Attendo un tuo rigo dalle
sponde irredente t’invio il
mio augurale saluto
dalle terre redente
Gino
Raone, 13-9-917[1]
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Cividale, 5 agosto 1917[2]
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FOTOGRAFIA P. MIANI
CIVIDALE – TRIESTE
Note
[1] Battaglia di Caporetto. Nome con cui si indica comunemente la dodicesima battaglia dell’Isonzo (24 ottobre 1917), durante la Prima guerra mondiale. Le divisioni austro-tedesche inflissero presso Caporetto, centro dell’odierna Slovenia, una pesantissima sconfitta alle truppe italiane, guidate dal generale Cadorna, le quali furono costrette a ritirarsi, attestandosi poi sul Piave (9 nov. 1917). Centinaia di migliaia di prigionieri caddero in mano al nemico, insieme a migliaia di cannoni e a grandi depositi di materiali da guerra e alimentari. L’8 nov. Cadorna fu esonerato e sostituito dal generale A. Diaz. La rotta di Caporetto fu determinata dalla mancanza di idee chiare sul piano strategico, da un’insufficiente visione particolare e d’insieme delle operazioni condotte dai tedeschi in altri teatri di guerra, dall’omissione di un esame approfondito delle proprie possibilità. La crisi segnò però una stretta decisiva nella guerra italo-austriaca, ponendo fine a un determinato criterio di condotta bellica in favore di uno nuovo, più avveduto e di più larga ispirazione. La rotta subita dalle truppe italiane provocò un vero e proprio trauma nell’immaginario collettivo e nella memoria storica del Paese. Ne seguì inoltre un’inchiesta, volta a individuare le responsabilità della sconfitta.© Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani – Riproduzione riservata (fonte)
[2] L’inverno tra il 1916 e il 1917 e l’inizio della primavera successiva furono caratterizzati da una stasi delle operazioni belliche in grande stile. Con l’arrivo della bella stagione le forze dell’Intesa ripresero l’iniziativa. Nel maggio 1917, mentre era ancora in corso, nello scacchiere occidentale, fra Soissons e Craonne, la grande offensiva di primavera, il Comando Supremo italiano decise di appoggiarla indirettamente, attaccando lungo tutto il fronte isontino. L’azione si sviluppò dal 12 al 28 maggio, dando vita alla 10a battaglia combattuta sull’Isonzo.
I due Corpi della 2a Armata attaccarono il Kuk, il Vodice e il Monte Santo. La lotta si protrasse sino al giorno 22 e si concluse con l’occupazione dei primi due monti e delle pendici del terzo. Attratte in tale direzione le riserve austriache, la 3a Armata iniziò, il giorno 23, un violento attacco da Castagnevizza al mare. Riuscì a portarsi fin oltre la linea di Flondar, ma il giorno 28 l’azione si esaurì.
Successivamente, dal 10 al 29 giugno, l’Esercito Italiano condusse una operazione di attacco nel settore degli Altipiani, la battaglia dell’Ortigara, conclusa senza alcun risultato positivo e con il passivo di gravissime perdite. Questa battaglia mirava a migliorare la situazione sul fronte trentino, in vista del già previsto successivo sbalzo in profondità sulla Bainsizza perché, come scrisse lo stesso Cadorna, “quanto più con la nostra avanzata ci andavamo allontanando dalla pianura vicentina oltre l’Isonzo, tanto più aumentava il pericolo derivante dal saliente trentino”.
Molti critici hanno fatto carico al generale Cadorna di questa e di altre offensive, altrettanto povere di risultati. Ma queste battaglie rientravano in quella visione strategica, concordata con gli Alleati, che postulava il logoramento dell’avversario, un logoramento che solo operazioni offensive erano in grado di conseguire.
Subito dopo, allo scopo di migliorare l’andamento delle posizioni sulla sinistra dell’Isonzo, fu decisa dal Comando Supremo italiano una azione offensiva (11a battaglia dell’Isonzo) che avrebbe dovuto conseguire l’occupazione dell’Altipiano della Bainsizza fino al Vallone di Chiapovano e la conquista dell’Altipiano di Comen, oltre l’Hermada. L’offensiva, simultanea nei due settori, durò complessivamente dal 17 al 31 agosto e conseguì qualche risultato.
La 2a Armata varcò l’Isonzo ed attraverso estenuanti e sanguinosissimi attacchi, protrattisi per dieci giorni, riuscì a penetrare nell’Altipiano della Bainsizza per una profondità di circa 8 km senza, tuttavia, raggiungere il risultato di scacciarvi del tutto l’avversario.
