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Armando Palma. Oro alla patria, 1935

    Armando Palma. Oro alla patria, 1935

    COMANDO IN CAMPO DIPARTIMENTO A. T.

    Si certifica che il Capo Cann.
    Palma Armando

    Ha dato oro alla Patria.[1]

    La Spezia, 18 Novembre – XIV 1935.

    L’AMMIRAGLIO DI SQUADRA

    Comando in Capo

    Vincenzo de Feo[2]

    Feo

    Timbro COMANDO IN CAPO DIPARTIMENTO MARITTIMO TIRRENO –  LA SPEZIA


    Note

    [1] Il 18 dicembre 1935 le coppie italiane, e in primo luogo le donne, furono chiamate a consegnare le fedi nuziali ricevendo in cambio anelli senza valore: si consumava così la Giornata della Fede, lo sposalizio simbolico con la patria fascista. Per i suoi coreografi l’offerta collettiva degli anelli nuziali doveva rappresentare la spettacolarizzazione dell’unione mistica delle italiane e degli italiani con il fascismo, in risposta alle «inique sanzioni» imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia.

    La mobilitazione fu il risultato di una complessa interazione tra i vertici politici e il popolo del Partito fascista. Preparata da iniziative dal basso di cittadini che, sin dai primi di ottobre, avevano offerto spontaneamente oggetti d’oro per sostenere le necessità economiche dell’Italia in guerra, la raccolta venne promossa dal governo con grande sforzo di propaganda, sotto la pressione delle sanzioni societarie. Il «plebiscito dell’oro» non aveva solo finalità economiche, ma un grande potenziale propagandistico: da un lato mirava a migliorare l’immagine esterna del regime nei confronti delle democrazie ‘plutocratiche’ occidentali e a riabilitare la guerra come espressione autentica della volontà popolare italiana. Dall’altro, i vertici fiutarono la grande opportunità per coinvolgere molto più fortemente la popolazione nel sostegno alla patria, unificandola come comunità compatta e solidale sotto il fascismo: l’offerta di gioielli di famiglia e di argenteria, orologi da tasca e medaglioni, distintivi onorifici e coppe ricordo simboleggiava il superamento dell’egoismo liberale in favore di un primato della collettività sotto il duce. Alla fine di novembre prese corpo l’idea di una donazione collettiva delle fedi nuziali da realizzarsi, come scrisse Giuseppe Bottai, in modo «totalitario».

    La campagna di propaganda che preparava la Giornata della Fede si aprì quindi il primo dicembre. Nel quadro complessivo della strategia di mobilitazione, il tema principale utilizzato dal regime ebbe come sfondo l’eroismo dei caduti della prima guerra mondiale. Il «grande» sacrificio dei morti della Grande Guerra impegnava tutti gli italiani al «piccolo» sacrificio per la patria. Nella gara patriottica dell’oro vennero coinvolte tutte le organizzazioni in cui era inquadrata la società: associazioni professionali, gruppi giovanili e studenteschi, organizzazioni ricreative e sportive, sindacati, scuole. Imponente fu lo sforzo dei media. La donazione dell’oro alla patria divenne il tema centrale dei messaggi alla radio, sui giornali, nei cortometraggi dell’Istituto Luce proiettati prima dei film. Il «sacrificio» patriottico della Giornata della Fede fu anche uno dei temi prediletti dagli illustratori nei manifesti di propaganda, nelle cartoline postali e soprattutto sulla stampa illustrata. Le matite di Achille Beltrame sulla «Domenica del Corriere» e di Mario Sironi sul «Popolo d’Italia», insieme a quelle di tanti illustratori meno noti, contribuirono a conferire agli slogan del regime un pathos tragico ed eroico, ma anche quella virile aggressività che tanto stava a cuore all’apparato propagandistico.

