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Vera Bova, Il Mediterraneo, 1941

    Vera Bova, Il Mediterraneo,1941
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    Vera Bova
    IL MEDITERRANEO
    CONFERENZA

    Vera Bova
    A Bice D’Ancona[1],
    come segno – piccolissimo –
    del mio ricordo affettuoso –
    Vera Bova[2]
    Roma, marzo XIX

    IL MEDITERRANEO
    CONFERENZA

    « Nell’ Istituto Tecnico « Alfredo Rocco » ha avuto inizio quel ciclo
    di raduni familiari che l’Istituto ha predisposto per l’anno in corso. La
    simpatica iniziativa, tendente ad avvicinare sempre più scuola e fami-
    glia, è particolarmente opportuna in questo periodo politico-militare, nel
    quale la scuola è la più indicata a chiarire i problemi essenziali della no-
    stra Patria e a rafforzare il carattere e la fede nelle famiglie.
    Nel raduno di ieri — dopo che il Preside avvocato Prof. Giuseppe
    Liguori, legionario fiumano e squadrista, espose gli scopi e i motivi di
    queste conversazioni familiari — la Prof. Vera Bova parlò sul Mediter-
    raneo, trattando l’argomento dal punto di vista storico, politico e mili-
    tare ».
    Da « La Voce d’Italia » (il Giornale d’ Italia) del 16 febbraio 1941-
    XIX.

    Sig. Preside, Colleghi, Signori, giovani dell’Istituto

    Il mio pensiero e il vostro è rivolto, in questi giorni, ai nostri fra-
    telli che per terra per mare e nel cielo combattono, animati dalla: fede
    della nostra Patria, maestra di civiltà antica e nuova : a loro il no-
    stro devoto saluto. E permettetemi di pregarvi di essere longanimi
    nell’ascoltare un modesto mio studio sopra un argomento che conosce-
    te, e che io tratto soltanto come argomento di attualità : Il Mediter-
    raneo.
    Richiamo alla vostra memoria quelle parole che risuonarono dal-
    l’estrema punta meridionale della Penisola, e risuonarono come squillo
    di tromba : «il Mediterraneo è per noi la vita, per altri è la via ».
    Parole del Duce. Parole mai dette prima d’allora e mai dette da
    altri; rivelazione d’una verità, affermazione della nuova coscienza
    nazionale dell’Italia. Esse esprimevano, in sintesi mirabile, la nuova
    importanza del Mediterraneo nei confronti dell’Italia tornata imperiale.
    Espressione di verità, abbiamo detto. Rendiamocene conto. È
    proprio vero che il Mediterraneo ha un’importanza diversa da quella
    di altri mari; è proprio vero che per l’Italia, poi, ha una importanza
    fondamentale ? Soffermiamoci su questi due punti.
    Primo. L’importanza del Mediterraneo. Ogni mare interno è im-
    portante, per i paesi che bagna. Esso dà nutrimento e lavoro a parte
    degli abitanti ; ha influenza benefica sul clima, fornisce il mezzo di co-
    municazione meno costoso e più rapido e a tutti accessibile e aperto ;
    infatti, mentre una catena di monti o una distesa di terre straniere co-
    stituirebbe un ostacolo per le comunicazioni, il mare aperto è un lega-
    me fra i diversi paesi. A questi che sono vantaggi generali di tutti i mari
    interni, noi sappiamo che il Mediterraneo aggiunge quello della sua
    facile navigabilità, dovuta al clima mite, e quello d’essere l’anello di
    « congiunzione fra i popoli di tre continenti : Europa Africa Asia.
    Ma la caratteristica inconfondibile e unica che il Mediterraneo
    non ha in comune con nessun altro mare, è quella d’essere stato la cul-
    la della civiltà. Non la culla d’una civiltà come dicono alcuni stra-
    nieri; la culla della civiltà. Il Mediterraneo vide — per non citare che
    le principali — l’antichissima civiltà egizia, vide la civiltà cretese, vide
    il fiorire dei due grandi imperi babilonese ed assiro, vide affermarsi i
    Fenici, navigatori intrepidi i quali dalla Palestina e dalla Siria loro

