Vai al contenuto

Emilio Biaggini, 1936

    Emilio Biaggini, 1936

    PARTITO NAZIONALE FASCISTA[1]
    Federazione dei Fasci di Combattimento[2]
    LA SPEZIA

    “Viver non è necessario
    ma è necessario navigare”

    La Spezia, 26.6.1936 XIV

    N. di protocollo 8887
    Risposta al foglio N.
    del
    dell’Ufficio

    DIRETTORIO NAZIONALE
    29 GIU. 1936 XIV

    ON. ADELCHI SERENA[3]
    Vice segretario del P.N.F
    ROMA

    OGGETTO:

    Nel marzo decorso i fascisti EUCLIDE E LUIGI FORNELLI – ti-
    tolari della Ditta GIULIO FORNELLI – esercente da oltre vent’anni in que-
    sta città un ufficio di rappresentanza di ditte industriali fornitrici del-
    la Regia Marina – chiesero l’intervento di questa Federazione dei Fasci di
    Combattimento perché il Ministero della Marina aveva disposto la cessazio-
    ne in tronco di ogni e qualsiasi rapporto commerciale con la Ditta in paro-
    la –
    Nella considerazione che il grave provvedimento non poteva essere stato
    provocato che da altrettanto gravi motivi che avrebbero potuto giungere
    fino ad infirmare la correttezza e moralità dei dirigenti la Ditta , an-
    che per necessità di indole disciplinare , trattandosi di iscritto al Par-
    tito , chiesi personalmente al Comandante del R. Arsenale M/M di voler
    cortesemente significarmi per quali ragioni ai Fornelli fosse stata in-
    flitta così dura sanzione –
    Poiché a tale mia richiesta l’Ammiraglio Comandante si limitò a rispondere
    che il provvedimento di esclusione era stato deliberato dal Ministero Ma-
    rina e che il R. Arsenale non era in grado di fornirmi esaurienti deluci-
    dazioni, atteso che i due fascisti continuano ad insistere per ottenere
    assistenza dal Partito – anzi , a tale proposito mi hanno rimesso istanza
    indirizzata a S.E. il Segretario del P.N.F. che allego alla presente –
    considerando che è per questa Segreteria Federale indispensabile valutare
    se l’ostracismo dato ai Fornelli è scaturito da considerazioni di ordine
    tecnico o debba invece ricercarsi in questioni di indole morale , sarò
    grato a V.S. On. Se vorrà cortesemente far Suo presso il Ministero della
    Marina il quesito che io avevo a suo tempo volto al locale Comando del Re-
    gio Arsenale , benevolmente riferendomi a suo tempo –

    IL SEGRETARIO FEDERALE
    Emilio Biaggini[4]