La 3ª Armata ottenne, invece, solo modesti successi, spostando di poco il fronte in avanti nei pressi dell’Hermada. Fu questa, l’ultima battaglia offensiva dell’Esercito Italiano sul fronte isontino.
Le perdite italiane erano state veramente spaventose: 40.000 morti, 108.000 feriti e 18.500 dispersi. L’Esercito Italiano si andava così sempre più logorando e nei reparti combattenti si affievoliva la speranza di poter alla fine aver ragione della barriera di roccia e di ferro che gli stava di fronte.
Anche l’Austria-Ungheria cominciava però ad accusare seriamente il peso dei colpi che si erano abbattuti su di essa. Si sentiva ridotta a mal partito ed aveva la certezza che non avrebbe potuto ulteriormente sostenere, nelle sue condizioni di logoramento generale, altre offensive di analoga potenza ed intensità.
Il 25 agosto 1917, quando l’11ª battaglia sull’Isonzo era ancora in pieno svolgimento, il Comando austriaco decise di far appello alla Germania incaricando il generale Waldstätten di presentare ufficialmente la richiesta al Comando tedesco. Grave umiliazione per il giovane imperatore Carlo, ma egli era ben consapevole che il suo esercito non avrebbe retto ad un altro colpo d’ariete! Maturò, così, il concorso delle forze germaniche a sostegno di quelle austriache sul fronte giulio. La inattività sullo scacchiere francese, dopo il falli-mento dell’offensiva Nivelle e gli ammutinamenti che ne seguirono, ed il crollo pressoché totale dell’esercito russo, diedero luogo ad una disponibilità, sia pure temporanea, di riserve tedesche da impiegare a favore dell’Austria, nell’intento di far massa contro l’Italia e ridurla alla resa.
Sette divisioni tedesche furono fatte affluire in Italia e costituirono, con 8 divisioni austriache, la 14a Armata, al comando del brillante generale tedesco Otto von Below. Paradossalmente, proprio le offensive italiane provocarono lo scatenarsi di un colpo tanto violento!
Il generale Cadorna, informato, peraltro con poca precisione, dei preparativi austro-tedeschi rinuciò all’intenzione di effettuare alcune operazioni offensive per migliorare l’andamento del fronte e, il 18 settembre, ordinò alle Armate 2a e 3a di assumere atteggiamento difensivo. Mentre il duca d’Aosta, comandante della 3a Armata, si attenne alle disposizioni, il generale Capello, comandante della 2a, credette più opportuno far mantenere alle proprie truppe uno schieramento offensivo, convinto di poter così più facilmente passare alla controffensiva.
Cadorna, piuttosto scettico del resto sull’entità dello sforzo austriaco, non si curò di controllare che quella ed altre sue direttive fossero attuate e, di conseguenza, la 2a Armata fu sorpresa dall’offensiva nemica con uno schieramento del tutto inadatto.
L’attacco austro-tedesco iniziò il 24 ottobre, alle 2 di notte, con una violenta preparazione di artiglieria. All’alba, la 12a divisione germanica, sboccata da Tolmino, sfondò la linea italiana e, percorrendo la valle dell’Isonzo, a tergo della difesa avanzata, raggiungeva Caporetto alle ore 15.
Al seguito di questa divisione, il corpo alpino tedesco nella giornata conquistò tutta la regione orientale del Kolovrat, caposaldo della difesa di seconda linea italiana. Il movimento delle prime due unità germaniche fu immediatamente seguito da altre 5 divisioni. Alla sera del 24 ottobre era stata già aggirata la destra della la e 2a linea di difesa, da Tolmino a Kolovrat, e superato il centro della 3a linea a Caporetto. L’indomani gli Austro-Tedeschi diedero ampio respiro alla loro manovra oltrepassando l’Isonzo a Saga e spingendosi verso Monte Maggiore. A nord, la 10a Armata austriaca mosse verso il Tagliamento; al centro, le truppe al seguito della 12a divisione tedesca da Caporetto raggiunsero la cresta laterale del Matajùr; l’ala sinistra del dispositivo di attacco nemico puntò dal Kolovrat sulle strade di Cormons e di Cividale.