    Un ruolo centrale fu attribuito alle donne: nel corso della mobilitazione, mediante un ampio coinvolgimento delle organizzazioni femminili del Partito; nella Giornata della Fede, dando loro una visibilità pubblica del tutto inconsueta in Italia e ancorandola ai tradizionali doveri femminili di moglie e madre. Non a caso al centro del rito dell’offerta collettiva delle fedi a piazza Venezia, che alle 8,30 del mattino aprì le celebrazioni nazionali del 18 dicembre dinanzi a decine di migliaia di persone, vi fu il dono degli anelli nuziali da parte della regina Elena di Savoia, che ricevette le fedi d’acciaio dall’ordinario militare monsignor Angelo Bartolomasi. In una liturgia che alternava grida di giubilo, inni, fanfare, saluti romani, momenti di silenzio, la regina, prima tra le donne d’Italia, portò sulla tomba del Milite ignoto una coppia di fedi nuziali, legate tra loro da un nastro azzurro: tutte intorno erano schierate, in file compatte, le vedove e le madri dei caduti e le militanti delle organizzazioni femminili del Partito.

    Nel rito delle fedi risultò cruciale il coinvolgimento della Chiesa cattolica. L’anello matrimoniale rappresentava infatti il segno di un sacramento di cui lo Stato, attraverso il Concordato, aveva riconosciuto il valore civile. Era dunque necessario che sacerdoti e vescovi benedicessero le vere in metallo e sostenessero la campagna fascista di donazione. La risposta cattolica superò però le più rosee previsioni di Mussolini: attraverso omelie, articoli, fogli diocesani, i vescovi e i sacerdoti italiani diffusero i concetti di fondo della propaganda fascista accentuandone anzi la persuasività attraverso il ricorso ad argomentazioni di natura religiosa. L’Italia riconciliata con il cattolicesimo – questa in sintesi la narrazione offerta dall’episcopato – aveva una missione di civiltà nel mondo, avversata dalle forze occulte messe in campo dal protestantesimo, dalla massoneria, dal bolscevismo internazionale, per combattere le quali ogni cittadino/fedele era chiamato a compiere un sacrificio che non era solo necessario, ma gradito a Dio. Con il sostegno dei vescovi, si raccolsero metalli preziosi nei locali delle chiese, nelle scuole e negli orfanotrofi cattolici, nei conventi. Secondo l’arcivescovo di Messina, monsignor Angelo Paino, nessuna famiglia, neanche la più povera, poteva sottrarsi al dovere di offrire alla patria «qualche monile, qualche oggetto prezioso, anche caro ricordo».

    Molti vescovi e alcuni cardinali offrirono anelli e croci d’oro con l’intento di dare esempio di patriottismo ai fedeli. Lo zelo indusse alcuni prelati a far fondere gli ex voto, nonostante la legge canonica ne vietasse l’alienazione per finalità di ordine secolare. Fu questa, ad esempio, l’indicazione data ai parroci, ai rettori dei santuari e ai presidenti delle confraternite dall’arcivescovo di Monreale monsignor Eugenio Filippi, il cui esempio venne seguito di lì a poco da altri vescovi dell’Italia meridionale. Un parroco di Napoli prospettò una grande manifestazione in cui i bambini avrebbero donato alla Patria la medaglietta della prima comunione. In provincia di Grosseto un sacerdote propose di far fondere le campane della chiesa. I simboli religiosi si fusero con i linguaggi politici.