    Note

    [1] PARTITO NAZIONALE FASCISTA (PNF) Partito politico italiano fondato l’8 novembre 1921 al teatro Augusteo di Roma durante il 3° Congresso nazionale dei Fasci italiani di combattimento fondati da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919. Inizialmente a carattere rivoluzionario e con vocazione antipartitica, il movimento fascista aveva da tempo cominciato a mutare pelle con l’immissione di elementi che guardavano a esso come a uno strumento utilizzabile in chiave antisocialista e antipopolare. Da fenomeno prevalentemente «urbano» il fascismo era diventato un fenomeno «rurale» e si era rapidamente espanso sull’intero territorio nazionale, caratterizzandosi, attraverso lo «squadrismo», come una forza che raccoglieva ormai anche settori della piccola e media borghesia intellettuale e impiegatizia e che era divenuta funzionale agli interessi sia degli agrari e degli industriali zuccherieri preoccupati di ristabilire l’ordine nelle campagne sia dei nuovi proprietari, già affittuari e mezzadri, che avevano acquistato terre svendute per paura. La trasformazione in un vero e proprio partito, il PNF, comportò la creazione di una struttura organizzativa definita nello Statuto-Regolamento generale approvato dal congresso. Il documento disegnava un modello di partito, per un verso simile a quelli operanti in Parlamento (organi dirigenti ne erano il Consiglio nazionale, il Comitato centrale, la Direzione, la Segreteria generale) e per altro verso con una impronta militare evidente negli articoli che definivano le modalità di costituzione dei fasci (le sezioni locali del PNF) dotati di un proprio «gagliardetto di combattimento» e di «squadre di combattimento» e raggruppati in Federazioni provinciali. In seguito lo statuto del PNF sarebbe stato rivisto più volte, nel 1926, nel 1929, nel 1932, nel 1938. Primo segretario generale del PNF fu eletto M. Bianchi , che rimase in carica per un anno fino al momento in cui entrò a far parte del governo Mussolini costituito dopo la marcia su Roma. Gli successero prima N. Sansanelli (nov. 1922-ott. 1923) e F. Giunta (ott. 1923-apr. 1924) poi un quadrumvirato composto da R. Forges Davanzati, C. Rossi, A. Melchiori, G. Marinelli (apr. 1924-febbr. 1925). Dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria annunciata con il discorso del 3 genn. 1925, Mussolini decise di mettere ordine nel partito, dove si erano manifestate forze centrifughe e dissidenze, e chiamò a reggerne la segreteria R. Farinacci (febbr. 1925-marzo 1926). Questi, convinto che al partito dovesse spettare un ruolo prioritario nella vita del Paese anche nei confronti delle istituzioni, riportò in esso disciplina e compattezza potenziandone le strutture. L’idea che Farinacci aveva del partito era opposta a quella di Mussolini che riservava allo Stato una funzione di supremazia sul partito. Per questa ragione, una volta riconquistato il controllo del partito grazie al suo potenziamento, Mussolini provvide alla sostituzione di Farinacci con A. Turati (marzo 1926-ott. 1930) e fece approvare un nuovo statuto del partito (ott. 1926) che, tra l’altro, ne limitava l’autonomia e aboliva ogni forma di elezionismo. La segreteria di Turati fu caratterizzata, anche attraverso l’epurazione dei suoi quadri, dalla trasformazione del PNF in un corpo sempre più burocratico e sempre più inquadrato nel regime. Pur cercando di eliminare il dualismo partito-Stato a favore di quest’ultimo, Turati si batté per la valorizzazione del partito concepito come fucina di elementi destinati a costituire il nucleo di una nuova classe dirigente di uno Stato sempre più presente nella vita del Paese. Sotto la sua guida fu ampliata, nel quadro del più generale progetto di fascistizzazione della società italiana, la sfera delle iniziative e delle attribuzioni del partito in molti campi, da quello assistenziale a quello sportivo, da quello scolastico a quello sindacale. A succedere a Turati fu chiamato G. Giuriati (ott. 1930-dic. 1931), il quale proseguì l’opera di epurazione (furono espulsi dal partito circa 120.000 iscritti) e potenziò il ruolo del partito in settori della società (mondo giovanile, universitario, femminile e via dicendo) meno curati dal predecessore. La segreteria successiva, affidata ad A. Starace (dic.1931-ott. 1939), fu la più lunga dell’intera storia del PNF. Starace portò avanti la devitalizzazione politica del partito anche attraverso l’esasperazione di aspetti coreografici e militareschi e attraverso l’accentuazione del culto del duce. Al tempo stesso, nelle sue intenzioni e dello stesso Mussolini col quale egli lavorò all’unisono, il partito, soggetto alla piena subordinazione politica del duce, doveva diventare centro propulsore di larghi settori della vita nazionale: di qui una serie di provvedimenti come la riapertura delle iscrizioni al PNF in occasione del decennale e l’adozione di regolamenti rigidi per le organizzazioni (giovanili, femminili, scolastiche, di lavoratori ecc.) dipendenti dal partito. In questa stessa ottica si inserisce la concessione, nel 1937, del rango di ministro al segretario del PNF. Dopo Starace si susseguirono alla segreteria del partito E. Muti (nov. 1939-ott. 1940), A. Serena (nov. 1940-dic. 1941), A. Vidussoni (dic. 1941-apr. 1943), C. Scorsa (apr. 1943, luglio 1943), senza alcun sostanziale mutamento dalla linea seguita da Starace. Dopo la caduta del fascismo, Badoglio decretò lo scioglimento del PNF il 27 luglio 1943. Il 13 settembre Mussolini costituì un nuovo Partito fascista repubblicano, che cessò la sua esistenza il 28 aprile 1945.(fonte)

