Vai al contenuto

Giovanni Battista Giuriati, 1938

    Giovanni Battista Giuriati, 1938
    a
    « di 2 »

    SENATO DEL REGNO
    Abano Terme
    9 Luglio XVI
    Eccellenza,[1]
    Ho letto durante que=
    sta cura fastidiosa il vostro
    discorso del bilancio della
    Cultura Popolare[2] e, come dai
    vostri libri, ho imparato
    molto.

    Vogliate dunque gra=
    dire, coi sentiti miei
    ringraziamenti, le mie
    felicitazioni più cordiali

    Giuriati[2]


    Note

    [1] L’ipotesi è che si tratti di Dino Alfieri, politico e diplomatico italiano, Ministro della cultura popolare nel governo Mussolini dal 1937 al 1939. (N.D.D.)

    [2] Il Ministero della cultura popolare era un ministero del governo italiano con compiti riguardanti la cultura popolare e l’organizzazione della propaganda fascista. Sin dall’epoca fu anche noto con l’abbreviazione di MinCulPop, tuttora usata anche in senso ironico o dispregiativo.

    L’antesignano del ministero può essere considerato l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, istituito nel 1922 con il compito di diffondere i comunicati ufficiali del governo Mussolini.

    Nel 1925 venne rinominato Ufficio stampa del Capo del governo.

    Con r.d. 6 settembre 1934, n. 1434, il predetto ufficio fu trasformato in Sottosegretariato di Stato per la stampa e la propaganda, composto di tre direzioni generali: stampa italiana; stampa estera; propaganda. Con r.d. 18 sett. 1934, n. 1565, fu istituita una quarta direzione generale per la cinematografia. Il nuovo sottosegretariato, con r.d.l. 21 nov. 1934, n. 1851, assunse altresì le competenze del commissariato per il turismo, per l’occasione trasformato in direzione generale.

    …………..

    Il Ministero per la cultura popolare (1937-1943)

    Il 27 maggio 1937, Mussolini cambiò la denominazione del Ministero per la stampa e la propaganda in Ministero per la cultura popolare. Tra i due dicasteri vi fu comunque una forte continuità politica e istituzionale: per tutto il 1937 il nuovo dicastero mantenne la stessa struttura del suo predecessore. Alla creazione del Ministero per la cultura popolare, inoltre, il ministro per la stampa e la propaganda Dino Alfieri fu nominato automaticamente ministro della cultura popolare.

    La spiegazione ufficiale della nuova denominazione fu che con l’espressione cultura popolare si voleva indicare e celebrare l’allargamento degli scopi del ministero il quale, come aveva suggerito lo stesso Alfieri in un rapporto al Senato agli inizi del 1937, si prefiggeva di fare un passo avanti nel controllo simultaneo su cultura e propaganda, puntando all’unificazione dei due settori. Tale unificazione era necessaria per rendere la politica culturale del regime una realtà concreta per il popolo e le masse, cioè per fare in modo che le attività culturali non fossero solo un privilegio riservato a pochi e per educare le masse secondo i principi e i valori fascisti, attuando così la rivoluzione fascista di cui si parlava dagli anni ’20. Alla fine degli anni ’30 si tentò di definire con maggiore precisione la natura e la funzione della cultura popolare nel regime. Nell’articolo Cultura popolare del Popolo d’Italia del 30 maggio 1937, ad esempio, si spiegava che il termine popolare non era usato in senso dispregiativo, ma nel senso romano di per tutto il popolo. Lo stesso concetto venne espresso in un discorso pronunciato il 24 aprile 1941 da Pavolini, in cui affermava che la cultura popolare è “qualcosa che riguarda la generalità dei cittadini, simultaneamente nelle città e villaggi, che tocca insieme tutta la popolazione”.

