con il G.; poi, verso il 19 ottobre, aveva sollecitato direttamente quest’ultimo a non tardare a prendere l’offensiva nel suo settore, temendo che la guerra potesse concludersi senza una vittoria italiana sul campo.
    Oltre alla strategia e alla tattica militari vere e proprie, il G. reinterpretò a suo modo, con una forte dose di paternalismo militaresco, il nuovo corso postcadorniano nel trattare la truppa, sviluppando una potente, spregiudicata e durevole retorica populista sui “suoi soldatini” dell’armata del Grappa: una retorica al solito assai apprezzata anche da Mussolini, che ne scriveva compiaciuto sul Popolo d’Italia già il 29 giugno 1918. Inoltre, una parte dell’opinione pubblica liberale e conservatrice guardava a lui come a uno dei migliori fra i generali italiani che avevano condotto la guerra.
    Il dopoguerra consacrò definitivamente la figura del G., ormai assurto ai più alti vertici della gerarchia militare (il 21 dic. 1919 fu nominato fra i cinque generali d’esercito), componente di quell’aeropago militare che era il Consiglio d’Esercito (istituito il 25 luglio 1920), nonché comandante designato d’armata.
    Tale notorietà – in fondo dovuta al comandante del Grappa e a uno dei generali di Vittorio Veneto, e comunque ribadita dal G. con i suoi frequenti, e spesso roboanti, interventi in Senato – non era sempre accompagnata per la verità da programmi chiari, carenza cui il G. sopperiva, nel clima d’incertezza del dopoguerra, con una costante intonazione autoritaria e antiprogressista, quando non proprio filofascista. Ma più ancora dell’adesione a uno schieramento politico, era la sua piena adesione alle più retrive e chiuse tradizioni militari a connotarlo. Nell’ambiente militare, però, questo era un titolo di merito tanto che, nel giugno 1921, si parlò di lui come di un possibile ispettore di fanteria (una carica tecnica inferiore solo a quelle di ministro della Guerra e di capo di stato maggiore).
    Altro segno del suo prestigio e dell’importanza che gli veniva attribuita è il frequente ricorrere del nome del G. in gran parte, se non in tutte, le voci di complotto e di colpo di Stato che, fra 1919 e 1922, andarono diffondendosi in Italia. Di fatto è difficile pensare a un G. – il quale, per quanto assai critico della politica liberale era pur sempre un militare di antica tradizione – che architetta complotti in prima persona. Più probabile che egli venisse coinvolto, e fosse lusingato dal farsi coinvolgere, in progetti altrui: lo stesso Mussolini scriveva a G. D’Annunzio, il 25 sett. 1919, favoleggiando di un colpo “repubblicano” che avrebbe dovuto “dichiarare decaduta la monarchia” sostituendola con un direttorio composto dal vate, dal G., da E. Caviglia e da L. Rizzo. Più in generale, comunque, il nome del G. era un punto di riferimento per i fascisti più oltranzisti, insieme con quelli del duca d’Aosta, di Caviglia e di P. Thaon di Revel.
    All’epoca della marcia su Roma il G. era comandante di armata di Firenze, nel cui territorio era compresa la capitale, ed è quindi probabile che il re lo abbia contattato (sia pur telefonicamente) per saggiare le reazioni dell’esercito. L’ascesa al governo di Mussolini gli fruttò subito un primo incarico pubblico, a riprova dei contatti precedenti: un’inchiesta sullo stato della guardia regia, che il capo del fascismo voleva abolire. Il che avvenne proprio sulla base dei risultati dell’inchiesta dal G. condotta in poche settimane. Fra tutti quelli assegnatigli dal nuovo governo il ruolo di maggior prestigio fu, comunque, quello di governatore della città di Fiume, ricoperto in un momento delicato, prima della definitiva annessione della città all’Italia (dal 17 sett. 1923 sino al maggio 1924), e che prevedeva il compito di “tutelare l’ordine pubblico” mentre si riavviavano le trattative diplomatiche con la Jugoslavia. Nel 1924 il G. fu nominato ministro di Stato.
    In seguito, però, intervennero rapporti meno idilliaci: nell’autunno-inverno 1924-25, quando il governo manifestò l’intenzione di mettere in pericolo la tradizionale autonomia dell’esercito, si verificò una crisi di notevoli proporzioni nei rapporti fra fascismo e forze armate, segnatamente in seguito al tentativo di far approvare il progetto di ordinamento militare (che dal proponente ministro A. Di Giorgio prendeva nome) e il disegno istitutivo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN). In questa circostanza il G. assunse un ruolo di assoluto rilievo e le argomentazioni da lui svolte in Senato e nel Consiglio d’Esercito contribuirono senz’altro a far ritirare il primo progetto e a ridimensionare il secondo.
    Durissimi furono i discorsi del G. contro Di Giorgio, prima in Consiglio d’Esercito (settembre-novembre 1924) poi in Senato (31 gennaio, 30 marzo e 2 apr. 1925), e contro il disegno sulla MVSN (4 dic. 1924), al punto da costringere Mussolini (discorsi del 5 e del 9 dic. 1924) a repliche dure rivolte personalmente al G.; in realtà questi, che pure così veementemente lo aveva contestato, non pare abbia mai seriamente osteggiato il governo fascista. Ritirato l’ordinamento Di Giorgio e ridimensionate le pretese sulla MVSN, gli stessi documenti parlamentari testimoniano che il G. si avvicinò a Mussolini affermando “Eccellenza, Lei ha salvato l’esercito!” (2 apr. 1925).
    Da allora, a livello politico e personale, Mussolini e il regime furono prodighi di onori al G.: gli affidarono incarichi formali di prestigio (in Senato relazionò sulla legge di ordinamento militare che seppellì l’ipotesi Di Giorgio, 1° marzo 1926) e fu nominato, come Cadorna e Diaz, maresciallo d’Italia (17 giugno 1926), grado che sostituiva il precedente di generale d’esercito. Ma di fatto non fu più preso seriamente in considerazione per cariche di reale peso politico. Consapevole di aver perso un suo ruolo e di aver favorito la nascita e l’assestamento di un regime che lo metteva ora da parte pur coprendolo di allori, il G., nel 1927, si ritirò a Torino.
    Nel dicembre 1929 riceveva il prestigioso collare dell’Ordine dell’Annunziata e, a parte qualche mugugno (se c’è da credere al Diario di Caviglia almeno in qualche occasione avrebbe criticato Mussolini), si adattò col tempo al ridimensionamento del suo effettivo ruolo pubblico. Peraltro, da qualche tempo la sua figura era andata appannandosi anche all’interno del mondo militare: il comandante del Grappa (al pari di molti altri suoi coetanei e colleghi) non teneva il passo con le innovazioni militari, rimanendo fermo alla difesa della dottrina militare della Grande Guerra, come sostenne anche in Rievocazioni e riflessioni di guerra (I-III, Milano-Verona 1929-30).