    [2] I Fasci italiani di combattimento furono il movimento politico fondato a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 ed erede diretto del Fascio d’azione rivoluzionaria del 1915. Il 9 novembre 1921 si trasformò nel Partito Nazionale Fascista.

    Il 23 marzo 1919 nella sala riunioni del Circolo dell’alleanza industriale, in piazza San Sepolcro a Milano, furono ufficialmente fondati i Fasci italiani di combattimento. Tra i fondatori troviamo persone di diversa estrazione sociale ed orientamento politico, a riflesso di un certo eclettismo ideologico di questa fase originaria; tra i primi aderenti ci furono anche cinque ebrei.

    Benito Mussolini prevedeva l’attuazione di uno specifico Programma di San Sepolcro (dal nome della piazza in cui fu proclamato). I primi appartenenti ai Fasci si chiamarono appunto sansepolcristi, fregiati di una fascia giallorossa (i colori di Roma). Gli squadristi semplici invece erano riconoscibili da una striscia rossa al polso della camicia nera.

    I locali della prima sede a Milano furono affittati dall’Associazione lombarda degli industriali presieduta da Cesare Goldmann, un industriale e massone di origine ebraica a cui venne pagato regolare affitto. La sede era caratterizzata da simboli degli Arditi che sarebbero divenuti comuni nell’iconografia fascista, quali il pugnale, il gagliardetto degli arditi e il teschio. Il simbolo dell’organizzazione era il fascio littorio, che si rifaceva alla storia romana, così come molti altri simboli del futuro regime. A tale riguardo Gino Coletti, segretario e promotore della Associazione Nazionale Arditi d’Italia (ANAI), su “Pensieri e ricordi” suoi appunti del 1952 scrive: “…Fu con la garanzia di sicurezza degli arditi che il 23 marzo del 1919 Mussolini poté promuovere l’adunata di P.za San Sepolcro nella quale vennero fondati i Fasci di Combattimento”

    In breve tempo, in tutto il mese di aprile in diverse città aprirono diverse sezioni, anche se le adesioni non furono massicce. Accanto ai Fasci di combattimento sorsero affiancate numerose associazioni, con lo scopo di reagire ai tentativi insurrezionali del Partito Socialista Italiano. Queste ultime erano costituite principalmente da leghe di reduci e associazioni patriottiche e studentesche.

    Il Manifesto dei Fasci italiani di combattimento, alla cui stesura aveva collaborato attivamente Alceste de Ambris, fu ufficialmente pubblicato su Il Popolo d’Italia il 6 giugno 1919. Nel manifesto venivano avanzate numerose proposte di riforma politica e sociale per far «fronte contro due pericoli: quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra», rappresentando la terza via tra i due opposti poli e sviluppandosi nell’ambito delle teorie moderniste sull’uomo nuovo. Solo parte di queste vennero realizzate durante il periodo del regime fascista (1922–1943). Pur riprese successivamente durante la Repubblica Sociale Italiana, come la socializzazione delle imprese e dei mezzi di produzione, rimasero sostanzialmente inapplicate a causa degli eventi bellici.

    La maggior parte dei partecipanti della prima ora erano reduci interventisti della prima guerra mondiale. Molti di loro avevano precedentemente militato in formazioni di sinistra (anarchici, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari e socialisti).