    Le spiegazioni ufficiali sulla natura della cultura popolare e sul cambiamento di denominazione del ministero erano tuttavia pura retorica, poiché l’espressione cultura popolare fu principalmente un semplice sostituto del termine propaganda. Già all’inizio degli anni ’30, infatti, Mussolini e Ciano avevano riflettuto sugli svantaggi del termine propaganda e Ciano aveva affermato che “nessun popolo ormai vuole essere propagandato, bensì vuole essere informato”. Per questo motivo si era arrivato a proporre di cancellare la parola propaganda dal vocabolario ufficiale e la riflessione sugli svantaggi del termine era continuata per tutti gli anni ’30, approdando nelle direttive del 3 giugno 1939 e del 5 febbraio 1942 con le quali i giornalisti venivano invitati a evitare l’uso della parola propaganda in riferimento all’attività governativa. Il fatto che la spiegazione ufficiale per cui il Ministero della cultura popolare dovesse avviare un vero e proprio programma di cultura popolare volto all’elevazione culturale delle masse fosse pura retorica è dimostrato soprattutto dal tipo di attività e funzioni svolte dal ministero stesso.

    Teoricamente il lavoro del ministero doveva essere diviso tra due tipi di funzioni: le funzioni dinamiche, volte all’unificazione di cultura e propaganda al fine di attuare quel programma di cultura popolare di cui tanto si era parlato già dall’inizio degli anni ’30; le funzioni statiche, volte al perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura nel quale, come aveva fatto notare Dino Alfieri in un discorso alla Camera all’inizio del 1937, vi erano ancora problemi e lacune. La reale attività del ministero, però, fu caratterizzata per la maggior parte dall’adempimento delle funzioni statiche, mentre furono trascurate le funzioni dinamiche.

    Al fine di avviare il perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura, adempiendo le sue funzioni statiche, il ministero fu interessato, a partire dal febbraio 1938,, da una riorganizzazione strutturale, ottenuta tramite:

    • l’ampliamento del personale, che passò dai 183 impiegati del Ministero per la stampa e la propaganda a 800 funzionari, molti dei quali provenienti dal Ministero degli esteri;
    • l’aggiunta allo staff del ministero di un numero sempre più alto di esperti di cinema, radio, architettura, fotografia e la creazione della Direzione generale per i servizi amministrativi nella quale furono inquadrati;
    • la creazione, all’interno delle sezioni della Direzione generale per la stampa, di due sottosezioni: una per la stampa quotidiana, l’altra per quella non quotidiana;
    • la suddivisione delle sezioni della Direzione generale per la propaganda per aree geografiche;
    • la creazione, da parte della Direzione Generale per la propaganda, di una rete di zone di propaganda (a ogni zona di propaganda fu assegnato un gruppo di propagandisti e un direttore dei servizi di propaganda);
    • la creazione di un Ufficio razza che si occupava della propaganda razziale in tutto il paese e che nel 1939, cambiò la sua denominazione in Ufficio studi e propaganda sulla razza;
    • la riorganizzazione, tra il 1938 e il 1943, della Direzione generale per il turismo: la direzione assegnava contributi dello Stato per costruzioni di alberghi, determinava il prezzo degli alberghi, forniva nulla osta ai progetti di costruzione, si occupava di fornire alla stampa italiana ed estera articoli di propaganda delle attività turistiche nazionali. Alle sue dipendenze vi erano l’ENIT e gli Enti provinciali per il turismo; essa vigilava su numerose organizzazioni turistiche tra cui il RACI e l’ENITEA;
    • l’assegnazione all’Ufficio di censura teatrale di una propria autonomia rispetto alla Direzione generale per lo spettacolo, dalla quale fu scorporato;
    • l’estensione del controllo del ministero sull’Ente stampa del PNF e sull’Ente Radio Rurale tra il 1939 e il 1940;
    • l’istituzione, all’interno della Direzione generale per i servizi amministrativi, di un Ufficio di mobilitazione civile;
    • la creazione, nel dicembre 1939 e all’interno dell’Ispettorato per la radiodiffusione, di un Servizio di ascolto radiofonico e radiotelegrafico dall’estero;
    • il cambiamento di denominazione, nel 1942, della Direzione generale per la propaganda in Direzione generale per gli scambi culturali.