    terre di origine si spinsero a colonizzare le isole del Mediterraneo e
    giunsero alla Spagna alla Sardegna alla Sicilia ; vide la civilissima Grec-
    ia aprire la via del progresso nei campi delle scienze e delle arti, vide
    affermarsi Roma, destinata ad essere di quella civiltà l’erede e il faro
    e a servirsi del Mediterraneo come via per diffonderla. Circa l’impor-
    tanza anche storica del Mediterraneo, nessun dubbio quindi può esi-
    stere.
    Passiamo adesso a considerare il secondo punto: l’importanza
    che ha il Mediterraneo, nei riguardi dell’Italia. Ricordiamo. Tutti i po-
    poli mediterranei, fin dai tempi più remoti, hanno compreso che al di
    là del valore commerciale e del valore come mezzo di comunicazio-
    ne, il Mediterraneo era importante quale strumento di grandezza, di
    dominio. E quasi tutti i popoli antichi cercarono d’averne la suprema-
    zia. Noi abbiamo l’orgoglio di dire che, prima e all’infuori di Roma,
    nessuno Stato ebbe mai il dominio completo di questo mare. Non l’eb-
    bero i civilissimi Egizi ; non l’ebbero i Greci, i quali pure, con le splen-
    dide loro vittorie militari sui fortissimi imperi persiani hanno il merito
    inestimabile d’aver salvato l’Europa dall’invasione asiatica. Non l’eb-
    bero i Fenici, i quali, pure, furono i veri signori del Mediterraneo, pri-
    ma dei Romani.
    L’Italia, posta da Dio al centro del bacino occidentale mediter-
    raneo, era destinata a quel dominio per la stessa sua posizione geogra-
    fica. E la posizione di privilegio di Roma venne riconosciuta e temuta
    non appena la giovane repubblica romana s’affacciò sul mare aperto.
    A spadroneggiare sul Mediterraneo c’era allora Cartagine, l’antica co-
    lonia fondata dai Fenici nel IX secolo a. C., divenuta poi il centro d’uno
    Stato che dalle Colonne d’Ercole s’estendeva a Cirene. Quando Roma
    nel 270 a. C. conquistò tutta l’Italia meridionale fino allo Ionio, i Fe-
    nici subito temettero per la loro egemonia marittima. D’altra parte
    Roma, giovane vittoriosa e forte, che già volgeva le mire alla Gallia
    meridionale e alla Spagna e guardava con interesse verso l’Oriente,
    non poteva disinteressarsi di Cartagine, la quale aveva il monopolio
    assoluto dei traffici marittimi e dominava anche la Corsica, la Sardegna
    e la Sicilia. La guerra era fatale, inevitabile ; e scoppiò nel 264 a. C. e
    durò fino al 146 a. C., anno che vide Roma aver ragione della potente
    rivale, la quale era forte del doppio vantaggio di una flotta numerosa
    e di una tradizione marinara.
    Cadeva in quell’anno sotto il dominio romano anche una parte
    dell’Asia Minore, mentre venivano sottomessi i Macedoni e resa colo-
    nia romana la Grecia. Da quell’anno, il Mediterraneo diveniva roma-
    no. I Romani avevano ben diritto di chiamarlo Mare Nostrum : es-
    si ne erano i signori assoluti, come altri popoli non erano stati mai. La
    civiltà greca — dice con chiarezza uno storico nostro, il Manaresi[3]
    era stata il primo tentativo di civiltà universale, poichè la lingua greca