    Organo ufficiale dei Fasci Italiani di combattimento era il settimanale Il Fascio, che iniziò ad essere pubblicato non appena ce ne furono i mezzi. Vicino alle posizioni dei Fasci era poi, ovviamente, Il Popolo d’Italia, che però non ne divenne mai l’organo ufficiale, mantenendosi separato dal movimento.(fonte)

    [3] Adelchi Serena. Nacque nell’allora Aquila il 27 dicembre 1895 da Giuseppe e dall’emiliana Vincenza Bulgarelli, secondogenito dopo Ida e prima di altre tre figlie: Diva, Dora e Maria.

    La famiglia, di piccoli commercianti, vide nell’istruzione una via di ascesa sociale: tra il 1906 e il 1915 Serena concluse con difficoltà nel liceo ginnasio aquilano il ciclo di studi, caratterizzato da scarsa resa scolastica e indisciplina (fu espulso dal locale convitto nazionale nel 1911 e frequentò da esterno). Allo scoppio della Grande Guerra fu tra i giovani studenti che anche nelle periferie italiane ebbero un ruolo nella decisione di entrare nel conflitto. Animò tensioni interventiste, subendo provvedimenti di polizia. Pur minorenne, riuscì a farsi accettare come volontario. Subito dispensato per la salute non ottimale, poté diplomarsi nel giugno del 1915.

    Richiamato alle armi, iniziò dal 1916 la sua esperienza di guerra tra i bersaglieri, anche in zone di operazione (Cadore e Pasubio), avanzando di grado da tenente a capitano, decorato con croce al merito e congedato da maggiore nel dicembre del 1919. Visse le difficoltà di molti della sua generazione, trovatisi a comandare per il proprio livello di istruzione e non per competenze militari.

    Alla fine del 1920, anche sfruttando le facilitazioni per gli studenti militari, si laureò a Napoli in giurisprudenza. La pratica forense nel noto studio di Vincenzo Speranza, sindaco giolittiano della città, gli apriva ottime prospettive professionali, che eluse preferendo l’impegno politico: discusse, e vinse, la sua prima e unica causa nel 1922 davanti alla corte d’appello penale di Aquila, si iscrisse all’Ordine solo alla fine del 1927.

    Le pulsioni all’elevazione borghese, miscelate a interventismo e patriottismo, combattentismo e antisocialismo, lo avvicinarono al movimento fascista. Il 1° febbraio 1921 si iscrisse al Fascio aquilano; nel febbraio del 1922 entrò nel direttorio cittadino del Partito nazionale fascista (PNF) e vi rimase pur tra forti lotte interne. Nella seconda metà dell’anno partecipò ad azioni squadriste nella provincia: arrestato e rinviato a giudizio, fu amnistiato grazie al r.d. 22 dicembre 1922 n. 1611.

    Se la marcia su Roma (28 ottobre 1922) lo trovò prudentemente a Napoli da una sorella in attesa degli eventi (giunse in tempo per sfilare davanti al Quirinale il 31 ottobre, tra polemiche che indussero i responsabili a far marciare i ritardatari in coda al corteo), egli però seppe assumere il ruolo di garante del compromesso politico e di ceto nell’Aquilano tra nascenti quadri dirigenti delle camicie nere e vecchi rappresentanti del potere locale, quale referente delle tradizionali élites cittadine che, specie nel Mezzogiorno, si riallinearono ai nuovi assetti di potere a marca fascista.

    Il consolidarsi della dittatura, tra il 1923 e il 1926, lo vide personaggio più anonimo rispetto alle luci nazionali dei protagonisti iniziali del fascismo in Abruzzo, che ebbe uomini di governo (come Giacomo Acerbo, principale manovratore del regime nella zona, al quale lo legarono sempre relazioni ambivalenti, e Alessandro Sardi, l’aristocratico presidente dell’Istituto Luce), eroi di guerra (Raffaele Paolucci), censori alla guida del tribunale speciale per la difesa dello Stato (Guido Cristini).