    La riorganizzazione strutturale del Ministero della cultura popolare causò un aumento del bilancio del ministero stesso: tra il 1938 e il 1939 furono stanziati più di cento milioni di lire.(fonte)

    [3] Giovanni Battista Giuriati. Nacque a Venezia il 4 ag. 1876 da Domenico e da Giovanna Bigaglia, in una famiglia borghese di intensi sentimenti patriottici.

    Il padre, avvocato e deputato della Sinistra dal 1882 al 1886, e il nonno paterno Giuseppe, notaio, avevano partecipato all’insurrezione antiaustriaca di Venezia e alla difesa della città tra il 1848 e il 1849 ed erano poi stati esuli a Torino fino al 1866.

    Il G. ricevette pertanto un’educazione ispirata al mito del Risorgimento e all’irredentismo, che divennero i cardini ideali della sua azione politica. Nel 1902 si iscrisse a Democrazia sociale e l’anno successivo all’Associazione Trento e Trieste, appena costituita a Venezia. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Padova nel 1908, si dedicò alla professione di avvocato e agli studi giuridici, pubblicando i saggi La navigazione aerea e il pericolo criminale (Verona 1910) e I delitti contro la proprietà (Milano 1913). Aderì al movimento nazionalista, sostenendo l’impresa libica, e s’impegnò nella realizzazione di un’alleanza trasversale tra tutte le forze politiche veneziane ostili al socialismo.

    Nel 1913 assunse la presidenza della Trento e Trieste, che stava attraversando un periodo di crisi, con il proposito di trasformarla “in un gruppo battagliero, che avrebbe agitato in ogni occasione la bandiera delle province irredente, avrebbe opposto alla politica del governo, giudicata fiacca e passiva, la mobilitazione dell’opinione pubblica” (G. Giurati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di E. Gentile, Roma-Bari 1981, p. XIV).

    La svolta impressa dal G. accentuò il carattere nazionalista e imperialista del movimento irredentista, rompendo con la tradizione mazziniana dell’irredentismo democratico e distinguendosi dal “triplicismo” del nazionalismo governativo. All’odio contro l’Austria, retaggio della tradizione familiare, il G. univa una profonda avversione nei confronti del movimento nazionale slavo, in quanto ostacolo al predominio italiano sull’Adriatico.

    Allo scoppio del conflitto il G., convinto che la guerra avrebbe portato al dissolvimento dell’Austria, non si limitò a sostenere la causa dell’intervento dell’Italia, ma si attivò nel tentativo di provocare un casus belli che lo giustificasse.

    Verso la fine del 1914 creò e assunse il comando della Legione S. Marco, un’organizzazione paramilitare formata da profughi delle zone irredente, con la quale progettava appunto di compiere un colpo di mano oltre confine. Espose il suo piano ad A. Salandra che lo convinse a rinunciare, determinando lo scioglimento della Legione.

    Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, il G. partì per il Trentino e, cinque mesi dopo, passò al fronte dell’Isonzo. Capitano, comandante di una compagnia del 71° battaglione fanteria, conquistò quota 144 a Oslavia, rimase gravemente ferito al braccio destro e si guadagnò una medaglia d’argento. Dopo un anno di ospedale e non ancora ristabilito, chiese, e ottenne, di essere rimandato al fronte, dove prese parte a diverse battaglie tra la Bainsizza e l’Isonzo. Promosso maggiore per meriti di guerra, il 19 ag. 1917 fu nuovamente ferito e decorato con un’altra medaglia d’argento. Dal gennaio 1918, dichiarato definitivamente inabile al servizio di guerra, il G. si dedicò alla mobilitazione nazionalistica e patriottica sul fronte interno.