    e il pensiero greco in tutto il bacino mediterraneo s’erano diffusi. I
    Romani afferrarono l’idea greca dell’universalità e ne fecero una real-
    tà politica : «l’universalità culturale » dell’ellenismo diventò « univer-
    salità di governo », per opera di quella meravigliosa praticità romana
    che i Greci non possedevano. E Roma resse i popoli con la spada e
    con la legge, legando paesi diversi per civiltà per tradizione per ricchez-
    ze per produzione in un vincolo politico comune ; come nessun popo-
    lo aveva fatto mai.
    Abbiamo ricordato che il Mare romano era stato il primo, fra tut-
    ti i mari del mondo, a risplendere della luce della civiltà. Esso era inte-
    ramente conosciuto, era completamente civile da molti secoli quando
    ancora gli altri mari erano sconosciuti e inesplorati ; era solcato da na-
    vi snelle e veloci, navi dai molti remi e a vela, quando su gli altri mari
    vagavano ancora le zattere primitive ricavate da tronchi d’albero, che
    servivano unicamente per la pesca costiera. E mentre gli altri mari e-
    rano avvolti dalle brume della barbarie, esso era rallegrato e rischiarato
    dalle gentili vele triangolari latine.
    Ebbene, dobbiamo aggiungere un’altra osservazione. Questa.
    Come per legge divina, l’ombra della decadenza sul Mare Nostrum non
    scese a lungo. Lo ricordino, gli stranieri. Ricordino che, quando la ca-
    pitale dell’ Impero romano fu portata da Roma a Bisanzio — la Costan-
    tinopoli odierna, — quando Roma decade dal suo ruolo di dominatri-
    ce del mondo allora conosciuto, pur restando ancora centro di civil-
    tà, neanche allora il Mare Nostrum rimase all’ombra e perdette im-
    portanza. Anzi, esso ne acquistava una nuova : diveniva la via di diffu-
    sione d’un nuovo verbo che dall’Oriente si sarebbe imposto al mon-
    do intero e per l’eternità : la via di diffusione della parola di Cristo. Ebbe-
    ro a dichiarare alcuni Santi, nei primi tempi del Cristianesimo, che la
    religione di Gesù non si sarebbe propagata tanto rapidamente nel mon-
    do, non avrebbe messo da per tutto basi così salde e grandiose, se non
    avesse trovato, per la diffusione, spianata la via dalla civiltà di Roma.
    Oltre alla luce della civiltà — luce altissima ma umana, ma mor-
    tale — il Mare Nostrum venne a splendere, allora, della luce immor-
    tale, della luce divina della religione cristiana.
    Venne il Medioevo, ma per il mare ch’era stato di Roma non se-
    gnò il Medioevo la fine delle glorie ; ché vi fu il fiorire delle Repubbli-
    che marinare di Amalfi, di Pisa, di Genova, di Venezia. E mentre la
    scoperta dell’America spostava i traffici dal Mediterraneo all’ Atlanti-
    co, più tardi l’apertura del Canale di Suez — quel Canale che la Sere-
    nissima, Venezia, aveva desiderato per i traffici suoi con l’Oriente e
    ch’era opera del progetto d’un Italiano — l’apertura del Canale di
    Suez, dicevamo, restituiva al mare latino importanza e valore.
    Se ne accorse qualche nazione europea, e presto cercò d’impadro-
    nirsi dei punti strategici più importanti.