Superate, nella giornata del 26, quasi tutte le posizioni difensive montane, la 14a Armata, sboccata in pianura, puntò su Cividale, mentre la 10a, a nord, raggiunse la valle del Fella. Il Gruppo Armate Boroevic iniziò anch’esso l’offensiva sul Carso. Alle ore 2 del 27 ottobre il Comando Supremo italia-no ordinò il ripiegamento generale. Era stata scelta, quale prima linea di resistenza, quella del Tagliamento; ma poi si constatò la necessità di ritirarsi sino al Piave. Su questa linea si portarono, seguendo l’alta valle del Piave, la 4a Armata e il Corpo della Carnia. Forti e salde retroguardie e le divisioni di cavalleria diedero protezione al movimento dei resti della 2a Armata e dell’intera 3a Armata che correvano il grave pericolo di essere prevenuti ed aggirati dal nemico, incalzante sul Tagliamento. Su questa linea fu imbastita una prima difesa, che resse l’urto dal 31 ottobre al 4 novembre, e una seconda resistenza fu opposta sulla linea della Livenza, tenuta sino al giorno 8 novembre. Nella giornata del 9, tutte le truppe superstiti avevano raggiunto la sponda destra del Piave, dove una parte dell’Esercito Italiano si era schierata per far fronte all’invasore. Il Comando austriaco decise di proseguire ulteriormente l’offensiva, sino alla totale distruzione dell’Esercito Italiano.
La battaglia d’arresto si sviluppò in due fasi: dal 10 al 26 novembre e dal 4 al 30 dicembre. Nella prima di Austro-Ungarici attaccarono lungo il Piave e il 12 novembre riuscirono a penetrare nell’ansa di Zenson, ma non poterono avanzare oltre. Il 16 novembre passarono il fiume anche a Fagaré, ma, contrattaccati, ritornarono indietro. Nel basso Piave riuscirono a far arretrare la linea difensiva a sud di Musile, lungo la Piave Vecchia, il Sile, a Cavazuccherina e Cortellazzo. Nonostante questo successo locale, l’offensiva lungo il Piave fallì e non fu più rinnovata. Durissima fu la battaglia Sull’Altipiano dei Sette Comuni e sul Grappa, dal 12 novembre in poi. Sull’Altipiano un estremo tentativo di sfondare, effettuato il 22 novembre alla presenza dell’imperatore Carlo, fu nettamente respinto. Sul Grappa divisioni austro-ungariche e tedesche della 14a armata reiterarono per più giorni violenti attacchi: esse riuscirono soltanto ad impadronirsi, dopo strenua lotta, di alcune posizioni avanzate e il 26 novembre il Comando Supremo austro-ungarico ordinò la sospensione dell’offensiva.(fonte)
CIVIDALE DURANTE L’ANNO DELL’ OCCUPAZIONE
La ritirata del Piave fu compiuta da Cadorna in condizioni molto critiche a causa sia della viabilità discontinua sia di un esercito nemico incalzante e sia di strade sovraffollate da centinaia di migliaia di soldati mischiati ai civili in fuga. L’esercito italiano aveva perso circa 40.000 uomini tra decessi e feriti, 280.000 erano stati fatti prigionieri eb350.000 erano gli sbandati in fuga nelle retrovie.
Le forze armate italiane erano in ginocchio ed il Paese era stato invaso ed occupato dal nemico.
La conduzione del Regio esercito venne affidata ad Armando Diaz.
Dalla fine del mese di ottobre del 1917 la guerra si svelò ai friulani con il suo volto più drammatico. Arrivò un esercito di occupanti che parlava degli idiomi incomprensibili ed il popolo cividalese, ma soprattutto friulano, dovette scegliere se partire o rimanere, affrontando di conseguenza una coesistenza con il nemico.
Su una popolazione complessiva di 630.000 abitanti (dati inerenti all’ultimo censimento effettuato nel 1911) i profughi del Friuli furono 135.000. Cividale contava 10.000 abitanti e partirono in 5177.
Firenze accolse ben 17.500 friulani fra i quali molti amministratori e notabili. Il ministero dell’interno designò Firenze come sede della prefettura di Udine e di conseguenza si stabilirono anche gli uffici del commissario della provincia, dei comuni, e di altri enti locali; intorno ad essi si ricomposero parecchi nuclei della burocrazia ed i circoli della classe dirigente politica. Essi organizzarono dei comitati, delle amministrazioni ed enti riconosciuti giuridicamente. Nel capoluogo toscano i più importanti notabili diventarono i referenti nazionali del popolo friulano. Essi costituirono amministrazioni ed enti riconosciuti giuridicamente, gestirono aiuti e soccorsi, sbrigarono documenti e pratiche nonché delle richieste di sussidio con un occhio di riguardo per i propri collegi elettorali, ovviamente non mancando di entrare in attrito con le amministrazioni imposte dal governo militare austro – tedesco.