    Sotto traccia, però, seppe con ostinazione e abilità costruirsi un percorso che lo avrebbe condotto all’apice del fascismo: segretario cittadino del fascio tra il 1922 e il 1923, fino al 1927 nel direttorio federale del PNF di Aquila, nel 1923 console della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale al comando della 130ª legione (dal 1929 console generale), nell’aprile del 1924 divenne deputato per la XXVII legislatura, eletto nella lista di minoranza fiancheggiatrice del ‘listone’ fascista. Durante la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, nel 1924, guidò la delegazione dei notabili che incontrò Benito Mussolini in occasione della sua visita in città, ricompattando il potere locale sotto l’egida di regime.

    Con il 1926 si aprì per lui un periodo di svolta. Nel partito vinse il duello intestino per il controllo del fascismo della provincia aquilana. Fiaccato da una classica campagna denigratoria il rivale Sardi (di Sulmona, da sempre antagonista di Aquila), sciolta e commissariata la Federazione dai vertici PNF (giugno 1926), Serena poté finalmente divenire segretario federale della provincia nel gennaio del 1928, rimanendovi fino all’aprile del 1929.

    Fu però sul piano amministrativo che si determinò un autentico scarto, con la nomina a podestà di Aquila, carica ormai politica e non più elettiva (23 dicembre 1926).

    Fino al gennaio del 1934 l’incarico gli consentì di trasformare la città in un triplice senso: negli assetti urbanistici; nella promozione, visionaria ma riuscita solo in parte, del turismo nell’area, con il massiccio montuoso del Gran Sasso e l’altopiano di Campo Imperatore collegati da una funivia e serviti da un hotel in quota (costruiti tra il 1931 e il 1935); nella creazione della cosiddetta Grande Aquila (luglio-dicembre 1927), accorpamento imposto, e non indolore, di nove comuni limitrofi che portò a più che raddoppiare la popolazione del capoluogo. Il tutto rispondeva a una doppia esigenza: controbilanciare la nascita della quarta provincia abruzzese di Pescara, cesura storica che nel gennaio del 1927 aveva spezzato i plurisecolari equilibri nella regione e sottratto zone industriali al territorio aquilano; mantenere alla fascia montuosa una centralità che invece si andava ormai spostando verso la costa adriatica.

    La notorietà derivatagli dalla sua attività podestarile gli procurò la salita di altri gradini politici e sociali. Nel 1929 continuò a sedere alla Camera, tra i quattrocento deputati designati della lista unica fascista votata nel primo plebiscito del regime. L’8 febbraio 1932 sposò Maria Angelica Ciarrocca a Roma, dove ormai si era stabilito. La moglie era erede di una delle famiglie benestanti aquilane e ciò – oltre che elevare il suo tenore di vita, segnare l’ingresso nei ‘piani alti’ della società romana e dargli quattro figli tra il 1932 e il 1940 (Giuseppe, Maria Laura, Fausta e Piera) – gli sarebbe stato utile nella carriera. Dal dicembre del 1932, per un anno, fu membro del direttorio nazionale del PNF e poi, tra il luglio e il novembre del 1933, commissario straordinario della turbolenta Federazione romana, incarichi che gli diedero lo slancio per assurgere alla vicesegreteria nazionale del partito, sotto la protezione decisiva del segretario Achille Starace, compiendo un ideale percorso dalla provincia alla capitale (dicembre 1933).

    Nel 1934 concluse l’esperienza podestarile, incassò la conferma a deputato nel secondo plebiscito di regime e fu cooptato nel Gran Consiglio del fascismo. Da allora, pur tra diverse altre cariche fino al 1943, si dedicò soprattutto al partito. Il suo attivismo gli valse una notorietà sempre maggiore, anche per la nomina a segretario nazionale reggente del PNF tra il febbraio e il luglio del 1936, quando sostituì Starace, impegnato nella guerra d’Etiopia. In quei mesi, attraverso la mediazione del partito, tentò di stimolare una gestione autarchico-corporativa dell’economia nel Comitato nazionale per l’indipendenza economica.