    Nazione europea, abbiamo detto. Nell’udir pronunziare queste
    parole, io penso che in un primo momento il primo impulso d’un ascol-
    tatore italiano sarebbe quello d’interrompere l’oratore, per ribatter :
    — nazione mediterranea, e non nazione europea, voi certo volevate di-
    re —. Verrebbe da interrompere e correggere in questo modo. Ma
    sùbito la ragione e la memoria trattengono dal parlare, e amaramen-
    te si pensa: — già, è proprio vero, è proprio stata una nazione non me-
    diterranea, quella che nel Mediterraneo s’è insediata —.
    Questa nazione, ben lo sappiamo, è l’Inghilterra. L’ Inghilterra,
    che già aveva aggirato la flotta spagnola — povera Invicible Armada
    distrutta per metà dalle tempeste! — e vinto la Spagna, occupava
    nell’agosto del 1704 Gibilterra e Minorca, impadronendosi così della
    porta d’entrata dall’Oceano Atlantico al Mare latino. L’occupazione
    era diretta in realtà non contro la Spagna ma contro la Francia, poi-
    chè gli Inglesi cominciavano a temere l’imperialismo francese sui ma-
    ri. Essi, che si erano alleati alla Francia per combattere la potenza co-
    loniale dell’Olanda e della Spagna, rivolgevano adesso le loro armi con-
    tro l’alleata. La Francia d’oggi sembrava immemore di questi oltrag-
    gi, ma ha pagato assai caramente la dimenticanza ; che il fatto d’allo-
    ra, s’è, oggi, ripetuto.
    Dal canto suo, la Francia cercava di accaparrarsi posti avanzati
    sul Mediterraneo ; e, quel ch’è peggio, terre che non le spettavano af-
    fatto. Cominciava la corsa all’occupazione. Nel 1768 l’italianissima
    Corsica passava alla Francia, la quale, dopo aver provocato nell’isola
    delle insurrezioni antigenovesi, aveva offerto a Genova il suo aiuto per
    domare le agitazioni stesse, e aveva finito con l’occupare l’isola.
    Era poi la volta di Malta. Malta, dominio del Re di Napoli, era
    stata occupata nel 1798 dalle truppe di Napoleone Bonaparte. L’In-
    ghilterra offrì disinteressatamente al Borbone di liberare Malta dal
    pericolo francese ; una volta messovi piede, più non lo tolse dall’isola
    italianissima e gloriosissima.
    Il Mediterraneo era divenuto teatro delle lotte fra l’ Inghilterra e
    Francia per l’accaparramento dei punti migliori. Nel 1830 la Francia
    sbarcava in Algeria e volgeva le sue mire di conquista al Marocco alla
    Tunisia all’Egitto al Sudan.
    L’Inghilterra stava all’erta. Non aveva intuìto l’importanza del
    Canale di Suez, ma ben la comprese non appena vide le azioni della
    Compagnia del Canale in mano altrui, nelle mani della Francia e del
    l’Egitto. Offrì all’Egitto di sanare le finanze interne e in cambio chie-
    se le azioni del Canale di Suez : disinteressata come sempre.
    Così, nell’interesse questa volta della Turchia, per sventare la
    minaccia russa sul Bosforo, veniva occupata Cipro nel 1878.
    Gibilterra Malta Suez Cipro… occupazione, a fin di bene altrui,
    dei punti migliori del Mediterraneo. Alle quali occupazioni va aggiunta