    Per il G. la guerra rappresentava non soltanto il mezzo per affermare le ambizioni dell’Italia a un ruolo di grande potenza, ma anche un’esaltante esperienza di solidarietà collettiva. Egli pensava che “questa solidarietà tra le classi non doveva essere dispersa con la pace, ma preservata, alimentata, consolidata in una nuova “concordia civica” che sarebbe stata un risultato della guerra veramente innovatore per la società italiana” (La parabola…, p. XVI).

    In questa prospettiva il G. maturò l’idea di dar vita a un’associazione politica interclassista, denominata Patto nuovo, il cui congresso costitutivo si svolse a Roma dall’11 al 13 giugno 1918.

    Tra gli obiettivi programmatici del patto spiccavano l'”educazione metodica ed obbligatoria, materiale e spirituale della gioventù alla disciplina ed al pericolo, alla ginnastica ed alle armi” e la “lotta strenua e irriducibile contro i partiti, le tendenze e gli organismi internazionali e le infiltrazioni straniere” che intaccassero la “forza spirituale e materiale della Nazione” (ibid., p. XVIII).

    Il Patto nuovo non suscitò, tuttavia, quella vasta e convinta adesione che il G. si attendeva e venne presto sciolto; egli si concentrò allora sul problema dei compensi territoriali che l’Italia avrebbe dovuto rivendicare al tavolo della pace: a suo giudizio, per affermare il proprio predominio nello scacchiere adriatico l’Italia doveva ottenere Fiume e la Dalmazia, rifiutando ipotesi subordinate.

    La Trento e Trieste – che aveva trasferito la propria sede da Venezia a Roma e aperto una sezione a Parigi, dove si svolgeva la Conferenza di pace – divenne, allora, il centro propulsore delle iniziative “antirinunciatarie” trasformandosi, nel giugno 1919, per impulso del G. e dell’industriale O. Sinigaglia, in Lega italiana, con il compito di tutelare e organizzare le comunità italiane all’estero, rendendole utile strumento per una politica di potenza. Ma il G. fu subito distolto da questo obiettivo per preparare l’impresa di Fiume, alla quale, nel settembre 1919, prese parte al fianco di G. D’Annunzio.

    Nelle intenzioni del G. l’occupazione di Fiume doveva servire essenzialmente a provocare la caduta del governo Nitti e a spostare a destra l’asse politico italiano, senza dar luogo ad alcun progetto di tipo rivoluzionario.

    Nel periodo in cui esercitò le funzioni di capo di gabinetto di D’Annunzio (settembre-dicembre 1919), il G. tentò di svolgere opera di moderazione, contrapponendosi ai settori radicali del cosiddetto fiumanesimo. Tuttavia, dopo aver raggiunto con P. Badoglio e con il sottosegretario agli Esteri C. Sforza l’intesa per un modus vivendi, approvata anche dal Consiglio nazionale di Fiume, si trovò spiazzato per la decisione di D’Annunzio di respingere l’accordo e il 19 dicembre rassegnò le dimissioni da capo di gabinetto. Non si trattò, comunque, di rottura totale, dal momento che, proprio per incarico di D’Annunzio, il G. assunse il comando della legione del Carnaro a Zara e, nel febbraio 1920, venne inviato a Parigi nel vano tentativo di essere ammesso alla Conferenza di pace, quale rappresentante del governo militare di Fiume. Il G., poi, secondo il progetto dannunziano, si attivò per dar vita a una Lega di Fiume che, in opposizione alla Lega delle nazioni, avrebbe dovuto rappresentare i popoli e gli interessi sacrificati a Versailles.

    Di fronte alla difficoltà di realizzare questo ambizioso progetto, il G. ripiegò sulla sua vecchia idea di promuovere una coalizione antiserba fra Croati, Montenegrini, Albanesi e Macedoni e provocare un’insurrezione balcanica che disgregasse il Regno iugoslavo. Per l’indisponibilità di mezzi economici, e per la decisione del governo italiano di intavolare trattative dirette con quello iugoslavo, anche questo progetto naufragò quando era già in fase avanzata.