    Su un punto, però, il G. poteva svolgere, e svolse, un ruolo che corrispondeva contemporaneamente alle sue propensioni populistico-autoritarie, al personale desiderio di autoglorificazione e alle necessità propagandistiche del regime: la creazione e il mantenimento del mito delle battaglie del Grappa (dove aveva pubblicamente espresso il desiderio di essere sepolto); quale ex comandate dell’armata del Grappa, egli svolse un ruolo decisivo anche nelle scelte relative alla costruzione del sacrario, consacrato il 22 sett. 1935 alla presenza del re, e nei periodici raduni di massa colà tenuti.
    Forte del seguito ottenuto da queste operazioni, fondamentali ai fini dell’organizzazione di un consenso al fascismo quale regime uscito dalla Grande Guerra, il G. difese accanitamente, in parte fondandosi su documenti e in parte anche travalicandoli, l’operato della sua 4ª armata contro chiunque volesse ridimensionarlo o annullarlo. Peraltro, di norma, a parole il G. non affrontava mai la questione in termini di difesa personalistica ma la presentava in forma populistica, affermando di voler reagire a tutte le “affermazioni lesive dei miei soldati del Grappa”.
    Il G. morì a Torino il 21 nov. 1935.(fonte)

    [15] Pietro Badoglio. Nacque a Grazzano Monferrato (prov. di Asti; oggi Grazzano Badoglio) il 28 sett. 1871 da Mario e Antonietta Pittarelli, modesti proprietari di campagna. Entrato all’Accademia di artiglieria e genio di Torino, il 16 nov. 1890 fu nominato sottotenente di artiglieria. Frequentò, la Scuola di applicazione, e il 7 ag. 1892 fu promosso tenente e assegnato al 19° reggimento di artiglieria da campagna, ove restò per quasi quattro anni, prima a Livorno e successivamente a Firenze.
    Nel dicembre 1895, alla notizia dell’eroico sacrificio del battaglione Toselli sull’Amba Alagi, il B. chiese di andare volontario in Africa.
    Assegnato alla 6ª batteria da montagna, s’imbarcò a Napoli. A Porto Said apprese la notizia della grave rotta di Adua; ormai al gen. Baldisserra non sarebbe spettato che di coprire l’Eritrea e liberare il presidio del forte di Adigrat, che eroicamente ancora vi si sosteneva. Il 4 maggio 1896, infatti, il forte era raggiunto dal corpo di spedizione, che poi ripiegava sulla colonia e in gran parte rimpatriava. Rimasero in Africa due battaglioni e due batterie, una delle quali era la 6ª; il B. restò in Eritrea per oltre due anni nel presidio di Adi Caieh, a 2500 metri di altitudine in una zona arida e desolata, dirigendo le esercitazioni delle truppe e i lavori di fortificazione.
    Tornato in Italia, nel settembre 1899 entrò nella Scuola di guerra, dove conseguì brillantemente il diploma il 23 ag. 1902. Il 13 luglio 1903 fu promosso capitano e assegnato al 12° reggimento di artiglieria da fortezza, a Capua. Frequentò però a Roma il corso di addestramento per lo Stato Maggiore, ottenendovi, il 16 nov. 1905, il diploma di idoneità. Dopo un anno di permanenza al corpo a Bari, tornò stabilmente a Roma, al ministero della Guerra, nella divisione dello Stato Maggiore, ove si rivelò ufficiale intelligente e attivo, benché alquanto duro e riservato. Collaborava intanto con articoli di organica militare alla rivista La Preparazione, diretta dal colonnello E. Barone.
    Nell’ottobre 1911 il B. ricevette l’ordine di partire per la Libia, e s’imbarcò con le truppe dell’intendenza. Ai primi di novembre, dopo la rivolta araba e l’episodio di Sciara Sciàd, nuove poderose forze furono mandate a Tripoli e, ad affiancare l’opera del gen. C. Caneva, che aveva oltre al comando del corpo di spedizione anche le mansioni di governatore, giunse dall’Italia il gen. P. Frugoni, il quale chiamò il B. a far parte del suo Stato Maggiore. Essendo rientrato in Italia il capo di Stato Maggiore del corpo d’armata, il B. ne assunse le funzioni.
    In questa carica contribuì notevolmente alla preparazione dell’operazione contro l’oasi di Zanzùr, a occidente di Tripoli, rimasta un pericoloso centro di forze nemiche lungo la costa, notevolmente rafforzatosi con opere semipermanenti. L’azione, ben coordinata, si risolse in un brillante successo: il B. fu promosso maggiore per merito di guerra e in seguito venne decorato di medaglia di bronzo al valor militare.
    Tornato in patria, fu assegnato al 3° reggimento di artiglieria di assedio, a Roma, con il comando di un gruppo di artiglieria e una compagnia di allievi ufficiali. Il 25 febbr. 1915 venne promosso tenente colonnello di Stato Maggiore. In vista dello scoppio delle ostilità contro l’Austria, il gen. Frugoni, comandante della 2ª armata, destinata a operare sul medio e alto Isonzo, lo volle nuovamente presso di sé; ma dopo alcuni mesi il B. passava come capo di Stato Maggiore alla 4ª divisione, dislocata, agli ordini del gen. L. Montuori, nella zona di Gorizia.
    Il campo trincerato austriaco constava di due parti fondamentali: la linea avanzata sulla destra dell’Isonzo, costituente la testa di ponte coi due caposaldi del Sabotino e del San Michele, e quella arretrata, appoggiata da un lato al Monte Santo e al San Gabriele, dall’altro all’Hermada. Dopo i sanguinosi e vani tentativi del ’15 sul medio e basso Isonzo, il Cadorna aveva deciso di concentrare lo sforzo contro i due pilastri del Sabotino e del San Michele, cominciando dal primo. A questo fine bisognava innanzitutto rinnovare completamente i procedimenti di attacco e sistemare le linee difensive sul Sabotino, che erano, ancora alla fine del novembre 1915, in condizioni assolutamente insufficienti per un minimo di sicurezza. Il monte era infatti preso d’infilata dalle artiglierie nemiche e già era costato molte perdite.
    Nel febbraio 1916 il B. accettò l’incarico di presiedere ai lavori sul Sabotino. Questi lavori procedettero così speditamente da arrivare, con due trincee, da oltre mille metri di distanza dalle posizioni austriache, a ottanta metri, con molti camminamenti scavati nella roccia e numerose caverne. Il 10 maggio 1916 il B. era promosso colonnello e, su richiesta del gen. L. Capello, comandante del VI corpo d’armata davanti alla testa di ponte di Gorizia, nominato suo capo di Stato Maggiore. Il B. tuttavia tornava spesso a ispezionare i lavori del Sabotino. Alla fine di luglio il monte poteva essere considerato come esempio classico di fortificazione campale e di preparazione offensiva del terreno. Il 6 agosto il B. diresse l’azione di una delle due colonne di attacco che conquistarono rapidamente la cima del monte, procedendo nella loro offensiva fin quasi alla riva dell’Isonzo. Il B. tornò poi al suo posto di capo di Stato Maggiore del VI corpo e il 27 agosto fu promosso maggior generale per merito di guerra. Passò quindi al comando di artiglieria del corpo d’armata, e poi, a metà settembre, trasferito il Capello sugli Altopiani, assunse, dietro sua richiesta, il comando della brigata Cuneo, nel tormentato settore di Sober, a sud-est di Gorizia, sulla sinistra della Vertoibizza.