    Non firmò il Manifesto degli scienziati razzisti nel 1938 e, dal marzo del 1939, sedette nella non più elettiva Camera dei fasci e delle corporazioni: i suoi anni parlamentari (1924-43) furono anonimi e nessuna delle proposte legislative che presentò venne approvata. Per lui si apriva però il biennio più intenso della sua vita pubblica: il 31 ottobre 1939 fu nominato ministro dei Lavori pubblici, nel rimpasto ministeriale orchestrato da Galeazzo Ciano. Primo ministro aquilano dall’Unità, si trovò a gestire la più alta spesa in opere pubbliche della parabola del regime.

    Un anno dopo, ecco la chance che lo ricondusse nel partito: esautorato Starace e fallita la parentesi di Ettore Muti, il duce lo chiamò alla segreteria nazionale del PNF (30 ottobre 1940).

    L’ascesa al vertice di un esemplare ‘uomo nuovo’ che il fascismo aveva elevato dalla provincia si compiva proprio in una fase delicata, dopo l’ingresso nel conflitto dell’Italia e l’avvio della fallimentare guerra parallela in Grecia. In quattordici mesi, rivelando doti di intraprendenza in discontinuità con la sua immagine un po’ grigia, egli animò un estremo esperimento di rilancio del partito nell’emergenza bellica. L’illusoria accelerazione totalitaria del PNF di guerra si estrinsecò da un lato in un numero notevole di iniziative, finalizzate a rinnovarne quadri e funzionamento, istituire servizi per le popolazioni (specie nel campo dell’assistenza alimentare), coinvolgere fette d’Italia ai margini (pletorici fasci femminili, gruppi universitari fascisti, istituti fascisti di cultura). Dall’altro, però, egli giocò su un tavolo più scivoloso: lavorò al rafforzamento del ruolo del partito nei confronti dello Stato, riesumando così una delle più antiche aporie del regime. Formando vari organi, tra cui l’Ufficio studi e legislazione, cercò di ridare al PNF persino una rinnovata preminenza giuridica. Le sue proposte non divennero norme approvate né applicate del tutto e le commissioni create rimasero senza seguito concreto, non per la brevità dell’incarico ma perché in contrasto con l’intento del regime di tenere calme le acque politiche mentre le prospettive del conflitto si facevano negative.

    Indebolito dalle faide interne al potere fascista e dal deteriorarsi dei rapporti con l’esercito, il Senato (che non ne approvò i progetti), lo stesso Mussolini, il sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi, nonché dallo scontro pubblico con il ministro dell’Agricoltura Giuseppe Tassinari sulla disciplina dei prezzi degli approvvigionamenti, fu infine costretto alle dimissioni di fatto: il duce accolse la sua richiesta di partire volontario in guerra (26 dicembre 1941).

    Destinato in Croazia, vi rimase dal 10 gennaio 1942 all’8 settembre 1943, guadagnando la promozione a tenente colonnello di fanteria, la croce di guerra (che si aggiunse a varie onorificenze civili precedenti) e la nomea di critico delle difficoltà belliche dell’Italia fascista. All’annuncio dell’armistizio assunse una falsa identità e rientrò a Roma. Optò per la clandestinità senza aderire alla Repubblica sociale italiana.

    Protetto da varie gerarchie cattoliche in sedi religiose, rimase nascosto oltre la fine del conflitto. Subì da contumace la controversa epurazione postbellica, facendo valere sia gli appoggi ecclesiastici sia una mai chiarita collaborazione con la Resistenza romana sotto il nome di Alberto Scerni. Indagato dall’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo dall’agosto del 1944, processato presso la I Sezione speciale bis della corte d’assise di Roma, con sentenza 10 luglio 1947 fu assolto per i reati previsti dall’articolo 2 del DDL 27 luglio 1944 n. 159 (annullamento delle garanzie costituzionali) e amnistiato per l’articolo 3 (organizzazione squadrismo).