Al momento dell’invasione austro – tedesca i friulani si trovarono di fronte una situazione caotica: fuggire per la gente comune, non poteva essere facile, poiché sia le truppe in ritirata che quelle in avanzata, per sgomberare le vie di comunicazione, rovesciavano ai lati delle strade e nei fossati i carri e le masserizie dei civili intenti a scappare. In molti casi le fughe precipitose furono interrotte da un ordine dei militari, dall’affollamento delle strade o dalla rottura di un ponte. Lo spavento, la fatica e l’impossibilità di procedere furono le cause maggiori che obbligarono molti civili a ritornare nelle loro case, spesso dopo aver percorso strade terrificanti sotto la pioggia ed il freddo di quei giorni. Il numero delle famiglie intenzionate ad andarsene fu considerevolmente più consistente di quelle che concretamente riuscirono ad oltrepassare la linea. Un’altra amara verità fu che la gran parte della popolazione venne colta completamente alla sprovvista dall’avanzata e quindi non poté fare altro che assistere alla venuta dei nuovi occupatori. Diversamente, nelle zone rurali e della montagna, una grande maggioranza della popolazione contadina non volle abbandonare le rispettive abitazioni con le stalle attigue ed i loro appezzamenti terrieri, essendo queste le loro uniche risorse. In moltissimi casi, la radicata cultura contadina si ribellò alle imposizioni ed agli inviti delle autorità militari di abbandonare e molti, quando poterono, sfuggirono alle misure di sfollamento.
Di fronte alla fuga praticamente completa delle autorità locali, i referenti locali dell’autorità ecclesiastica, scelsero di rimanere con i loro parrocchiani che decisero di rimanere in Friuli. Il clero, perciò, venne sottoposto ad un durissimo banco di prova; chi aveva scelto di rimanere lo aveva fatto di propria sponte o “in coscienza”.
Lo “Stato personale del Clero” del 1914, ultimo documento ufficiale prima della rotta di Caporetto, indicava per l’Arcidiocesi di Udine con riferimento al solo clero diocesano, la seguente struttura: 678 sacerdoti, 27 Vicari Foranei e 232 parrocchie, vicarie e cappellanie indipendenti.
Ne era Ordinario Sua Eminenza Monsignor Antonio Anastasio Rossi che nel maggio1910 aveva preso possesso dell’Arcidiocesi.
L’abbondanza di clero permise all’Autorità Diocesana di offrire un servizio pastorale in loco quasi ovunque in quanto la regione era caratterizzata da centri abitati sparsi lungo tutto il territorio.
Di questi 678 sacerdoti, 600 decisero spontaneamente di rimanere in Friuli accanto ai loro parrocchiani.
La vita di Cividale del Friuli, durante l’occupazione, è stata documentata dagli scritti di Monsignor Liva Valentino, il Decano del Capitolo cividalese. Egli restò vicino alla sua gente rimasta in città occupandosi di tutte le questioni burocratiche, amministrative e di assistenza.
Mons. Liva riporta in modo certosino, giornalmente, quanto accadde a Cividale fin dai primi giorni dell’esodo, dal 27 ottobre 1917 per un anno intero fino all’avvenuta Liberazione del 4 novembre 1918.
Nel 1928, i suoi scritti, vennero riportati in due volumi dai seguenti titoli La vita di un popolo e Anno di prigionia, stampati dalla Tipografia F.lli Stagni di Cividale del Friuli.
Dalle testimonianze di Mons. Liva si apprende che nella mattina del 27 ottobre 1917 si potevano contare cento persone a Cividale, compresi alcuni soldati del Genio Militare.
Singolare l’episodio accaduto presso il ponte che era stato fatto saltare dalle truppe italiane, cercando di rallentare, in questo modo, l’avanzata dell’esercito austro – tedesco.
I sacerdoti, sentiti dei lamenti, si avvicinarono e videro un giovane ufficiale ed un soldato che erano rimasti feriti durante il brillamento del ponte. L’Ufficiale era Gian Francesco Giorgi di Modena che, assieme al soldato, venne fatto ricoverare immediatamente in ospedale e che morì nei primi giorni di dicembre.