    Dopo il trattato di Rapallo (12 nov. 1920), che chiudeva la partita di Fiume, il G. pensò di attuare un’ultima disperata impresa, occupando l’isola di Curzola per organizzare da lì la resistenza armata in Dalmazia. Il piano, approvato da D’Annunzio, ottenne l’appoggio dell’ammiraglio E. Millo, governatore di Zara, ma venne poi lasciato cadere dallo stesso D’Annunzio (su questi avvenimenti si veda, del G., Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Firenze 1954).

    Il 29 nov. 1920 il G. lasciò Fiume e fece ritorno a Venezia con l’intenzione di battersi contro quelli che considerava i nemici interni della patria.

    A tal fine egli continuava a puntare alla realizzazione di alleanze eterogenee cementate dall’opzione nazionalista e antisocialista. Egli stesso rappresentava, di fatto, un esempio di trasversalismo politico, poiché, nel maggio 1919, aveva aderito ai Fasci di combattimento mantenendo, però, l’iscrizione a Democrazia sociale.

    Ruppe con questa formazione politica nel 1920, allorché decise di dar vita ad Alleanza nazionale, un raggruppamento di elementi liberali, monarchici, fascisti, democratici e combattenti. Si trattò, ancora una volta, di un’esperienza politica effimera, conclusasi dopo le elezioni politiche del 1921, nelle quali il G. venne eletto deputato. Alla Camera aderì al gruppo parlamentare fascista, conquistando presto la stima e la simpatia di B. Mussolini, nel quale, a sua volta, egli riconosceva le qualità del vero capo in grado di reggere le sorti dell’Italia (si veda, del G., La vigilia, Milano 1930).

    Dopo aver intensamente partecipato alla vita del movimento fascista (fu contrario alla sua trasformazione in partito) e aver svolto un ruolo di primo piano nella trattativa che portò, il 3 ag. 1921, al patto di pacificazione con i socialisti, il G. riteneva di aver esaurito il suo compito. All’indomani della marcia su Roma manifestò, pertanto, l’intenzione di tornare alla professione di avvocato, ma Mussolini lo volle nel suo primo governo come ministro per le Terre liberate; dopo la soppressione di questo dicastero, nel febbraio 1923, lo nominò ministro a disposizione, affidandogli compiti di grande delicatezza come un’inchiesta sulle speculazioni legate ai residuati di guerra.

    Proprio in tale occasione si verificò il primo screzio con Mussolini, che non volle dar seguito alla sua richiesta di deferire all’autorità giudiziaria i presunti responsabili; il 7 luglio 1923 il G., contrariato da questo comportamento, diede le dimissioni, poi revocate per le insistenze di Mussolini.

    Conclusa la sua prima esperienza ministeriale il 1° febbr. 1924, da quella data all’ottobre dello stesso anno fu inviato in Sudamerica quale ambasciatore straordinario a capo della crociera della nave “Italia”. Tornò al governo il 5 genn. 1925 come ministro dei Lavori pubblici, incarico ricoperto fino al 30 apr. 1929. Riconfermato deputato nelle elezioni del 1924 e del 1929, nell’aprile di quell’anno venne eletto presidente della Camera.

    Tutte queste cariche, pur di grande rilievo e responsabilità, avevano carattere tecnico più che politico, e trovarono nel G. un titolare adatto per l’equilibrio dimostrato e per l’estraneità alle lotte di potere. Fu, quindi, accolta con sorpresa, il 24 sett. 1930, la sua nomina a segretario del Partito nazionale fascista (PNF).