    Cosa si diceva di tutto questo in Vaticano? Pio XI aveva giudicato assurda e criminale la guerra all’impero millenario di Hailè Selassiè, ma non denunciò mai pubblicamente l’aggressione fascista, perché al minimo ostacolo subentravano in lui la prudenza e il timore di incrinare i rapporti privilegiati stabiliti con il governo di Mussolini. Il silenzio del papa su una guerra di aggressione, che provocò 300 mila morti tra gli etiopi, spiega anche l’enorme sostegno offerto dai cattolici italiani alla mobilitazione del regime. Eppure, proprio nei giorni della campagna dell’oro, monsignor Domenico Tardini, uno dei più stretti collaboratori di Pio XI, metteva nero su bianco i «danni portati dal Fascismo»: non in un testo a uso privato, ma in note di lavoro destinate alle udienze con il papa. Con straordinaria chiarezza, Tardini coglieva i mali del regime, ne individuava gli aspetti liberticidi, criticava pesantemente il suo duce, denunciava l’impresa africana come una vigliacca aggressione, definiva il clero «tumultuoso, esaltato, guerrafondaio». E aggiungeva: «Almeno si salvassero i Vescovi. Niente affatto. Più verbosi, più eccitati, più… squilibrati di tutti. Offrono oro, argento puri: anelli, catene, croci, orologi, sterline. E parlano di civiltà, di religione, di missione dell’Italia in Africa… E intanto l’Italia si prepara a mitragliare, a cannoneggiare migliaia e migliaia di Etiopi, rei di difendere casa loro». La lucida analisi svolta in Segreteria di Stato sembrava però non implicare alcuna assunzione di responsabilità da parte del Vaticano: né rispetto all’affermazione della dittatura e al consenso da essa costruito sino a quel momento, né rispetto alle posizioni da assumere, pubblicamente, in futuro.

    La pressione congiunta delle istituzioni e dello slancio collettivo fece sì che a Roma il 70% degli adulti sposati donasse i propri anelli nuziali. Neanche le élite si sottrassero. I nomi di Benedetto Croce e Luigi Albertini figurarono nell’elenco dei senatori che avevano donato alla patria le proprie medaglie d’oro. Luigi Pirandello inviò a Mussolini quattro medaglie, inclusa quella del premio Nobel per la letteratura, che gli era stato assegnato l’anno prima.

    Con l’entusiasmo per la guerra alle stelle e un’opinione pubblica bramosa di successi, il duce aveva bisogno di vittorie: i bombardamenti aerei di gas asfissianti e velenosi, che uccidevano indiscriminatamente combattenti e non combattenti e avvelenavano i fiumi, dovettero apparigli una storica necessità.(fonte)

    [2]

    Vincenzo de Feo (Mirabello Sannitico, 16 settembre 1876 – Roma, 17 gennaio 1955) è stato un ammiraglio e politico italiano. Fu governatore dell’Eritrea.

    Nacque a Mirabello Sannitico (Campobasso) il 16 settembre del 1876 da Desiderio De Feo e da Angiola Belisaria Guacci. Il padre fu un patriota risorgimentale che combatté con La Prima Legione Sannitica costituita e comandata dal fratello Francesco De Feo. Formazione,quest’ultima che operò nel settembre/ottobre del 1860 nel Beneventano, in Molise e in Abruzzo. Il primogenito di Desiderio fu Florindo De Feo che intraprese la carriera militare e nel dicembre del 1895 partecipò, come comandante in seconda, all’assedio del forte di Macallè durante la prima guerra italo abissina conclusasi con la disfatta di Adua.

    Anche il giovane Vincenzo scelse la vita militare ma in marina. Entro infatti all’Accademia navale dove ne uscì nel 1895 con il grado di Guardia Marina. Il suo primo imbarco fu sulla fregata a vapore con ruote e vele “Ruggiero di Lauria” proveniente ancora dalla Regia Flotta Borbonica. Durante la guerra italo-turca del 1911 prestò servizio sulla corvetta “Milano” e con questa partecipò a varie azioni di scorta sia sulle coste libiche che nell’Egeo. Fu quindi assegnato come comandante in seconda sul “Lanciere”, sul “Vittorio Emanuele” e sul “Regina Margherita” per poi ottenere il comando della torpediniera N. 1609. Iniziò così una lunga carriera che annovera circa quaranta imbarchi. Allo scoppio della prima guerra mondiale venne destinato alla nuova arma : i sommergibili e nel 1915 prese il comando del “Vellella” un sommergibile da mille tonnellate. Con questo il 16 agosto partì da Brindisi per una missione di agguato all’imboccatura della baia di Cattaro sulla costa dalmata dove era situata una munitissima base navale asburgica. Qui, a seicento metri dalla costa, dopo che il cavo di ormeggio di una mina si era impigliato al timone, fu attaccato dal cacciatorpediniere Uskoke a meno di cinquanta metri di distanza, prima con il lancio di un siluro, che con un’abile manovra fu evitato (il siluro scalfì la torretta e percorse tutta la metà prodiera) poi con bombe di profondità. Ad una quota d’immersione di venti metri riuscì a disimpegnarsi ma per emergere, ormai privo di riserve d’aria, dovette aspettare ventuno ore dopo. Per tale azione ottenne la sua prima Medaglia d’Argento. La seconda la ottenne nel 1918 per un’azione sempre sulla costa dalmata al comando della Squadriglia sommergibili del Medio Adriatico. In quell’anno sposò Olga Pirzio Biroli.