    In vista dell’offensiva della primavera 1917 il Cadorna il 4 aprile creava il comando della “zona di Gorizia”, affidandolo al Capello, il quale tornava a volere il B. come suo capo di Stato Maggiore.
    La direttrice strategica era la valle del Vippacco, ma accompagnata dal possesso delle alture di destra e di sinistra, ossia degli altopiani della Bainsizza e Ternova da un lato e dell’orlo settentrionale del Carso e dell’Hermada dall’altro. Poiché le riserve nemiche gravitavano sul Carso, compito della “zona di Gorizia” era di iniziare l’azione e cedere poi molte sue artiglierie pesanti alla 3ª armata. Per aggirare il baluardo naturale della Bainsizza prospiciente l’Isonzo, il Capello aveva pensato di forzare il fiume a nord con manovra a largo raggio, ma ritenendo poi di non disporre di forze sufficienti, limitò l’azione a un diversivo, facendo pertanto agire frontalmente le divisioni della “zona di Gorizia”. Cominciato il bombardamento il 12 maggio, parve al Capello che il comandante del II corpo non fosse abbastanza efficiente, e il 13 lo sostituì interinalmente con il B., che, maggior generale, si trovò ad avere alle sue dipendenze tre tenenti generali e un brigadiere. Il 15 maggio, dopo aspra lotta, era preso il Kuk, e si procedeva contro il Vodice. Dopo una sospensione voluta dal Cadorna per operare sul Carso, il Capello otteneva di continuare l’azione, sia pure con artiglierie diminuite, e così il 18 anche la cima del Vodice era conquistata. La “zona di Gorizia” aveva richiamato su di sé tre divisioni austriache. Cominciava allora la serie dei furibondi contrattacchi austriaci, e la battaglia assumeva un aspetto di tipo carsico, sino a che il 28 maggio il Cadorna ordinava la cessazione delle operazioni. Il 14 giugno il B. era proposto per l’avanzamento straordinario per merito di guerra e gli era confermato l’incarico del grado superiore: continuava così a restare al comando del II corpo, che, soppressa il 1° giugno la “zona di Gorizia”, tornava ad appartenere alla 2ª armata. Quale sviluppo della decima battaglia dell’Isonzo si aveva nell’agosto 1917 l’undicesima, detta della Bainsizza.

    Il Capello, di sua iniziativa, fece dell’azione complementare sul rovescio di Tolmino l’operazione principale: ma proprio l’azione contro le alture di Tolmino, compiuta dalla destra del XXVII corpo, naufragava per prima, e falliva. poteva considerarsi il 21 agosto anche l’azione sul Carso. Tuttavia, al centro il XXIV corpo comandato da E. Caviglia avanzava, mentre alla sua destra il B. con le tre divisioni del II corpo vincolava più di due divisioni austriache. Ma invece di concentrare gli sforzi al centro, il Capello s’intestava contro le alture di Tolmino: esonerava il comandante del XXVII corpo e, il 22 agosto, in piena battaglia, poneva al suo posto il B., che, essendosi gli Austriaci rinforzati da quel lato, poté ottenere però solo qualche successo locale. Comunque il 23 agosto gli era confermata la promozione straordinaria per merito di guerra a tenente generale e il 14 ottobre aveva il comando effettivo del XXVII corpo d’armata che aveva finito per trovarsi a cavaliere dell’Isonzo, con tre divisioni sulla sinistra dei fiume e una, più grossa, sulla destra.
    Si avvicinava intanto il turbine della grande offensiva tedesco-austriaca sull’Isonzo, in un momento di particolare stanchezza per l’esercito italiano.
    Il 18 sett. 1917 il Cadorna ordinava alla 2ª e 3ª armata di concentrare ogni attività nei preparativi per la difesa ad oltranza, ma, credendo poco a una grande offensiva nemica in un settore montano con la stagione avanzata, non prendeva le misure di sua spettanza, quali la costituzione di una riserva strategica sul medio Tagliamento e l’emanazione di precise norme sulla condotta della battaglia difensiva. Lasciava perciò praticamente mano libera al Capello, che intendeva, appena arginato l’impeto nemico, sferrare una controffensiva dalla Bainsizza a continuazione dell’offensiva fallita nell’agosto. Solo il 19 ottobre, avuta piena coscienza dell’imminente offensiva nemica, il Cadorna prescriveva tassativamente la difesa ad oltranza: il provvedimento era però tardivo e l’offensiva nemica coglieva l’esercito italiano in piena crisi di schieramento, con l’artiglieria priva di una sicura dottrina difensiva. La pressione nemica si ebbe il 24 ottobre principalmente proprio all’ala sinistra del XXVII corpo d’armata, comandato dal B., e qui si verificarono le due penetrazioni decisive, quella della 12ª divisione slesiana da Tolmino fin oltre Caporetto, grazie alla quale il contiguo IV corpo fu preso alle spalle, e la penetrazione dell’Alpenkorps tedesco sulle alture fronteggianti Tolmino, per cui fu scardinato il VII corpo posto come difesa arretrata e aggirato il caposaldo italiano dello Jeza. Davanti a Tolmino mancò quasi il tiro di contropreparazione e poi quello di sbarramento. Il B. in quella triste giornata restò tagliato fuori dalle sue truppe, cercando invano di raggiungere la sede del comando della sua artiglieria, e solo alle 16 fu in grado di rendersi parzialmente conto della situazione. I suoi difensori hanno voluto vedere in lui, in seguito, soprattutto la vittima della disobbedienza del suo superiore e maestro, il Capello, che avrebbe voluto sferrare la controffensiva proprio all’estrema ala destra del corpo di B., e che era assertore del semplicistico principio del tiro di sbarramento all’ultimo momento. Sta di fatto che, a differenza degli altri generali, il B., che pure in seguito scrisse a lungo sull’opera propria in altre circostanze, sul 24 ott. 1917 nulla scrisse, né ha lasciato alcun documento, sebbene l’argomento riguardasse anche l’onore e il prestigio di vari altri generali, fra cui il suo protettore Capello, e il buon nome del soldato italiano.