    Da allora scelse la vita privata a Roma, nella cura dell’azienda agricola del suocero, declinando proposte di candidatura nel Movimento sociale italiano, rimanendo però vicino al neofascismo; rinunciando a pubblicare le acritiche difese del proprio passato come tanti colleghi di regime; solo facendosi paladino della candidatura di L’Aquila a capoluogo di regione. Affetto dal morbo di Parkinson dai primi anni Sessanta, morì a Roma il 29 gennaio 1970.(fonte)

    [4] Emilio Biaggini. Nasce a Lerici (La Spezia) il 20 ottobre 1896
    Licenza superiore; Geometra (fonte)
    Su Biaggini:

    I fatti del febbraio 1922 a Lerici: rivisitazione storica dopo cento anni

    (da Lerici In di gennaio, febbraio e marzo 2022)

    Come accadde a Lerici cento anni fa

    Particolarmente interessato alla storia del Novecento anche a livello locale, ho iniziato ad analizzarla consultando libri e quotidiani che chiarissero gli eventi, in questo caso mi sono soffermato su alcuni episodi relativi ai fatti del febbraio 1922 a Lerici.
    Dopo il biennio rosso 1919/1920 si acuiscono in Italia le tensioni tra fascisti e antifascisti. Anche Lerici non rimane estranea a questo contrasto.
    Luglio1938 – Emilio Biaggini, Achille Starace in divisa bianca e Duilio Biaggini

    Il 13 febbraio del 1922 Emilio Biaggini segretario del fascio lericino e il capitano marittimo Pietro Bibolini, vengono colpiti da colpi di pistola a Lerici. Ecco come vengono raccontati i fatti da Il Tirreno ed Il Libertario.

    Il Tirreno del 14 febbraio: [l’autore dell’articolo è Duilio Biaggini coinvolto nel fatto ndr].

    Verso le 19.30 il nostro redattore Duilio Biaggini uscito di casa assieme ad un fratellino di 12 anni si recava in via Pisacane presso il Circolo di lettura “A. Manzoni”, luogo di riunione e di ritrovo della gioventù studiosa di Lerici.

    Alle 21.15 circa il Biaggini uscì dal Circolo e stava per entrare in piazza Cavallotti [attuale Largo Marconi ndr] dove ha l’abitazione, quando da un Caffè sbucarono più individui armati di nodosi bastoni nel numero di 5 […] Il Biaggini si fermava in via Pisacane presso il bar Roma […] in attesa che venisse qualcuno in suo soccorso; il fratellino visto il pericolo corse immediatamente al circolo di lettura, avvertendo gli amici di quanto accadeva.

    […] Accorsero subito sul posto il segretario del fascio di Lerici, geom. Emilio Biaggini (poi podestà dal 1929 al 1934 e federale della Spezia per 8 anni dal novembre del 1931 ndr) ed il capitano marittimo Pietro Bibolini, nipote del consigliere provinciale, ing. Gio Batta Bibolini, accorsero pure alcuni giovani del Circolo. […] Allora Duilio Biaggini si rivolse ad uno della comitiva chiedendo semplicemente che cosa volevano […] ed ecco che in un attimo uno degli aggressori […] freddamente a bruciapelo punta l’arma contro i giovani e spara. Anche qualche altro degli aggressori impugna l’arma e altri colpi echeggiano nell’oscurità della notte […].

    Cadono a terra due giovani, il geom. Emilio Biaggini e il capitano Pietro Bibolini, colpiti dalle rivoltellate; Duilio Biaggini invoca soccorso, nessuno accorre…”.

    Questi gli eventi. Recentemente ho sottoposto il mio scritto a Giovanni Biaggini figlio di Emilio per sapere se avesse qualche notizia diversa da darmi.

    Ecco le sue parole“Questi fatti mi furono più volte raccontati da mio padre che si salvò riparandosi il viso con un braccio. Fu raggiunto da due proiettili: uno si conficcò nel gomito del braccio e l’altro in bocca facendogli saltare l’arcata laterale dei denti. Pietro Bibolini fu colpito all’addome. I due feriti furono soccorsi e portati nell’ambulatorio del prof. Luigi Fiori, sanitario comunale, che estrasse loro le pallottole. Molti anni dopo il caso volle che mio padre sposasse Lucia Fiori figlia di chi lo aveva soccorso e medicato in quella famosa notte.”(Fonte)