    Dal 1923 al 1925 fu impegnato in incarichi a terra nella Direzione Generale Artiglieria ed Armamenti presso il Ministero. Dal 1926 al 1928 assunse il Comando M.M. di Castellamare di Stabia e quindi dal 1930 al 1933, con il grado di Ammiraglio di Divisione comandò la base navale di Maddalena. Durante questo periodo mise mano alla revisione del Regolamento che disciplinava la vita dell’arcipelago ed i rapporti con i civili risalente ancora a quello dell’inizio ottocento dell’Ammiraglio Desgeneys. Furono disciplinate varie materie tenuto conto che tutto gravitava intorno alla Marina Militare: il transito delle navi, la pesca, il servizio sanitario, la balneazione, corsi d’istruzione per gli analfabeti, punti di approvvigionamento idrico, la custodia e la guardia alla casa di Garibaldi. Nel dicembre del 1934 Vincenzo De Feo sull’Incrociatore pesante “Trento” innalzò la bandiera di comando della III^ Divisione che, con gli incrociatori Trieste e Bolzano, faceva parte della I^ Squadra della flotta militare italiana comandata dall’Ammiraglio Riccardi (suo pari grado ma a cui spettò il commando operativo essendo di pochi mesi più anziano in servizio).

    Al di là degli incarichi ricoperti Vincenzo De Feo si laureò in ingegneria navale e fu l’unico tecnico della marina militare italiana a vantare cinque brevetti di specializzazione: armi subacquee, chimica degli esplosivi, elettrotecnica, radiotelegrafia e comunicazioni, artiglieria e balistica. Egli fin da giovane intraprese studi personali sul sistema di rilevazione della posizione del nemico. Da Lepanto a Trafalgar ci si era basati sul cannocchiale, dopo subentrarono le navi corazzate ma soprattutto i cannoni di grande calibro (305) adottati da tutte le marinerie ed i telemetri, ma presto ci si accorse che il problema nella precisione di tiro non era tanto la capacità di gittata ma il fatto che un proiettile impiegava non meno di trenta secondi di volo per cadere sul bersaglio. Il “punto futuro” della nave oggetto di fuoco non era quindi determinabile, atteso che la stessa unità avrebbe potuto cambiare rotta a piacimento mentre la piattaforma di tiro, che sparava, era soggetta, nel frattempo, a uno spostamento nello spazio. Già nel 1905 formulò un sistema che permise la messa a fuoco del bersaglio a lunga distanza e, una volta affinato, nel 1913 ne pubblicò i risultati sulla Rivista Marittima. Mel 1921 e nel 1922 seguirono altri articoli. Il sistema fu quindi sottoposto all’esame delle competenti autorità militari. Si trattava di un particolarissimo giroscopio (realizzato a proprie spese) denominato “gimetro” che fu destinato a costituire il cuore delle centrali di tiro elettromeccaniche adottate dalla flotta italiana dal 1930 in poi. Tale sistema divenne superato solo nel 1944 quando gli americani adottarono i primissimi elaboratori elettronici evolutisi, successivamente, negli attuali computer. Ai suoi studi è anche da attribuire il metodo di tiro contraereo, chiamato O.G., che venne utilizzato dalle centrali contraeree in dotazione all’apertura delle ostilità nel 1940.