    A sera il B. per vie traverse si portava nella zona del Globokak, importante altura alla testata della valle dello Judrio, per la difesa della quale il Capello gli aveva già assegnato la 47ª divisione bersaglieri; intanto le divisioni del XXVII corpo rimaste oltre l’Isonzo passavano agli ordini del gen. Caviglia. Venuto l’ordine di portare la difesa su una linea che andava dal Monte Maggiore al Kuk-Vodice, anche il B. retrocedeva e con il suo corpo d’armata, ricostituito con la 47ª divisione più la brigata Taranto e alcuni battaglioni d’assalto, ebbe il compito di difendere il tratto Judrio-monte Corada. Ma il 27 ottobre sopraggiungeva l’ordine di ritirata al Tagliamento e il nemico entrava in Cividale. La divisione bersaglieri, separata dal resto, si aggregò alle truppe di Caviglia; il XXVII corpo veniva quindi ricostituito per la seconda volta, dietro il Torre, con la 13 divisione al posto della 47ª. Il 28, superata anche la debole linea dietro il Torre, gli Austriaci giungevano a Udine. Il B. con due battaglioni di arditi e poche altre truppe ripiegò a nord-ovest verso San Daniele, mentre il resto del XXVII corpo si dirigeva a ovest verso Codroipo. Con le poche forze rimastegli il B. contribuì alla difesa sul canale di Ledra e poi a quella della testa di ponte di San Daniele, assieme alla cavalleria e ai bersaglieri ciclisti, e il 30 ottobre passava dietro il Tagliamento.
    L’8 novembre il Cadorna era sostituito nella carica di capo di Stato Maggiore dal gen. A. Diaz, con il gen. G. Giardino quale sottocapo, ma due giorni dopo veniva nominato un secondo sottocapo nella persona del Badoglio.
    Quest’ultima nomina non destò sulle prime meraviglia: l’infelice bollettino di Cadorna dei 28 ottobre rovesciava tutta la colpa dell’improvvisa rotta sulle truppe, e il disastro nella sua stessa fulmineità e gravità non lasciò dapprima discernere le singole responsabilità. Per di più proprio il XXVII corpo, rimesso in sesto per la terza volta, non fu sciolto come tanti altri; il B. inoltre ebbe una medaglia d’argento per la difesa di San Daniele. La sua nomina si dovette a L. Bissolati, che già al tempo della conquista del Kuk e del Vodice, parlando con il direttore della Tribuna O. Malagodi, aveva definito il B. “soldato splendido, mio vecchio amico”.
    Entro il triumvirato, nelle cui mani erano poste le sorti d’Italia oltreché dell’esercito, il B. si occupò con lena instancabile e in modo veramente egregio soprattutto della parte organizzativa: lavoro immane quando si pensi che l’esercito era letteralmente dimezzato e che in quattro mesi vennero ricostituite 50 brigate di fanteria e 409 batterie. A metà febbraio 1918 il Giardino lasciava il Comando supremo e unico sottocapo di Stato Maggiore restava il B., che fu veramente il braccio destro di Diaz, tanto che, quando la Commissione d’inchiesta su Caporetto chiese di averlo a disposizione, il Diaz si oppose, non volendo privarsi di un così valido collaboratore in vista della grande offensiva austriaca. Il B. seppe far tesoro dell’esperienza dolorosa dell’ottobre: ebbe parte notevole nel definire i criteri per la nuova sistemazione difensiva del terreno e per l’impiego dell’artiglieria e delle mitragliatrici nell’azione difensiva. Dopo la battaglia del Piave, veniva elevato (27 giugno 1918) al rango di comandante d’armata per merito di guerra. Anche nella preparazione della battaglia di Vittorio Veneto ebbe una parte importante. Presiedette infine la commissione d’armistizio e, di fronte ai tentativi dilatori degli Austriaci, mostrò dignitosa energia. Per la sua opera dal novembre 1917 al novembre 1918 fu creato cavaliere di gran croce dell’Ordine Militare di Savoia e il 24 febbr. 1919 venne nominato senatore.
    Nel marasma del dopoguerra il B. si trovò a partecipare in primo piano alle vicende della questione adriatica. Per ordine del presidente del consiglio Nitti aveva assunto nell’estate il comando dell’8ª armata e si era trasferito a Udine; dopo l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio, veniva nominato commissario straordinario nella Venezia Giulia (14 novembre). Era suo compito impedire altri pronunciamenti militari e un ulteriore inasprimento della già difficile situazione. E realmente seppe agire con tatto, valendosi dell’influenza che aveva sul poeta; ma, desiderando levarsi presto da quel ginepraio, il 24 novembre accettava la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito, in sostituzione di A. Diaz, ritiratosi per motivi di salute. Tre giorni prima era stato promosso generale d’esercito per merito di guerra.
    Nella nuova veste dovette affrontare la grave questione del riordinamento dell’esercito secondo l’esperienza del grande conflitto e nell’ambito della nuova situazione politica: questione che suscitava dissensi profondi fra conservatori e democratici e che portò il B. ad urtarsi col ministro della Guerra I. Bonomi. Il 3 febbr. 1921 si dimetteva dall’alta carica, rimanendo soltanto membro del Consiglio dell’esercito, organo consultivo allora creato. Era inviato quindi in Romania per decorare le città di Bucarest, Jaşi e Galati, e i sovrani dello Stato amico; a fine giugno partiva per una missione negli Stati Uniti, per esprimere la riconoscenza dell’Italia verso i suoi figli in America, che tanto patriottismo avevano mostrato durante la guerra, e per far conoscere oltre Oceano il grandioso sforzo compiuto allora dal nostro paese.
    Intanto il movimento fascista prendeva vigore. Dapprima il B. l’aveva guardato con una certa indulgenza, ma poi il dilagare delle violenze e la rumorosa adesione ad esso da parte di Capello l’avevano reso diffidente e quasi ostile. Alla vigilia della marcia su Roma, nell’ottobre del ’22 interpellato dal Facta, il B. dichiarò che con dieci o dodici arresti al massimo il governo avrebbe potuto stroncare tutto il movimento. Rimase quindi per oltre un anno in disparte, sino a che, alla fine del 1923, compì il primo accostamento al fascismo, accettando la carica di ambasciatore straordinario in Brasile. Restò in quella sede per un anno e mezzo, ma già nel giugno ’24, quando l’Italia fu scossa dal delitto Matteotti, egli inviava un telegramma di netta solidarietà a Mussolini. Questi, dopo essersi posto decisamente sulla via della dittatura con il discorso del 3 genn. 1925, non tardò a chiamare a sé il B. nominandolo capo di Stato Maggiore generale (4 maggio). Continuavano più che mai le polemiche sul riordinamento dell’esercito, e il compromesso tra conservatori e democratici tentato dal ministro della Guerra, gen. A. Di Giorgio, aveva suscitato un vespaio fra gli stessi militari. Mussolini, riuniti nelle sue mani i tre ministeri militari, con tre docili sottosegretari, intendeva creare le forze armate dell’Italia fascista e valersi dello stesso B. come semplice strumento. Tanto più che il 7 nov. 1925, fallito l’attentato Zaniboni con la rovina del gen. Capello, passato ormai all’antifascismo militante, il B. aveva nuovamente espresso a Mussolini la propria solidarietà.