L’Ufficiale Giorgi venne insignito della Medaglia d’Argento alla memoria grazie alla relazione di Mons. Liva riguardo alla sua azione eroica.
Alla fine di ottobre a Mons. Liva, da Udine, giunse il decreto con il quale il Provicario Generale della Diocesi di Udine lo nominava Decano Provicario per la Circoscrizione di Cividale, di San Pietro al Natisone, di Corno di Rosazzo, di Nimis.
Il Decano diventò anche Sindaco di Cividale durante l’anno dell’occupazione.
Immediatamente egli si occupò di creare un comitato di assistenza per tutelare le persone rimaste; mediò sempre fra la popolazione ed il Comando militare straniero.
Nei primi giorni di novembre alcuni cividalesi ritornarono ed assieme a loro anche i soldati sbandati e fuggiti dai campi di concentramento.
Il Comandante della piazza, von Below, temette che alcuni residenti accogliessero i prigionieri evasi dai campi di prigionia ed emise dei bandi con cui minacciò di fucilazione chiunque accogliesse i fuggiaschi; stessa pena per chi era stato ospitato.
Mons. Liva ed i suoi confratelli diedero ospitalità, di nascosto, ai soldati per poi inviarli ai parroci di montagna.
La preoccupazione più grande di Mons. Liva fu quella degli approvvigionamenti per far in modo che fosse garantita la sopravvivenza ai cividalesi. Molte furono le richieste da lui inviate ai comandi degli occupanti ma non ricevette mai risposta. Per fronteggiare l’emergenza decise di creare il Consiglio Comunale presieduto da lui medesimo e nominando altre persone assessori e segretari. Nelle frazioni vennero nominati altrettanti capi.
La nuova amministrazione cercò di provvedere al necessario per i fabbisogni primari delle famiglie e di risolvere la tragica questione dei prigionieri: vicino a Cividale sorgevano diversi campi di concentramento.
Un’altra questione riguardava l’assistenza ai malati ed i feriti.
Già dal 31 ottobre, una piccola colonia di Orsoline, era partita per il seminario di Rubignacco, che era stato convertito in ospedale militare, per assistere e curare i soldati italiani lasciati abbandonati dai tedeschi.
Fin dai primi giorni dell’invasione, il Comando Germanico aveva manifestato l’intenzione di impadronirsi dell’Ospedale Civile.
L’Amministrazione non riuscì ad opporsi e così l’Ospedale Civile fu a disposizione dei feriti dell’esercito austro – ungarico e tedesco ed inoltre, divenne la sede della Direzione Generale di tutti gli Ospedali della città.
Nel frattempo tutti gli nosocomi militari di Cividale andarono svuotandosi dei feriti e dei malati a causa della distanza dal fronte.
Dai primi giorni dell’avvenuta occupazione, iniziarono le requisizioni che venivano attuate in ogni abitazione, rovinandole e saccheggiandole di ogni bene, di biancheria, di mobili, e portando via gli animali rimasti.
Dal 27 ottobre 1917 l’acquedotto Poiana non erogava più acqua né per Cividale e nemmeno agli altri Comuni facenti parte del Consorzio. Questo fu dovuto allo scoppio di una mina durante la ritirata che provocò lo schiacciamento del condotto vicino al luogo di presa ed alla rottura delle tubature.
La popolazione ebbe a disposizione solo l’acqua dei pozzi ma era rischiosa poiché vi era il grande pericolo delle epidemie ed inoltre non si poteva garantire il servizio di spegnimento d’incendi.
A Cividale funzionò un grande magazzino sin dal novembre 1917. Vennero distribuite delle derrate alimentari cercando di aiutare quanto più si poteva la popolazione.
In prossimità delle feste natalizie la situazione andò precipitando. I soldati giravano per le vie della cittadina ubriachi, terrorizzando e spaventando le persone; e molte volte compivano dei furti che diventarono sempre più frequenti.
Mons. Liva fece presente, di quanto stesse accadendo a Cividale, in molte missive di protesta inviate al Comando Austriaco con la preghiera che fossero a loro volta inoltrate al Comando Superiore.
Cividale alla fine del 1917 si trovò, così, in una situazione di completo isolamento, completamente sotto il dominio dell’esercito austro – ungarico e tedesco. La popolazione pur afflitta dalla crescente disperazione, nutriva un grande desiderio di ricevere della corrispondenza da coloro i quali erano fuggiti. (estratto da studio di Giulia Sattolo)(fonte)