    la cessione di Nizza alla Francia, nel 1860. Nizza, ch’era Italia fin dai
    tempi di Roma antica : come documentò Cesare nel 1. libro del « De
    bello civili» quando disse essere la Francia compresa fra la Spagna e
    il Varo. Nè valse a riscattarla la parola di Garibaldi, il quale vedeva
    con immenso dolore diventare straniera la città sua natale : « negare
    l’italianità di Nizza è come negare la luce del sole ». Nizza, insieme con la
    Savoia, passava alla Francia : Napoleone III. aveva venduto caro il suo
    aiuto d’armi al Piemonte per la liberazione dell’Italia settentrionale.
    Mancavano, a far completo il quadro, la Tunisia e l’Egitto. Paesi
    belli, paesi tanto cari nel ricordo dei turisti in cerca di paesaggi e di
    prodotti caratteristici. Per essere più cari e più belli essi avrebbero a-
    vuto bisogno d’una tutela, d’una tutrice inglese o francese. Nel 1881
    la Francia occupava la Tunisia, approfittando della… distrazione ita-
    liana ; occupava la Tunisia ove da secoli s’era orientata l’emigrazione
    spontanea dell’Italia meridionale, la Tunisia dove erano italiani com-
    mercio e traffici e professioni e arti e comunicazioni. Dal canto suo
    l’Inghilterra con un abile colpo di mano s’insediava nell’Egitto.
    Ecco la storia delle occupazioni mediterranee. E l’Italia ? L’Italia,
    finalmente unita in Regno, aveva conquistato l’Eritrea e la Somalia ;
    nel Mediterraneo, fino al 1911, anno d’occupazione della Libia, non
    erano italiane nemmeno le isole del Dodecanneso.
    La colpa di tale stato di cose (le occupazioni straniere) viene di
    solito attribuita all’Italia, in quei tempi debolissima come governo,
    come nazione. Dobbiamo però dire che l’Italia d’allora non aveva in
    questo mare interessi diversi da quelli d’altri popoli che sul Mediter-
    raneo s’affacciano. Cominciò ad avere interesse particolare quando
    ebbe l’Eritrea e la Somalia, e più ancora quando la conquista della Li-
    bia fece della costa africana la quarta sponda. D’importanza grandis-
    sima, vitale, divenne infine il Mediterraneo quando l’Italia ebbe il suo
    Impero. Non più il mezzo di comunicazione con gli altri paesi, ma mez-
    zo d’unione, ma vincolo, fra la Madre Patria e i figli lontani ; legame
    che unisce l’Italia alle sue colonie e al suo Impero in modo d’assicurare
    lo scambio delle produzioni : il trasporto in Italia delle materie prime
    e lavorate dei possedimenti oltremare, il trasporto in quei possedimen-
    ti dei prodotti della Madre Patria.
    Ma c’è ancora di più. Oltre al suo valore economico, il Mare No-
    stro ha per noi un valore morale altissimo. È, il Mare Nostro, la stessa
    espressione della grandezza nostra imperiale, della nostra civiltà mille-
    naria. Il suo possesso ci riporta al tempo glorioso nel quale Roma do-
    minatrice occupava terre e s’imponeva ai popoli con la potenza della
    sua civiltà. I paesi occupati dai Romani non venivano considerati
    come colonie di sfruttamento, ma come terre da incivilire e ordinare,
    terre nelle quali venivano costruite città e aperte strade, venivano eret-
    ti templi e fabbricati acquedotti.

    Quale altra nazione può dire altrettanto ? Non può dir l’ Inghilterra
    d’aver portato giustizia e civiltà nei paesi occupati ; ché tutti i centri
    mediterranei in sua mano sono stati trasformati in piazzeforti e roc-
    cheforti e basi militari da servire per meglio assicurarsi il dominio. Non
    può dirlo la Francia ; ché i paesi da lei occupati (e occupati spesso per-
    petrando tradimenti a nostro danno) non da lei sono stati colonizzati
    ma dall’Italia ; dall’Italia che ha sempre mandato figli in quei paesi,
    mentre la Francia ne ha prelevato gli indigeni per importarli nel terri-
    torio metropolitano a far parte dell’esercito — la parte che può anda-
    re al macello senza eccessivi scrupoli per chi comanda. —
    Soltanto da noi è stata portata la civiltà. Dall’Italia soltanto, che
    non ha esitato a dichiarare la Libia territorio metropolitano ; che in
    quelle terre ha inviato, per renderle più fertili e più italiane ancora,
    ventimila Italiani in una sola volta.
    Come possono altri popoli e specialmente gl’Inglesi, comprende-
    re il valore ideale che ha il Mare Nostrum per noi ? Anche nella vita
    pratica, nella vita di tutti i giorni, noi Italiani siamo portati a non di-
    sgiungere i valori materiali dai morali. Dice il nostro popolo : « di solo
    pane non si vive », intendendo che, oltre alla persona fisica, anche lo
    spirito, l’anima, esigono alimento. Gli Inglesi, naturalmente, intendo-
    no le stesse parole nel senso che « di solo pane non si vive » per-
    chè oltre al pane, occorre il companatico…
    La nazione che non ha voluto riconoscere la nuova dignità impe-
    riale dell’Italia, i nuovi confini d’Italia, la vitale importanza che
    ha per l’Italia il suo mare, è stata però ben accorta quando ha ten-
    tato di spezzare quei legami, quando ha cercato di separare dalla
    Madre i figli combattenti in una terra lontana. Non è riuscita nel
    suo intento : malgrado avesse adunato cinquantuno Stati dalla sua
    parte.
    Si dirà che un’altra nazione, la Francia, ha seguito nei nostri ri-
    guardi una via falsa, errata. Possiamo rispondere che, siccome si af-
    faccia anche lei sull’Atlantico, anche la Francia, in qualche momento
    ha ‘potuto pensare… atlanticamente ; e sopportare che nel Mediterra-
    neo venisse a imporre il suo volere un popolo che in questo mare non
    aveva abitato ; un popolo che non ha di mediterraneo niente, nè come
    razza nè come lingua nè come religione nè come civiltà nè come storia.
    Ma l’Italia ch’è esclusivamente mediterranea, l’Italia che ha co-
    scienza del suo destino imperiale, della sua missione di civiltà, poteva
    tollerare oltre che nel suo mare stesse un’altra nazione a esercitare la
    propria sovranità ?
    Il nostro mare, poi, è per noi la Patria stessa. Lo vediamo special-
    mente nelle città che sul mare sorgono, nel mare specchiano opere e
    vegetazione e case. Il mare rappresenta per esse una parte integrante ;
    accresce la bellezza della città, fa parte del paesaggio ; in queste cit-