    Cominciava così il grande equivoco, destinato a protrarsi per quindici anni e in forma sempre più grave dopo il 1936, fra il B., che in fondo non era fascista, ma si considerava la più alta personalità militare italiana e, non rassegnandosi a restare in disparte, si adattava ad accomodamenti sempre meno sinceri, e Mussolini, sempre più intollerante di ogni obbiezione. Dal canto suo il re, sempre più esautorato da Mussolini, cercava di tenere il B. legato a sé.
    Tra il 1926 e il 1929 si verificava un progressivo esautoramento di B. a vantaggio delle velleità militari di Mussolini, ma accompagnato da un contemporaneo crescendo di onorificenze. L’11 maggio 1926 si aveva l'”ordinamento Mussolini” dell’esercito; in compenso quindici giorni dopo il B. era creato maresciallo d’Italia. Il 6 febbraio del 1927 il capo di Stato Maggiore generale veniva ridotto come dice il decreto di nomina a consulente tecnico del Capo del Governo per quanto concerne la coordinazione e la sistemazione difensiva dello Stato e i progetti di operazione in guerra; e colle attribuzioni, in tempo di guerra, che saranno stabilite per la sua carica dal Governo”. Il 12 giugno 1928 però il re nominava il B. marchese del Sabotino. Si era intanto acuito l’attrito con il sottosegretario gen. Cavallero; alla fine di quell’anno Mussolini nominava il B. governatore della Tripolitania e Cirenaica, pur lasciandogli la carica di capo di Stato Maggiore generale, e il 6 genn. 1929, poco prima che partisse per Tripoli, il re lo creava cavaliere dell’Ordine della SS. Annunziata.
    Si trattava di completare la riconquista e la sottomissione della Libia. Dopo il successo dell’azione condotta nel Fezzan dal gen. R. Graziani, fra il dicembre 1929 e il febbraio 1930, grazie soprattutto all’aviazione, il B. poteva volgere l’attenzione alla Cirenaica, ove nominava vicegovernatore lo stesso Graziani. Alla fine del 1930, con metodi durissimi, anche la Cirenaica era sottomessa e nel gennaio 1931 riconquistata l’oasi di Cufra. Il B. si dedicava quindi all’opera di riordinamento e di colonizzazione. Il 4 febbr. 1934 lasciava definitivamente la Libia.
    Lasciati nel 1929 i ministeri militari, Mussolini ne riprendeva i portafogli in vista della conquista dell’Etiopia. Nel periodo 1929-33 era stata allestita una nuova aviazione e iniziato il rinnovamento del naviglio di guerra, ma l’esercito era rimasto nelle vecchie condizioni di preparazione. Gravissimo si presentava in particolare per una azione in Etiopia il problema logistico, mentre di fronte all’ostilità della Società delle Nazioni sarebbe stato necessario invece agire con grande celerità, sia per presentare il fatto compiuto, sia per non essere sorpresi dalla stagione delle piogge. Per questi motivi il B. era contrario all’impresa; seguì però tutti i preparativi e compì anche un viaggio in Eritrea. Mussolini avrebbe desiderato che l’impresa fosse attuata da un generale fascista, il quadrumviro De Bono, che in effetti il 3 ott. 1935 iniziava le ostilità con l’occupazione di Adigrat, Adua e Axum, e, dopo una necessaria sosta, Macallè (8 novembre). Ma, per il suo procedere, troppo lento agli occhi di Mussolini, fu sostituito dal Badoglio.
    Questi il 30 novembre sbarcava a Massaua, trovandovi una situazione non favorevole, ad onta dello sforzo grandioso dei mesi precedenti. Mentre gli Italiani si erano spinti avanti per centinaia di chilometri, gli Abissini avevano compiuto la mobilitazione e la radunata prima del previsto e, contro le loro precedenti abitudini, prendevano l’iniziativa dell’offensiva, tendendo a tagliare la lunga linea di operazione italiana con una duplice azione sul fianco destro, l’una a raggio ristretto, l’altra ad amplissimo raggio; contemporaneamente una grossa massa avanzava frontalmente. Molto saggiamente il B., lungi dal proseguire nell’avanzata, decise di prolungare la sosta per migliorare tutta la sistemazione logistica e tattica, e chiese altre due divisioni in rinforzo alle sette già sul posto. Gliene furono mandate tre, mentre altre due divisioni rafforzavano il fronte somalo. La situazione delle forze contrapposte era pertanto ben diversa da quella del 1895-1896, allorché 20.000 Italiani fronteggiavano 100.000 Abissini: adesso di fronte ai 215-000 Abissini, con pochi cannoni e senza aviazione, l’Italia allineava 200.000 uomini con 750 cannoni, 7000 mitragliatrici e 350 aerei. L’azione abissina a largo raggio, stante l’opportuno ripiegamento del II corpo italiano fino ad Axum, si risolveva alla fine di dicembre in una puntata nel vuoto; quella a raggio più ristretto era fermata con la prima battaglia del Tembièn. Dopo tre mesi di sosta, gli Italiani, sicuri sul fianco destro, riprendevano l’offensiva: con la battaglia dell’Amba Aradam (11-15 febbr. 1936) il B., con duplice azione convergente, sostenuta validamente dall’aviazione e da opportuni concentramenti d’artiglieria, annientava la massa principale nemica, composta di 80.000 uomini, di fronte a Macallè; quindi con abili mosse combinate annientava successivamente le due masse ancora impegnate nell’azione avvolgente, mentre il 28 febbraio sulla principale direttrice di marcia occupava l’Amba Alagi. Dopo un altro periodo di sosta il B. riprendeva ad avanzare e il 31 marzo sbaragliava presso il lago Ascianghi la guardia del corpo del negus. Intanto dalla Somalia avanzava vittorioso il gen. Graziani e il negus fuggiva imbarcandosi a Gibuti. Il 5 maggio il B. entrava in Addis Abeba alla testa di una spedizione autocarrata, partita da Dessiè dodici giorni prima.
    Proclamato l’impero il 9 maggio, il B. fu nominato viceré d’Etiopia e l’11 duca di Addis Abeba; ma lasciò subito il posto al gen. Graziani per rientrare in Italia e riprendere le sue funzioni di capo di Stato Maggiore generale. Roma gli conferì la cittadinanza onoraria e il partito fascista gli dette la tessera ad honorem. Nell’ottobre dello stesso 1936 il B. narrava gli avvenimenti d’Etiopia nel volume La guerra d’Etiopia, edito a Milano, che recava una prefazione di Mussolini.
    Nel settembre 1937 il B. succedette a G. Marconi nella presidenza del Consiglio delle ricerche, venendo così a trovarsi a capo del Comitato nazionale per l’indipendenza economica e della Commissione per gli studi sulle materie fondamentali per la difesa. Ma le sue fortune cominciavano a declinare. Il 30 marzo 1938 Mussolini annunziava al senato che la guerra futura sarebbe stata guidata da lui solo, e poco dopo si faceva proclamare dalla Camera e dal Senato, insieme con il re, primo maresciallo dell’Impero, suscitando lo sdegno, senza conseguenze, del sovrano e del Badoglio. In realtà, Mussolini intendeva così dividere con il B. la direzione delle cose militari, lasciandogli l’alta direzione degli apprestamenti bellici e riservando per sé il supremo comando in guerra. Il compito di B. si faceva sempre più arduo: la guerra e la sistemazione d’Etiopia, la guerra di Spagna, l’occupazione dell’Albania avevano assorbito e disperso le scarse risorse; ormai la sua voce era ben poco ascoltata da Mussolini, al quale egli disse a volte la cruda verità, indulgendo altre volte a un ottimismo di maniera estremamente pericoloso.