    La sua collaborazione con la Rivista Marittima durò fino al 1936. Tra i tanti articoli va ricordato “Dreadnouth or Fearful” apparso nel 1923 in cui, partendo da un’analisi della battaglia navale dello Jutland, combattuta dagli inglesi e dai tedeschi nel 1916 durante la prima guerra mondiale, sostenne, con grande lungimiranza, che le corazzate non sarebbero più state le protagoniste nella guerra sui mari e che il loro posto sarebbe stato preso dai sommergibili e dal mezzo aereo, come poi avvenne. Peccato che la sua intuizione sia stata ignorata da Mussolini che sosteneva che l’Italia era una grande portaerei, salvo poi pagare duramente la sconfitta, come visto, a Capo Matapan nel marzo del 1941, dove gli inglesi, oltre il radar, disponevano anche di una portaerei dal cui ponte era decollato l’aereo che aveva immobilizzato l’incrociatore Pola, rallentando così la velocità di tutta la squadra italiana, individuata e centrata durante la notte. Parlando del disastro di Capo Matapan che, oltre la perdita delle navi, costò la morte a 2.200 uomini, la nota curiosa è che Vincenzo De Feo era lo zio materno di Ugo Tiberio (Campobasso 1904/ Livorno 1980) da lui indirizzato alla carriera nella Marina Militare. Quest’ultimo fu l’inventore già negli anni 30 del Radar Italiano. Partendo da approfondimenti sulle ricerche di Marconi mise a punto un sistema di localizzazione degli oggetti a distanza con onde magnetiche detto “radio telemetro”. Solo la miopia della Regia Marina che non finanziò la scoperta permise agli inglesi di essere i primi nel 1940 ad installare il radar sulle navi militari ma con una spesa di dieci milioni di sterline. Solo la grande onestà e l’amor di patria fecero sì che Ugo Tiberio rifiutasse allettanti offerte dal governo americano che aveva intuito l’importanza della scoperta. Il comandante della flotta italiana, Ammiraglio Iachino, gli ingiunse invece di abbandonare gli studi in quanto “ di notte in mare non si combatte”. Per le sue resistenze gli fu inflitta anche la cella di rigore salvo poi ricordarsi di lui dopo la disfatta di Capo Matapan.

    Ritornando a Vincenzo De Feo nel 1937 fu messo fuori quadro della Marina Militare e posto a disposizione del Ministero dell’Africa Italiana essendo stato nominato Governatore dell’Eritrea, carica che mantenne fino al 1938. Nel 1939 fu nominato Senatore del Regno.

    Scoppiata la guerra nel 1940 fu assegnato alla Commissione di Armistizio con la Francia ed in tale ambito operò dal settembre di quell’anno fino all’agosto del 1943. Fu lui a firmare e a redigere il protocollo che, per quanto riguardava la marina militare, regolava le condizioni della resa francese. Proprio nel corso di quest’incarico presso la Commissione d’Armistizio i cui lavori si protrassero negli anni della guerra, Vincenzo De Feo scrisse un’ultima importante pagina di storia ad oggi ancora quasi completamente ignorata in quanto coperta da segreto di Stato. Gli italiani infatti si accorsero, sin dal 1941, che i locali dove si riuniva la Commissione (in Francia come a Biserta in Tunisia) erano stati riempiti di microfoni dai francesi allo scopo di intercettare informazioni da girare ai servizi inglesi. Cominciò allora una sottile opera di controinformazione intesa a filtrare, adeguatamente mischiate, notizie autentiche, ma poco sensibili, ed elementi falsi allo scopo di far sapere ai francesi quel che si voleva far intendere agli inglesi. I risultati di questa complessa partita a scacchi giocata fino al novembre del 1942 furono eccellenti con l’infiltrazione in due reti spionistiche che alla fine furono debellate.

    L’Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo il 7 agosto 1944 lo deferì poiché ritenuto responsabile di aver appoggiato il regime. Stessa sorte subirono gli ammiragli Luigi Miraglia e Umberto Bucci anche loro nominati a suo tempo senatori del Regno. Venne definitivamente collocato a riposo nel 1949. Morì nella sua casa di Roma il 17 gennaio 1955 e fu sepolto al cimitero del Verano.(fonte)