    tà più che in altre siamo portati a considerare il mare come. Conside-
    riamo la nostra terra ; cioè, come patria.
    Ora, possiamo noi tollerare più a lungo che nella patria nostra vi
    siano degli intrusi a far da padroni ? Possiamo noi permettere che gli
    Inglesi si servano di alcune terre mediterranee come comode piatta-
    forme di partenza per venire a rovinare le nostre belle e care città, rivol-
    gedosi contro la popolazione civile? Dobbiamo lasciare che l’Inghil-
    terra si serva di alcuni popoli a noi vicini, da lei comprati e a lei stupi-
    damente vassalli, per venire a seminare la strage nei nostri paesi ?
    Con Gibilterra Malta i Dardanelli e il Canale di Suez l’ Inghilter-
    ra ha in mano le chiavi del Mediterraneo. Adesso, dobbiamo noi per-
    mettere ancora che le chiavi della nostra casa siano in mano d’al-
    tri?
    Avevamo detto, all’inizio, che le parole del Duce erano uno squil-
    lo di tromba. Aggiungiamo che esse, fin da quel momento, hanno an-
    nunziato che l’ora della battaglia era giunta. Era giunta l’ora di cac-
    ciare dal Mediterraneo l’intrusa che di questo mare s’è servita e si vuol
    servire soltanto per affermare una potenza che non ha più ragione
    d’essere considerata tale ; un’intrusa che di questo mare vuol servirsi
    come comodo mezzo per giungere alle terre al di là del Mare Rosso,
    fino ad oggi schiave, asservite a lei : all’Impero d’India, alle cosiddet-
    te colonie della Corona, agli innumerevoli protettorati e mandati. Se
    ne vada, l’Inghilterra, a commerciare con altri popoli che magari par-
    lano la sua lingua, se ne stia con le sue navi a far bella figura sull’ A-
    tlantico o su qualsiasi altro oceano o mare. Ma non venga a far da pa-
    drona nel Mediterraneo ch’è nostro, nel Mediterraneo ch’è stato e che
    può essere fiorente dei traffici fra i paesi mediterranei.
    L’Italia combatte non solo per sè ; combatte per tutti gli altri
    popoli che ancora tollerano l’intrusa. La Nazione ch’è sempre stata
    araldo di civiltà, sarà e vuole essere araldo di libertà. Sappiano gli stra-
    nieri che gli Italiani non si sgomentano di fronte ad eventi momenta-
    neamente avversi, che gli Italiani non piegano il ginocchio davanti al
    nemico. Altre nazioni, la storia recente ci insegna, si sono piegate. Noi
    non siamo così. Lo dice il comportamento delle nostre città sotto le
    incursioni aeree nemiche. — tutte le nostre città ; ultima in ordine di
    tempo, Genova.
    Camerati, con l’animo pieno di fierezza al ricordo, mandiamo,
    prima di lasciare quest’aula, un nostro saluto augurale alla Città Su-
    perba, che si è retta sempre a regina dei mari e che in questo momen-
    to rigetta sull’armata corsara la vergogna delle bordate di navi che
    spararono e fuggirono, sottraendosi al combattimento.
    Salutiamo gli eroismi delle nostre ali intrepide, della nostra ma-
    rina audacissima, dei soldati nostri e di quelli che con i nostri combat-
    tono, in fraternità d’armi e d’eventi.