    Allo scoppio della seconda guerra mondiale il B. fu per la neutralità: il 26 maggio 1940 giunse a dichiarare a Mussolini che l’entrata in guerra sarebbe stata un suicidio, ma, tre giorni dopo, nel consiglio di guerra tenuto da Mussolini, non sollevò alcuna opposizione o riserva. Scesa in campo anche l’Italia, il B., pur nella sua alta carica, non prese parte attiva alle decisioni sulla condotta della guerra, che Mussolini, spesso senza neppure preavvisarlo, riservava a sé. Pure continuò a pazientare: anche quando Mussolini decise di invadere la Grecia, non seppe tenere un contegno deciso. Solo quando, cominciati i rovesci sul fronte greco e attaccato con virulenza da R. Farinacci su Regime Fascista, non ottenne soddisfazione, si dimise (4 dic. 1940).
    Visse allora a Roma il 1941 e 1942 tenendosi appartato, ma nella primavera del 1943, in coincidenza con l’aggravarsi della situazione dell’Italia nel conflitto, cominciò a prendere contatti con elementi antifascisti e con il re, con il quale aveva avuto buoni rapporti negli anni precedenti. Non prese parte alla preparazione degli avvenimenti che portarono, il 25 luglio 1943, alla caduta di Mussolini e al suo arresto, ma i contatti con la corte, anche tramite il conte Acquarone, fecero sì che, quando si dovette cercare un militare da porre a capo del nuovo governo, la scelta cadesse su di lui, anziché sul gen. Caviglia, come era stato proposto da D. Grandi.
    Il B. per il suo passato non rappresentava certo un elemento di rottura decisiva con il fascismo, ed era quindi l’uomo adatto agli scopi del sovrano, che lo poneva alla presidenza di un ministero di tecnici e di funzionari con pieni poteri e con il compito di avviare il distacco dalla Germania nazista e di cercare una via d’uscita dalla guerra. Ma il governo di B. iniziava con un tentativo di prendere tempo: nel proclama, scritto da V. E. Orlando e da B. solo sottoscritto trasmesso la sera del 26 luglio 1943, si diceva che la guerra continuava mantenendo fede alla parola data. In realtà continuare la lotta, dopo l’occupazione della Sicilia e con la disastrosa situazione dei rifornimenti, era impossibile, ma assai difficile era l’apertura di trattative con gli Anglo-Americani, molto diffidenti anche nei confronti del governo dei B., mentre assai arduo era lo sganciamento dai Tedeschi.
    Il ministero di B. visse nel timore di una ripresa da parte dei fascisti, di movimenti di sinistra e di un colpo di mano tedesco: in urto con gli esponenti democratici e antifascisti, non aveva neppure il cordiale appoggio del sovrano, che, troppo compromesso con il fascismo, non aveva voluto un ministero di carattere politico ed escludeva qualsiasi concessione agli elementi di sinistra. Così, respinta da Hitler la proposta di un incontro con il re, avanzata da B., a guadagnar tempo fu volto anche il convegno di Tarvisio (7 agosto) fra i ministri degli Esteri e i capi di Stato Maggiore generale italiani e tedeschi. Persa una settimana preziosa, furono avviate le trattative con gli Anglo-Americani, prima con sondaggi per via diplomatica, poi con l’invio di un militare, il gen. G. Castellano, in Portogallo, a prendere contatto con i rappresentanti degli Stati Maggiori alleati. Non si poté ottenere nulla più che la resa incondizionata: il 1° settembre il B., insieme con il capo di Stato Maggiore Ambrosio, e il ministro degli Esteri Guariglia, accettò il gravissimo armistizio, cui dette il proprio assenso il re, e che fu firmato il 3 settembre a Cassibile, presso Siracusa.
    In esso fra l’altro gli alleati si arrogavano pieno diritto di disarmo, smobilitazione e demilitarizzazione di tutte le forze militari italiane. L’articolo 12 del trattato preannunziava poi l’imposizione di altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario. Alle rovinose clausole del “corto armistizio” si sarebbero aggiunte così quelle del “lungo armistizio”. Al Castellano era però stato letto un “promemoria aggiuntivo”, concordato fra Churchill e Roosevelt, in cui era detto: “La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Gli alleati prescrivevano inoltre che il governo italiano avrebbe proclamato l’armistizio subito dopo l’annuncio datone dal gen. Eisenhower, ordinando alle forze armate e al popolo di collaborare da quel momento con gli alleati e di resistere ai Tedeschi. Il Castellano ottenne che unitamente allo sbarco principale a sud di Roma un altro ne venisse effettuato nelle vicinanze della capitale, con una divisione aviotrasportata, paracadutisti e artiglieria, ma non poté saper altro se non che sbarco e proclamazione di armistizio sarebbero avvenuti un giorno “X”. La notte sull’8 settembre due ufficiali alleati venuti a Roma per accordarsi sull’operazione di sbarco presso Roma, resisi conto del rischio che avrebbero corso le truppe alleate per l’immediata vicinanza ai campi di aviazione di potenti forze tedesche, e dell’estrema difficoltà di ricevere un valido appoggio italiano, fecero sospendere l’aviosbarco. Il B. telegrafò chiedendo inutilmente agli Anglo-Americani di rinviare di alcuni giorni la dichiarazione dell’armistizio e implicitamente l’aviosbarco e le operazioni ad esso connesse; fallito questo tentativo, la sera dell’8 settembre trasmetteva per radio la notizia dell’armistizio. All’alba del 9 settembre il B., con i ministri militari e gli Stati Maggiori, circa un centinaio di persone, seguì il re e il principe ereditario a Brindisi nel precipitoso abbandono della capitale: si trattò di ben altro che di un regolare spostamento del governo, come allora si disse, e soprattutto ciò avvenne senza che venissero lasciati ordini precisi a chi restava nella più disperata situazione a Roma stessa e in tutte le località più lontane, ove i soldati italiani erano stati mandati a combattere. Tristemente ironica potrà suonare la tarda accusa lanciata da “radio Bari” ai primi di ottobre: “A Roma sono state lasciate sei divisioni contro due germaniche. A suo tempo saranno appurate le cause della resa della capitale”. Proprio a Roma reparti dell’esercito, già messi in stato di allarme dal gen. G. Carboni la sera dell’8, ed elementi popolari, avevano tentato, nel disfacimento degli organi di governo, una generosa resistenza ai Tedeschi, primo episodio di una più grande lotta contro il nazismo. Resistenza per nulla infeconda, perché valse a trattenere 60.000 Tedeschi con 600 carri armati medi e pesanti, quando gli Anglo-Americani compivano (9-16 settembre) con circa cinque divisioni soltanto lo sbarco nel golfo di Salerno ed era provvidenziale per il gen. Clark di poter disporre dell’82ª divisione aviotrasportata.
    Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle correnti antifasciste si mutava in Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) “per – chiamare si dichiarava – gli Italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”; e tre giorni dopo si proclamava governo di fatto, espressione della volontà popolare. Il B. si trovava a Brindisi senza autorità; e più che mai diveniva pesante la sua posizione fra i sospetti degli alleati, l’ostilità degli antifascisti, e la diffidenza e scontentezza nei suoi riguardi dello stesso sovrano. Sotto un certo rispetto Churchill, con il suo discorso ai Comuni il 21 ottobre, prese le sue difese, dichiarando necessario che tutte le forze vive della nazione italiana si stringessero attorno al loro legittimo governo. Ma in realtà egli intendeva valersi, date le condizioni di confusione e di anarchia prevalenti in Italia, del re e di B. per ottenere la piena esecuzione delle clausole dell’armistizio; solo per salvare le apparenze parlava poi della necessità che venisse costituito un governo di coalizione antifascista, da mantenere sino al termine della guerra, quando il popolo italiano avrebbe deciso non già del proprio regime, ma semplicemente di un altro governo.
    Intanto, nell’immane tragedia del dissolvimento dell’esercito, non poche truppe italiane in Iugoslavia, in Grecia, a Lero, a Samo, a Cefalonia, isolate e senza ordini, ancora si battevano contro i Tedeschi, fino allo sterminio, o si univano ai partigiani greci e iugoslavi; e altre combattevano in Corsica, mentre nell’Italia occupata dai Tedeschi Napoli si ribellava il 27 settembre e si andava allargando ovunque la lotta partigiana. Nel “regno del sud” mentre alcuni animosi attorno a Benedetto Croce si adoperavano per crear formazioni di volontari, il B. pensava di organizzare un piccolo corpo regolare italiano. Il 28 settembre era infatti costituito a Brindisi un raggruppamento motorizzato agli ordini del gen. Dapino, composto da due battaglioni di fanteria, uno di bersaglieri, nove batterie di artiglieria, un battaglione controcarri. Negli stessi giorni il B. era avvertito di doversi trovare a Malta, con altri suoi capi militari, il 29; ma non fu per trattare della collaborazione militare, bensì per firmare il documento previsto dall’art. 12 delle condizioni di armistizio di Cassibile.
    Esso era intitolato “strumento di resa dell’Italia” e aggravava notevolmente le già durissime condizioni, ponendo a disposizione degli alleati tutti i mezzi di trasporto terrestri, acquei, aerei, tutti i mezzi di diffusione di notizie e di propaganda; sottomettendo al loro controllo la vita economica italiana e togliendo all’Italia ogni diritto a rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero. Anche ora però una lettera di Eisenhower al B. riconosceva come molte clausole fossero ineseguibili e che tutto poteva essere modificato con l’intensificarsi della cooperazione italiana. Il B. firmò; quanto all’entrata in guerra dell’Italia, affermò di poter apprestare, appena ritirate le truppe dalla Sardegna, da otto a dieci dìvisioni, ma non si impegnò circa la dichiarazione di guerra alla Germania, poiché tali erano gli ordini del re, che si illudeva di poterla negoziare.
    Tornato a Brindisi, il B. cercò di ottenere armi, trasporto in terraferma delle truppe della Sardegna, passaggio di questo territorio all’amministrazione italiana; ma il gen. Mac Farlane, capo della delegazione militare alleata, dichiarò che la guerra alla Germania era la premessa di ogni concessione alleata. Il re dovette cedere, e alla dichiarazione di guerra, comunicata l’11 ottobre via Madrid, fece seguito il riconoscimento dell’Italia quale co-belligerante. In realtà però il governo del re e di B. doveva servire quasi esclusivamente, non già a rafforzare l’azione militare italiana contro i Tedeschi, bensì a spremere dall’Italia quanto ancora fosse possibile. Dal canto suo il re, dopo aver invano preteso d’includere il gerarca fascista Dino Grandi nel ministero, si appoggiava a elementi fascisti e anche comunisti. Il B. tornava più che mai a trovarsi fra l’incudine e il martello: a Napoli nessuno voleva partecipare al suo governo, e a Roma il 16 ottobre il C.L.N. precisava il suo atteggiamento con un ordine del giorno che, fu detto, segnava “lo statuto fondamentale del C.L.N. in Italia”, ma sanciva pure il distacco dalla monarchia e dal suo governo da parte delle forze democratiche. In questa difficile situazione il B. il 24 ottobre manifestò al re con una lettera leale ed esplicita l’opportunità d’abdicare, lui e il figlio, per salvare la monarchia, creando una reggenza per il giovanissimo Vittorio Emanuele. Di eguale parere erano il conte Sforza, rimpatriato da poco dall’America, e Benedetto Croce: il re però non volle saperne, poiché riteneva che l’abdicazione avrebbe affrettato la caduta della monarchia. Intanto però la guerra assumeva, dal Volturno al Sangro, un carattere di logorio, e la liberazione di Roma appariva sempre meno prossima.
    Il 16 novembre il B. annunciava il completamento del governo, formato soprattutto con sottosegretari aventi funzione di ministri: la presenza alle Finanze dell’ex ministre fascista Guido Jung sollevò specialmente contro il re, ma anche contro il B., l’indignazione generale. Il B. cercò poi di impedire che venisse autorizzato un convegno dei C.L.N. delle province dell’Italia occupata, ma il 7 genn. 1944 gli alleati, dopo varie oscillazioni, dettero il consenso ed esso venne fissato per il 28-29 gennaio a Bari. Anche la preparazione militare andava a rilento; falliva la costituzione di corpi volontari autonomi, patrocinata dal Croce, ma osteggiata dal re e dagli alleati; costoro non volevano saperne neppure di forze regolari notevoli: non più di 14.000 uomini avrebbero dovuto combattere in prima linea. Non fu concessa la costituzione di otto o dieci divisioni, e si rifiutò il concorso di tre gruppi alpini per la guerra fra le aspre montagne del Sannio: dei 300.000 uomini disponibili gli alleati si servirono solo in parte, e per lavori nelle retrovie, mentre vuotavano i magazzini superstiti per mandare armi e indumenti ai partigiani greci e jugoslavi. L’aviazione italiana, che contava ancora trecento aeroplani, si prodigò fra continui rischi, ma non ricevette il materiale necessario per il ricambio e per le riparazioni; anche l’uso della flotta fu sempre limitato e contrastato. Alla fine i 5000 uomini del gruppo motorizzato furono portati in zona di guerra; essi parteciparono a Monte Lungo, dall’8 al 16 dicembre, alla grande lotta per il forzamento della stretta di Mignano, sulla via verso Cassino, distinguendosi per valore e subendo gravissime perdite.