    Dopo due esponenti dello squadrismo, come R. Farinacci e A. Turati, Mussolini sceglieva di affidare il partito a “una figura di trapasso, dotata di un proprio ma non eccessivo prestigio, senza un proprio rassato ove radicarsi, fuori dalle correnti e da clan e, al tempo stesso, nota per le sue posizioni politiche moderate, ma anche per un certo piglio militaresco e che – proprio per la sua estraneità e alla mentalità del vecchio fascismo delle squadre e ai vari gruppi di potere all’interno del partito – fosse in grado di portare finalmente a termine l'”inquadramento” del PNF secondo la volontà di Mussolini” (De Felice, 1974, p. 209).

    Il G. ebbe dal duce la consegna di attuare una vasta epurazione nelle file del partito, di ridurne il peso e l’autonomia politica, ponendolo al servizio e sotto il controllo dello Stato. Ma ben presto Mussolini si rese conto che il G. interpretava questo compito in modo non corrispondente alle sue aspettative.

    Da un lato l’inflessibilità del G. nel procedere a una pulizia interna radicale, con la richiesta di eliminare 120.000 iscritti, contrariò molto Mussolini; dall’altro la soluzione del conflitto tra Stato e partito veniva condotta in senso opposto a quello auspicato dal duce, dal momento che il G. intendeva esaltare la funzione politica del PNF, ponendo fine alle ingerenze dei prefetti nella vita interna del partito. Il G. venne poi a rappresentare un elemento di turbativa nelle relazioni tra fascismo e Chiesa: il ruolo ricoperto, infatti, gli aveva offerto l’occasione di mettere in pratica i propositi a suo tempo enunciati nel Patto nuovo, avviando una politica di formazione dei giovani che mirava a infondere in loro un vero e proprio culto religioso del fascismo. La Chiesa aveva reagito condannando quelle che considerava concezioni e pratiche neopagane e rivendicando a se stessa il magistero nell’educazione dei giovani; nel 1931 lo scontro si acuì a tal punto che vi furono diversi assalti di squadre fasciste alle sedi dell’Azione cattolica. Mussolini, che pure aveva condiviso la condotta del G., allarmato perché, a soli due anni dal concordato, questo contrasto rischiava di pregiudicare i rapporti con la Chiesa, decise di risolverlo.

    Questi e altri motivi di divergenza con il duce, nonché l’ostilità di gerarchi quali G. Marinelli, A. Starace e L. Arpinati, resero, infine, inevitabile la sua sostituzione al vertice del PNF. Dopo aver chiesto più volte di essere sollevato dall’incarico, il 6 dic. 1931 il G. vide accolte le sue dimissioni da segretario del partito: egli considerò quell’atto una vera liberazione, mostrando per di più di voler progressivamente abbandonare ogni impegno nella vita pubblica. Dopo aver rifiutato la nomina ad ambasciatore a Berlino, il 19 genn. 1934, non più deputato, lasciò la presidenza della Camera, malgrado Mussolini lo avesse invitato a mantenere tale carica per un’altra legislatura. Un mese dopo, il 19 febbraio, il G. cessò di far parte del Gran Consiglio del fascismo e il 1° marzo venne nominato senatore.

    Abbandonata la scena politica e tornato all’attività professionale, il G., vedendo “il sistema politico fascista divenire sempre più un cesarismo autoritario” (La parabola…, p. XLI), cominciò a nutrire dubbi sulla politica interna ed estera di Mussolini. Tale atteggiamento non sfociò mai in aperto dissenso, anche se, nel corso di una riunione con Mussolini e con altri gerarchi, svoltasi il 16 luglio 1943 a palazzo Venezia, il G. espresse una serrata critica al regime.

    Dopo l’8 sett. 1943 si stabilì a Cortina d’Ampezzo, nel territorio della Repubblica sociale italiana, alla quale, benché gli fosse stato offerto il ministero degli Esteri, decise di non aderire. Tra il 1943 e il 1944 attese alla scrittura delle sue memorie, pubblicate postume nel già citato La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca. Nel dopoguerra fu processato per il contributo rilevante dato al fascismo, ma venne assolto.

    Morì a Roma il 6 maggio 1970.(fonte)