    E come un giorno gli Italiani fecero scudo con i loro petti alla Cro-
    ce bianca di Casa Savoia, e liberarono l’Italia al grido : « va fuori stra-
    niero ! », così oggi si levino alti i nostri gagliardetti, si levino alte le no-
    stre bandiere, e corra sul Mare Nostro un grido : « va fuori del Mediter-
    raneo, va fuori straniero ! ».
    VERA Bova
    Roma, 12 Febbraio 1941-XIX.


    Note

    [1] Beatrice Gulì è nata il 7 gennaio 1902 a Roma. Frequenta il liceo classico Tasso, dove consegue la maturità nel 1921. La sua formazione classica le resterà per tutta la vita, permettendole di declamare in greco e in latino. La sua aspirazione sarebbe stata iscriversi a Medicina, ma l’opposizione del padre la spinge ad orientarsi per la facoltà di Matematica. Mentre segue i corsi scientifici, conosce Enrico D’Ancona e insieme si iscrivono alla Scuola di Applicazione per Ingegneri. Originario di Fiume, Enrico vive a Roma con i fratelli per frequentare l’università. Beatrice ed Enrico si laureano entrambi nel novembre 1927 e si sposano un mese dopo. Avranno quattro figli: Fabrizio (1928) avvocato; Bruno (1929) Ingegnere; Annamaria (1933) e Giuliana (1935) entrambe si sono occupate di scienze naturali come lo zio Umberto D’Ancona. Poco dopo la laurea trova lavoro presso le Assicurazioni d’Italia, a tempo pieno fino al 1942, quindi come consulente del ramo furto/incendio fino al 1980. Nel suo lavoro è molto apprezzata per l’accuratezza e l’approfondimento con cui porta a termine le perizie di cui è incaricata. Affronta e supera l’esame di Stato nel 1937, con lo scopo di firmare i progetti elaborati in coppia con il marito. Tra i loro lavori: la casa di famiglia a Monteverde (1930) e la casa al mare a Tor Vajanica (1958), oltre ad alcuni piccoli incarichi ottenuti da amici. Beatrice ha una bellissima grafia ed è un’abile conversatrice. Estroversa e motivata, si impegna a fondo e ottiene risultati soddisfacenti in tutte le sue attività. Ha attitudine alla ricerca e all’apprendimento che cerca di soddisfare in tutto il corso della vita. Coltiva interessi letterari: scrive poesie, declama in greco e in latino. Dopo il pensionamento si iscrive all’università della Terza Età, per seguire corsi di medicina e poi latino, greco e letteratura.(fonte)

    [2] HP Dovrebbe trattarsi della moglie di Renato Bova Scoppa. Nato a Procida (Napoli) nel 1892, si laurea in giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1918. A disposizione del Ministero degli affari esteri, nel 1920 è trasferito a Balgrado. Entra in carriera in seguito a concorso nel luglio 1923 e viene chiamato a prestare servizio al Ministero (luglio 1923). Trasferito ad Addis Abeba nel settembre del 1923 è reggente la Legazione da febbraio ad ottobre 1924. Trasferito a Mosca e successivamente ad Odessa quale reggente il Consolato generale.Al Ministero nel 1926 e ad Angora nel 1927. Da aprile a giugno 1930 è Reggente il Consolato Generale di Smirne. Nel 1932, dopo un breve periodo, viene trasferito a Ginevra presso la Delegazione italiana alla Societa’ delle Nazioni.  Dopo l’uscita dell’Italia dalla Organizzazione, viene nominato Osservatore presso l’Istituzione e vi rimane fino al 1940. Nel 1940 viene nominato Ministro a Lisbona e nel 1941 viene trasferito a a Bucarest dove rimane quattro anni. Successivamente e’ Ambasciatore a Giacarta, a Caracas, a Rabat, osservatore italiano alla Conferenza dei quattro grandi a Ginevra nell’ottobre 1955.(fonte)

    [3] Cesare Augusto Manaresi. Nacque a Roma il 10 sett. 1880, “dall’unione naturale” di Giuseppe, muratore analfabeta, “con donna non maritata”, identificata come Felicita Carloni.