    Il 22 genn. ’44 ebbe luogo lo sbarco alleato ad Anzio, potente diversivo che colse di sorpresa il gen. Kesselring; ma non si seppe sfruttarlo, e la liberazione di Roma restò sempre lontana. Intanto il gen. Eisenhower aveva lasciato la direzione della guerra nel Mediterraneo, e il gen. inglese Alexander, capo delle forze alleate in Italia, si mostrava ostilissimo al congresso di Bari. Una nuova soluzione del problema istituzionale, escogitata da Enrico De Nicola, e che comportava l’abbandono del potere da parte del re e la luogotenenza al figlio Umberto, fu ancora respinta da Vittorio Emanuele III. Ma al congresso di Bari si chiese all’unanimità l’abdicazione del re, si dichiarò che il governo doveva avere i pieni poteri fino all’elezione della Costituente e si elesse una giunta che prese a funzionare regolarmente. La situazione del governo di B. era quanto mai difficile: il maresciallo, premuto dal sovrano, si valeva di elementi fascisti, come l’ex generale della milizia O. Giannantoni, provocando le rimostranze degli stessi suoi sostenitori, ma nel contempo assumeva un atteggiamento contrario al re nella questione istituzionale. Il 20 febbr. 1944 Vittorio Emanuele finì con l’accettare la soluzione della luogotenenza, purché ciò avvenisse dopo la liberazione di Roma.
    Intanto il B., minacciando le dimissioni, doveva sventare la minaccia della cessione di un terzo della flotta italiana all’URSS, quale compenso per l’appoggio sovietico al re e al suo governo; il 18 marzo infatti Mosca, al fine di far sentire l’influenza russa nel Mediterraneo, annunziava che avrebbe stabilito rapporti diretti con il regio governo di Badoglio. Il 27 giungeva dall’URSS Palmiro Togliatti, il quale si dichiarava pronto a entrare nel governo Badoglio, con viva soddisfazione del maresciallo. In realtà l’intervento sovietico, che sulle prime irritò quasi tutti gli antifascisti, valeva a modificare la politica degli Anglo-Americani che il 10 aprile, per bocca del generale Mac Farlane, presenti i membri nuovi e vecchi del Consiglio consultivo d’Italia, dichiaravano essere ormai indispensabile la rinuncia immediata del re alle sue prerogative e ai suoi poteri e suggerivano una luogotenenza del principe di Piemonte. Era un vero ultimatum: il re dovette cedere, salvo rinviare la trasmissione del potere al momento della liberazione di Roma.
    Il B. iniziava allora le consultazioni per il nuovo ministero, che il 21 aprile era formato, con rappresentanti dei partiti – conservando solo in carica i ministri militari – e con sede a Salerno: esso s’impegnava a far eleggere a guerra finita un’assemblea costituente. In questo modo però il nuovo governo risultava più che mai legato all’Inghilterra e all’America, e faceva cadere i timori di Churchill che un governo democratico potesse richiedere una revisione o un’attenuazione delle durissime clausole del duplice armistizio. Contro la permanenza di B. al governo e contro il nuovo ministero, considerato legato a circostanze transitorie e di carattere provvisorio, si schierava il C.L.N. dell’Italia settentrionale con una mozione del 26 aprile. Invece il C.L.N. romano, nel cui seno si erano pure manifestati forti contrasti, riflesso anche dell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24-25 marzo, il 5 maggio stabiliva che tutti i partiti cooperassero con il governo “ai fini della guerra di liberazione nazionale”.
    Ma una vera partecipazione alla guerra con forze adeguate secondo i piani di B. e del nuovo capo dello Stato Maggiore generale, maresciallo G. Messe, incontrava ancora ostacoli. Solo il 10 febbraio si ottenne che il raggruppamento motorizzato, riorganizzato dal gen. U. Utili, fosse di nuovo impiegato come unità combattente nella zona alle sorgenti del Volturno, settore relativamente secondario, dove il 18 febbraio ebbe il primo, onorevole contatto con il nemico. Spostato poi a nord di Cassino, il 31 marzo il raggruppamento conquistava monte Morrone, dopo aver preso l’antistante cima di Castelnuovo, respingendo poi con gravi perdite per l’assalitore un tentativo tedesco di riprendere monte Morrone nella notte sul 10 aprile. Il 18 aprile il raggruppamento assumeva il nome di Corpo italiano di liberazione, ed era subito ingrossato da un battaglione di fanteria di marina e dalla divisione paracadutisti Nembo, finalmente trasportata dalla Sardegna. Anche la marina e l’aviazione si prodigavano. Nella grande battaglia per la liberazione di Roma, iniziata il 12 maggio 1944, le truppe italiane, aggregate all’8ª armata, che si mosse dopo il successo della 5ª, non vennero impegnate che molto tardivamente, dietro insistenze e non poterono entrare in Roma, il 5 giugno, fra le truppe liberatrici.
    Liberata Roma, Vittorio Emanuele intendeva firmare nella capitale il decreto di nomina di Umberto a luogotenente, ma la maggioranza del ministero era per la firma immediata, che fu imposta dal gen. Mac Farlane a Ravello, presso Salerno, nella villa Rufolo, nel pomeriggio del 5 giugno, presente anche il Badoglio.
    Avuto dal principe Umberto l’incarico di costituire il nuovo ministero, il B. giunse a Roma con il luogotenente la mattina dell’8. Ma qui tutti i membri del C.L.N. romano, presente il gen. Mac Farlane, dichiararono necessario un governo schiettamente democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e tale da poter condurre energicamente la guerra e preparare la libera consultazione popolare per la scelta della forma istituzionale, designando unanime il Bonomi quale presidente. Così il B. lasciava silenziosamente Roma la mattina del 9 giugno, invano sperando che P. Togliatti non approvasse l’operato del C.L.N. Il 10 giugno il Bonomi presentava al luogotenente la lista del nuovo ministero: gli alleati tardarono a riconoscere il fatto compiuto, e si dové attendere a Salerno il loro placet; solo il 15 luglio il nuovo ministero poteva insediarsi a Roma. Pare che il B. si adoperasse per avallare il nuovo governo presso gli alleati. Ma prima di sparire definitivamente dalla scena politica, nella speranza di cancellare la macchia della fuga di Pescara, il B. si adoperò perché venisse iniziata una severa inchiesta circa la mancata difesa di Roma, e specialmente contro il gen. Carboni che, invece, di sua iniziativa, aveva cercato di difenderla contro i Tedeschi.
    Ritiratosi a vita privata, fu dichiarato decaduto da senatore il 30 marzo 1945 per l’adesione data al fascismo; due anni dopo il provvedimento era cassato dalla Corte di Cassazione. Pubblicava poi due libri di memorie: Rivelazioni su Fiume, Roma 1946, con ampia appendice di documenti, e L’Italia nella seconda guerra mondiale (Memorie e documenti), Milano 1946.
    Il B. morì a Grazzano il 1° nov. 1956.(fonte)