    Per l’atto di nascita del M., estremamente pasticciato, si rimanda all’Estratto dal registro degli atti di nascita, 15 sett. 1880, nel fascicolo personale conservato presso l’Archivio centr. dello Stato in Roma (Min. della Pubblica Istruzione); il nome della madre è indicato nell’attestato di razza non ebraica del M. e dei suoi, rilasciato dalla R. Prefettura di Milano nel 1940 (ibid.).

    Trascorsa a Imola l’infanzia e la prima giovinezza, il M. prese la licenza liceale classica presso il liceo E. Torricelli di Faenza; tra il 1904 e il 1906 si laureò in lettere a Bologna, quindi conseguì il diploma di magistero, cominciò a insegnare “storia, geografia, diritti e doveri” nella scuola tecnica comunale di Comacchio e sposò Maria Zuccari, figlia di un possidente di Casalfiumanese, da cui non ebbe figli. Nel 1906, riformato al servizio di leva, partecipò a un concorso per archivista e fu assegnato all’Archivio di Stato di Milano nell’agosto di quell’anno. Nel 1908 si diplomò alla Scuola di paleografia, diplomatica e archivistica e scienze ausiliarie annessa all’Archivio, dove divenne assistente di aula e in seguito titolare di cattedra (1927-38). Socio corrispondente di molte associazioni, nel 1925 iniziò la sua collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana e, conseguita per titoli la libera docenza in paleografia, diplomatica e archivistica presso l’Università di Pavia, vi rimase come incaricato fino al 1927, anno in cui passò con le stesse funzioni all’Università di Milano. Raggiunto il ruolo di direttore all’Archivio di Stato di Milano, partecipò nel 1938 al concorso per soprintendente di quell’Archivio – appoggiato, fra gli altri, da D. Gardini, vicesegretario del Partito nazionale fascista (PNF) – ma non ottenne la nomina.

    Il M., ferratissimo in questioni araldiche e genealogiche, tanto da avere in animo di scrivere un manuale, aveva avuto per questi suoi interessi alcune noie, di origine peraltro non chiara (febbraio 1935). Altri comunque furono i motivi per i quali non vinse il concorso: le note caratteristiche, stilate negli anni dai suoi superiori, lo definivano impiegato modello, ricercatore diligente e instancabile, di indiscussa probità scientifica e professionale, ma non mancavano di sottolineare la sua indole caustica e autoritaria e come egli non fosse “affatto amato dal personale”.

    Comandato dal 1( genn. 1939, su interessamento del senatore P. Fedele, presso l’Istituto storico italiano per il Medio Evo di Roma, dal 1941 il suo nome fu legato alla cattedra di paleografia e diplomatica che G. Feltrinelli istituì, con una elargizione di 800.000 lire, presso la facoltà di lettere dell’Università di Milano.

    Tale nomina, per la quale F. Chabod si espresse favorevolmente e non sottoposta, per volontà di Fedele, all’esame del Comitato nazionale dell’educazione, fu perfezionata dal ministro G. Bottai ai sensi dell’art. 81 del r.d. 31 ag. 1933, n. 1592 (nomina per “chiara fama”). Il ruolo fu confermato dopo la Liberazione, quando il M. si era avvicinato al Partito comunista italiano (PCI).

    Fuori ruolo dal 1951, nello stesso anno fondò presso l’Università di Milano la Scuola di perfezionamento per archivisti e bibliotecari. Fu consulente sin dal 1925 dell’Archivio storico civico di Milano, al quale legò per testamento i suoi libri e gli scritti inediti di genealogia e di araldica.

    Il M. morì a Varese il 1 sett. 1959.(fonte)